David Foster Wallace, scrittore di culto se ce n’è uno, diceva di Roger Federer: “la sua particolarità è che è Mozart e i Metallica allo stesso tempo, e l’armonia è sopraffina”.

Parlava del suo sport preferito, il tennis, di cui era stato un valido interprete in gioventù. Non tutti sanno che Gordon Hayward era un tennista altrettanto abile, avviato ad una carriera agonistica prima di dedicarsi a tempo pieno alla pallacanestro, e la definizione federeriana di Foster Wallace gli si attaglia con una certa bizzarra precisione.

Non tanto per le sue doti con la racchetta – per quelle bisogna andare sulla fiducia, in mancanza di un contributo video migliore di due pallate fatte piovere addosso a un impacciato Grant Hill in un’intervista ben orchestrata per Inside Stuff -, quanto per quelle cestistiche.

Gordon disegna traiettorie sul parquet con insolita leggerezza. Guardatelo bene; galleggia, si nasconde dalla difesa, addormenta l’azione con la palla in mano.

Basso sulle gambe, la schiena dritta, saldo sugli appoggi, non dimostra i 203 centimetri che si porta in dote. Ha la postura di una guardia. No, anzi, è la postura di un tennista.

Il gioco di piedi è perfetto, mai un passo di troppo, sempre sulle punte. È Federer che danza sulla linea di fondo, controllando lo scambio senza sforzo in attesa dell’occasione propizia, come un gatto che punta il topo. È Mozart.

Poi si apre un varco e cambia la musica. Il diritto di Roger accelera brutalmente lasciando l’avversario sul posto. Una “possente scudisciata liquida”, lo definiva Foster Wallace.

Gordon batte l’uomo con un palleggio e d’improvviso compaiono i suoi 203 centimetri, proiettati a tutta forza verso il ferro, entrambe le mani a spingere la palla oltre l’anello per sicurezza. I Metallica.

Alcuni giocatori di pallacanestro possiedono la grazia, la “bellezza cinetica” che riconcilia l’essere umano col proprio corpo. Steph Curry e il suo fratello di triple Klay Thompson, per dirne due.

Altri, molti altri, esprimono potenza. Russell Westbrook. LeBron James. Pochissimi possono vantare entrambe. Sono quegli “atleti preternaturali” a cui le leggi fisiche concedono un’eccezione.

Hanno “l’intelligenza, l’intuitività occulta, il senso del campo, la capacità di interpretare e manovrare gli avversari, di combinare effetto e velocità, di fuorviare e dissimulare, di usare il fiuto tattico, la visione periferica e la portata cinestetica anziché soltanto la velocità meccanica”.

Mi si perdoni se continuo a prendere in prestito parole dall’autore di Infinite Jest, ma quando una delle menti più brillanti degli ultimi decenni incontra lo sport che amiamo, non si può che attingere da quella fonte per ripagare il debito.

C’è da dubitare che Gordon Hayward abbia mai letto il mattone di cui sopra, lui che alla letteratura preferiva senza dubbio l’ingegneria.

A differenza di tanti altri student athletes, a scuola andava più che bene. “Academics were pretty easy to me, just another way to show that I was the best”. C’è una minacciosa commistione tra quello a cui tutto viene facile, l’atleta preternaturale, e quello che vuole primeggiare persino nelle equazioni, l’agonista compulsivo. Gordon è anche quello, ma ci arriveremo più avanti.

Brad Stevens, attuale mente pensante dei Boston Celtics e allenatore nonché mentore di Hayward ai tempi del college a Butler, racconta un curioso aneddoto.

Attirato fuori dal suo ufficio dal suono di un litigio a voce alta, si precipita negli spogliatoi per scoprire Gordon e un suo compagno di squadra nel pieno di un’accesa discussione. Il tema? La soluzione di un’equazione di ingegneria, infarcita di terminologia fisica di cui il coach non capiva un accidente. Se ne andò con un sorriso e un pensiero nella testa: “man, this is a special group”.

E un gruppo speciale lo era davvero, quello dei Butler Bulldogs annata 2010. Un plotone ordinato e egualitario agli ordini di un giovanissimo coach, con Gordon Hayward nel ruolo di primus inter pares.

Lì il suo mito è uscito dai confini di Brownsburg, Indiana, lì un’intera nazione ha cominciato a fare il tifo per quel ragazzino lanky, dinoccolato, col viso imberbe e la frangetta da studente delle medie, che però giocava con una classe e una spietatezza invidiabile.

Baby-faced assassin, lo chiamavano, e già allora s’intuiva quanto fosse piacevole da vedere in campo. La bellezza cinetica. Ma sarebbe stato all’altezza del futuro in NBA che gli si prospettava? A vederlo oggi, si direbbe di sì.

In quello che sarebbe stato uno dei più clamorosi upset del basket collegiale, i Bulldogs finirono a un passo dallo scippare la favorita Duke del titolo. Anzi, a un tiro.

Quella preghiera da metà campo, a fil di sirena, che s’infrange sul tabellone, temporeggia sul ferro in attesa che gli dei del basket conteggino le preghiere in loro nome, e infine esce.

Gordon Hayward è uno di quei rari giocatori la cui epopea è incentrata su un tiro sbagliato, anziché su uno mandato a bersaglio; lui, però, non se ne rammarica.

Quella era poco più che una palla buttata per aria, una mera questione di fortuna. Il tiro a cui ripensa quando non riesce a dormire la notte è un altro, quello precedente.

È in punta, il pallone tra le mani, settantamila paia di occhi puntati su di lui, tonnellate di responsabilità sulle spalle magre. Va a destra, il baricentro basso, il passo leggero, gli appoggi saldi.

