Jerry Reinsdorf è uno dei proprietari di lungo corso più rispettati nelle cerchie NBA, uno di quelli che non mettono il becco nelle decisioni tecniche, ma allo stesso tempo, è un tipo duro, che non fa sconti (è da sempre su posizioni anti-sindacali, anche in MLB, dove possiede i Chicago White Sox), sempre pronto a difendere il management nei confronti del coaching staff e dei giocatori.

Forse proprio per questo motivo, Chicago è una franchigia che tende a creare aspre contrapposizioni tra il front-office e lo staff tecnico. È stato scritto tutto sul conflitto tra Phil Jackson e Jerry Krause, che inizialmente sponsorizzò lo Zen Master (con coraggio, perché nessuno lo reputava materiale da panchina NBA), per poi osteggiarlo quando iniziò a sospettare che il buon vecchio Phil volesse fargli le scarpe.

Se la faida Krause-Jackson poteva essere ascritta esclusivamente ai rapporti personali tra i due litiganti, la stessa vicenda si è ripetuta, identica, a tre lustri di distanza, con protagonisti Thibodeau e Gar Forman (l’attuale GM), il che rende lecito chiedersi se queste frizioni non siano frutto dell’impostazione societaria, che porta allenatori di personalità a confliggere con il front-office.

Nel 2012, Gar Forman licenziò l’assistente più fidato e prezioso di Thibs, quel Ron Adams che ha fatto le fortune difensive dei Warriors, allontanandolo per motivi mai del tutto chiariti, palesando la lotta di potere in corso nei corridoi dello United Center. Da quel momento, Forman ha isolato Thibodeau in modo pubblico, iniziando a cuocerlo a fuoco lento, con un’ultima stagione vissuta da separato in casa.

Di là dai conflitti personali (dei quali nessuno può veramente parlare con contezza, eccetto i diretti interessati, e, forse, qualche privilegiato insider, come Sam Smith), i Bulls volevano cambiare linea tecnica, convertendosi da squadra grit-and-grind a formazione moderna, a trazione anteriore e capace di mettere punti sul tabellone in bello stile.

C’è una buona dose d’ironia in tutto ciò, visto che i Bulls sono sempre stati piuttosto allergici agli analytics, tanto da essersi arresi a montare le telecamere di SportVU solo quando l’NBA le ha introdotte per tutte e 30 le franchigie, mentre Thibs è un allenatore maniacalmente dedito ai numeri e al videotape, che ha costruito la sua difesa vivisezionando gli attacchi moderni.

121915_jimmyhoibIl sostanziale fiasco della convivenza Gasol-Noah nel 2014-15 ha definitivamente convinto Forman e Paxson a chiudere l’esperienza con coach Thibs, rimpiazzandolo con Fred Hoiberg, l’ex-Bull che a Iowa State aveva mostrato bel gioco e idee moderne; a volte però, gli assiomi validi sulla carta non trovano riscontro sul campo.

A meno di un anno di distanza, Chicago è una squadra a pezzi, che non ha svoltato in attacco ma in compenso ha perso colpi in difesa; l’emblema di questo disastro è Joakim Noah, relegato ai margini del progetto, finché l’ennesimo infortunio alla spalla ha chiuso anticipatamente la sua stagione, sconsigliando al front office di scambiare Pau Gasol (quasi certamente in uscita a giugno, quando sarà unrestricted free agent se deciderà di rinunciare alla player option).

Noah, un tempo cuore pulsante del gruppo, si è trovato ridotto a languire sul pino; era l’uomo che dettava i tempi difensivi, quello che alzava il volume della radio grazie alla sua intensità e alla grinta, uno che, pur con una meccanica di tiro da brividi, aveva messo assieme percentuali rispettabili dalla media distanza, e giocava un ruolo-chiave nell’attacco.

Abbiamo tutti derubricato le difficoltà iniziali di Chicago sotto la voce “dolori della crescita”, ma con il passare delle settimane e poi dei mesi, è diventato evidente a chiunque abbia occhi per vedere che i Bulls hanno smarrito la coesione e l’attitudine difensiva grazie alle quali avevano superato momenti tremendi (come gli infortuni in serie a Derrick Rose).

Ragionando con il senno di poi, mettere da parte Noah (che si era presentato in gran forma al training camp) non è stata un’idea geniale, perché ha rotto gli equilibri interni allo spogliatoio, e ha tolto sicurezza al giocatore emotivamente più importante del gruppo nel bel mezzo di una delicatissima transizione.

Il DefRtg di squadra si è progressivamente inabissato (vedi grafico qui sotto), e mentre non rimaneva traccia della difesa tignosa e dello spirito di gruppo delle 5 stagioni con Thibodeau, l’agognata svolta offensiva tardava a palesarsi, condannando Chicago ad una mediocrità imbarazzante, soprattutto per una formazione che, in fin dei conti, puntava alle Finals NBA.

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Al momento di scrivere, i Bulls sono reduci dalla terza sconfitta per blowout consecutiva, due contro New York e ora anche contro Orlando. Butler e compagni difendono male, attaccano in modo anonimo, e soprattutto, non c’è più alcuna intensità, non ci sono tuffi per recuperare un pallone impossibile, o qualità nell’esecuzione.

È come se Tom Thibodeau, svuotando il suo ufficio al Berto Center, si fosse portato via anche la garra che contraddistingueva i suoi uomini, e forse è così; forse, si è trattato di un caso da manuale di sottovalutazione del lavoro di un allenatore che tra un urlaccio e una reprimenda, era entrato nella testa dei suoi giocatori.

Piano piano, i Bulls sono scivolati fuori dalla griglia Playoffs (attualmente l’ottava piazza appartiene ai Detroit Pistons, che, con tutti i loro difetti, danno almeno l’impressione d’essere una squadra), e la stagione che doveva sancire il salto di qualità in direzione dell’élite NBA, si è viceversa trasformata in un capitombolo di immani proporzioni, che consegna la franchigia ad un futuro d’incertezza.

Non è certamente tutta colpa di Hoiberg (per lui, quinquennale da 25 milioni complessivi), erede di un gruppo che, nel corso degli anni, ha speso tantissimo dal punto di vista emotivo, e che forse ha già dato il meglio di sé, ma il “sindaco” ha calcolato male l’approccio ad un gruppo particolare, che amava essere allenato in un certo modo, forte di certezze cementate su ferree regole difensive e di comportamento.

A volte cambiare metodo genera nuovi stimoli, e Fred Hoiberg pensava di essere la voce giusta per portare equilibrio in un gruppo di veterani; ha da subito allenato in controtendenza rispetto al predecessore, concedendo più autonomia ai giocatori, e creando un clima più rilassato, ma la situazione non ha preso la piega auspicata, anzi.

Privati del pugno di ferro con il quale sono cresciuti, i vari Rose, Butler, Gibson e Noah hanno perso punti di riferimento, senza trovarne altri. Dopo una brutta sconfitta con i Clippers, Pau Gasol, al solito lucido, ha detto: “è molto semplice: non abbiamo disciplina”, e questo dipende anche dall’attitudine di una serie di giocatori, cresciuti alla scuola di Thibs, che ha il limite di tenere sempre il guinzaglio cortissimo, e non responsabilizza i giocatori.

Ciò detto, è altresì chiaro che Hoiberg porta le sue belle colpe, perché ha dato per scontata la tenuta difensiva della squadra, insistendo solo ed esclusivamente sui suoi principi offensivi (per i quali, beninteso, era stato assunto). In ultima analisi, ha fatto passare il messaggio sbagliato, trasformando Chicago in un gruppo di cicale.

Certo, ci sono stati anche tanti infortuni, ma in passato la cifra dei Bulls consisteva nel rimanere sempre fedeli a sé stessi nonostante defezioni e accanimenti della sorte; oggi invece Chicago è apatica, subisce senza reagire.

I Bulls non fanno close-out sui tiratori, non tagliano fuori (sono secondi per second-chance points concessi agli avversari) e sembrano prosciugati di ogni energia emotiva, tanto che il problema non risulta ascrivibile tanto alla dimensione tecnica, quando a quella mentale.

La domanda da un milione di dollari è se questo avviene perché Chicago è giunta al proprio naturale crepuscolo, o perché era una formazione che si cibava di durezza e asprezza, e con Hoiberg e l’accresciuto ruolo di Gasol e Nikola Mirotic, questi elementi sono venuti a mancare?

Secondo Noah: “la nostra identità è sempre stata che, arrivato a Chicago, devi essere pronto alla guerra. Non mi interessa cosa dicano i numeri, basta guardare le partite. Ci sono 25.000 persone nel palazzetto, e non vola una mosca; non è mai stato così, è difficile vedere il pubblico così, ed è colpa nostra; se arrivi qui e giochi con il fuoco dento, impazziranno per te, ma se scendi in campo costeggiando le partite, senza energia… Non sono sicuro che possiamo vincere così”.

L’unico a provare a portare l’antico spirito in campo è Taj Gibson, da sempre una delle voci più importanti dello spogliatoio, mentre Jimmy Butler, con un ginocchio fuori posto che gli da palesemente fastidio (15 punti di media con il 40% in marzo), continua a giocarci sopra e non vuole sentir parlare di chirurghi, ma non riesce ancora ad interpretare il ruolo di stella ai livelli richiesti.

A 25 anni, l’ex Marquette è ormai l’uomo franchigia conclamato, ma sconta un attacco che è il ventesimo NBA, in termini di percentuali dal campo (è sceso dal 37.8% da tre dello scorso anno, all’attuale 31.8%), e così anche la sua stat-line (21.3 punti 5.2 rimbalzi e 4.4 assist) va messa in prospettiva all’interno di una stagione largamente deludente.

Qualunque cosa succeda quest’estate, è chiaro che Jimmy Butler rimarrà il franchise-player di Chicago; un competitor come lui, oltretutto two-way, è merce rara anche in NBA, e, sulla scia di Paul George e Kahwi Leonard, può essere l’uomo giusto al centro di un progetto vincente ai massimi livelli.

Dato per scontato che l’approdo ai Playoffs sarà impresa ardua, il pensiero volge già all’estate, quando i Bulls dovranno rivedere la posizione di Fred Hoiberg, e affrontare numerose e delicate scelte sulla free agency.

Pau Gasol viene dall’ennesima ottima stagione (doppia doppia di media, con 11 rimbalzi, 16.6 punti, e 4.4 assist, ma solo con il 46.9% al tiro), ed è un giocatore indiscutibile, ma ha 35 anni, ed è un corpo estraneo rispetto al nucleo storico della squadra –tutto di scuola americana, e con una marcata predilezione per “power” anziché “finesse”.

Probabilmente sarà lo stesso catalano a cercare una nuova destinazione presso franchigie pronte per vincere immediatamente, levando Forman dall’imbarazzo, e liberando sette milioni di spazio salariale aggiuntivo per tentare una rapida correzione in corso d’opera.

Joakim Noah, a sua volta, viene da stagioni travagliate dagli infortuni, e con tanti punti interrogativi sulla sua tenuta atletica, difficilmente comanderà contratti importanti. Il figlio di Yannick è il giocatore che più di tutti ha sofferto il combinato disposto Gasol-Hoiberg, e (sempre che non vinca la tentazione di cercare nuove strade) chiunque siederà sulla panchina dello United Center, dovrà essere bravo a recuperarlo, restituendolo al ruolo da passatore di post alto che aveva contribuito a farne una stella.

Chicago è un grande mercato, e certamente attrarrà free-agent, ma avrà a disposizione meno di 20 milioni per rifirmare Noah e aggiungere giocatori; i Bulls potrebbero decidere di scaricare Joakim e puntare tutto su un lungo prestigioso, come Horford o Whiteside, ma non sono, in questo momento, la meta più ambita dai grandi nomi.

Può anche darsi che Gar Forman e Paxson decidano di temporeggiare per poi intervenire pesantemente nell’estate 2017, quando i Bulls avranno sotto contratto solo Bobby Portis, Jimmy Butler, McDermott e Dunleavy, ma sono discorsi molto lontani nel tempo.

Nell’immediato, occorrerà capire il destino dello stesso Forman (dal 9 febbraio c’è una petizione on-line per chiederne il licenziamento, giunta a 12.000 firme) e Paxson; Reinsdorf preferisce pensare ai suoi amati White Sox, ma in Illinois monta una certa insoddisfazione, e anche il vecchio Jerry potrebbe soccombere alla pressione, cacciando così i due uomini ai quali ha affidato la franchigia.

Forman e Paxson hanno costruito questi Bulls, ma, come Penelope, di notte hanno disfatto quanto avevano tessuto di giorno; la faida con Thibodeau –che non aveva nulla di tecnico e molto di personale– ha mietuto un ben misero raccolto, e a questo punto, è forte la tentazione giornalistica di ascrivere tutti i meriti dei passati successi all’allenatore, e non al gruppo dirigente.

In realtà Forman si è dimostrato un GM piuttosto competente, abile soprattutto in sede di draft, e dal 2008, quando si è insediato (in precedenza aveva ricoperto vari incarichi sempre all’interno dell’organizzazione), Chicago vanta il quarto miglior record di tutta la NBA, ma allo stesso tempo, ha preso decisioni dettate da motivi personali, anziché per il bene della franchigia, e queste decisioni si sono poi rivelate clamorosamente sbagliate.

I volti dei giocatori dei Bulls sono il ritratto di un fallimento; quelli che erano guerrieri, adesso si fanno umiliare da un Jason Smith qualunque (con tutto il rispetto), e si guardano come per dire “ma non era tuo?. Solo il tempo ci dirà quanto a lungo la decisione di licenziare Tom Thibodeau peserà sul futuro della franchigia, ma è chiaro che sono stati commessi dei gravi errori di valutazione, e che ora proprietà e dirigenza si trovano in una situazione particolarmente scomoda.

In questi frangenti, capita spesso che si cerchi di salvare il posto (o la faccia), scaricando la responsabilità sul diretto sottoposto, licenziandolo. Potrebbe farlo Reinsdorf con Forman, oppure lo stesso Forman nei confronti Hoiberg, ma indipendentemente dal capro espiatorio, la chiave è scegliere il piano (e le persone) giuste per il futuro.

L’atteggiamento disinteressato, l’assenza di empatia nello spogliatoio, e gli errori macroscopici nella gestione del personale suggerirebbero di cambiare in ogni caso allenatore, ma senza un ripensamento del modello gestionale, si rischia di trovarsi punto e a capo, con un coach calato dall’alto, e un’altra stagione alle ortiche.

Ci sono tante decisioni da prendere, a partire da Nikola Mirotic: alle sue spalle, scalpita l’ottimo Bobby Portis, e, a 25 anni, l’ex Real Madrid resta un incompiuto di grande talento; lo stesso vale per Tony Snell, che è finito ai margini delle rotazioni, scavalcato anche dall’ultimo arrivato Justin Holiday.

I Bulls non possono più essere la squadra di Derrick Rose e hanno scelto di non appartenere a Noah, ma non sono ancora diventati il regno di Jimmy Butler. Forse qualche movimento estivo faciliterà la transizione, ma serve una guida tecnica precisa, che indichi delle priorità al front-office, e qui si ritorna ad Hoiberg: se ha ancora la fiducia di Forman, è giusto affidarsi a lui, altrimenti, è inutile tergiversare.

A dispetto di questa deludentissima stagione, Chicago è (ancora) in una posizione piuttosto vantaggiosa; ha tanti asset e giocatori di talento, una situazione salariale gestibile, e quest’estate potrà cercare la tessera mancante del puzzle. Non hanno però più margine per errori, ma a volte è proprio da questo genere di situazioni che nascono le migliori opportunità!

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