Cerca il canestro ma Kyle Singler non ci sta. Gli resta addosso, tignoso. Non partono i Metallica, si resta su Mozart. Crea separazione direttamente dal palleggio, con uno step back da inserire nei programmi scolastici.

Il tiro in allontanamento è plastico, accompagnato fin con la punta delle dita, ma deve superare le mani protese del massiccio Brian Zoubek. “Brian chi?”, diranno alcuni. Appunto. Adesso fa il pasticcere, probabilmente il più alto del mondo. Il college basketball è meraviglioso anche per questo.

Il tiro si stampa sul ferro più lontano e lo stesso pasticcere siglerà il successo di Duke con un libero. Pur se l’avete già visto, merita un secondo sguardo.

Un tiro difficilissimo per qualsiasi buon giocatore di pallacanestro, contestato da due difensori, senza spazio. Ma lui non si capacita di come non sia andato a segno.

È l’agonista compulsivo, quello che primeggia nel risolvere equazioni anche se non si laureerà mai, quello che si vanta di essere il cestista NBA più forte a League of Legends (videogames, sì, arriveremo anche a questo), quello che quando si è sentito dire che non aveva la faccia e il fisico da giocatore-franchigia si è temprato i muscoli con la ghisa e si è rifatto il look per assomigliare a un modello di Abercrombie – o, tutt’al più, a uno di quei nerd fighi che non esistevano prima che The Big Bang Theory diventasse popolare. Adesso, per dovere di cronaca, guida autorevolmente gli Utah Jazz al limite della zona playoff.

Chiunque abbia giocato a tennis, anche come il più banale dilettante, sa quanto sia spinoso il rapporto con la sconfitta in questo sport.

Sei da solo sul campo e hai interminabili minuti a disposizione per pensare, tra un punto e l’altro. Non esistono pareggi o campionati a girone, solo crudeli tabelloni a eliminazione diretta. Non hai scuse, devi imparare a perdere e andare avanti. Sì, ma al tempo stesso no.

I grandi campioni sono tali, forse, proprio perché sono talmente folli, determinati e ossessionati da non accettare la sconfitta e giocare sempre un’altra partita, quella vincente.

“Questa sconfitta mi ha insegnato una lezione” disse John McEnroe, “ma non sono sicuro di quale sia”. Gordon Hayward sembra condividere quella mentalità, deviata ma vincente, fin da quando calcava i campi in cemento dell’Indiana con il cappellino in testa e la racchetta in mano.

Memorabili, a detta dei locali, i doppi misti con la sorella Heather (gemella, per la precisione, un rapporto ben più profondo di qualsiasi sport). Preferiva il basket ma puntava sul tennis vista la statura modesta; poi, alle superiori, crebbe di venti centimetri in un sol colpo. Sarebbe stato curioso vederlo tentare la strada del professionismo.

Il tennis di oggi concede più spazio che mai a bombardieri intorno ai due metri, basta che oltre ad avere braccio siano sufficientemente agili. I vari Raonic, Cilic, Isner, Anderson; a vederlo muoversi sul parquet, Gordon sembra più svelto di piedi di tutti loro.

Stando alle sue parole, da un punto di vista mentale i due sport non sono poi così diversi. “Quando si tratta di affrontare le avversità” dice, “anche in uno sport di squadra sei comunque da solo”.

Non c’era da aspettarsi niente di meno da un agonista sfrenato. Gordon cerca la competizione anche nei videogiochi, laddove altri si ritagliano solo qualche ora di svago.

Durante gli anni del college passa le notti a scalare le classifiche di Starcraft. “I hate losing” dice, mentre si esibisce in una partita per una tv dello Utah. L’avevamo capito. Lo definisce “il gioco di gran lunga più difficile a livello di competitività che abbia mai conosciuto”.

Detto da uno che di mestiere fa l’ala in NBA suona un po’ strano, ma è difficile dargli torto pensando ai pro player che si allenano 8 ore al giorno e sono in grado di compiere fino a 300 azioni per minuto – sono 5 clic per secondo, in soldoni. Lucidità e abnegazione ai massimi livelli.

Attualmente Gordon preferisce League of Legends, come altri 67 milioni di giocatori ogni mese. Sì, avete letto bene, 67 milioni. Abbastanza da giustificare dei campionati mondiali in diretta televisiva con montepremi da capogiro.

In un misto di strategia e azione, due squadre si contendono il possesso di un territorio tra imboscate, assalti frontali tra i campioni rivali e attacchi alle strutture nemiche.

Il suo ruolo è quello di presidiare in solitaria la mid lane, il corridoio centrale, il più esposto alle incursioni dei nemici. Servono un’ottima visione globale e nervi d’acciaio.

Qui la sua esperienza nel basket gli fornisce un aiuto. “Fondamentale è la comunicazione”, ha detto. “Avere sempre presente dove si trovano i tuoi compagni e sapere cosa stanno facendo, fino a arrivare al punto di intuirsi al volo senza bisogno di parlare”.

Anche nella realtà virtuale, forse ancora più che in quella concreta, per Gordon una sconfitta è solo un incidente di percorso tra una vittoria e l’altra.

Si rammarica di non avere abbastanza tempo per giocare di più a League of Legends, diventare più forte. Sai com’è, succede, quando sei un cestista a tempo pieno e gareggi tra i migliori al mondo. Ma per quanto sembri bizzarro, non c’è nulla di strano. È la mentalità di un agonista compulsivo che va d’accordo solo con altri vincenti.

Brad Stevens, ai tempi di Butler, lo capiva, tanto da concedergli il lasciapassare per disputare tornei live di Halo. Anche secondo il coach quel tiro, quello che sorvolò le mani di Zoubek che di lì a poco sarebbero state impegnate a sfornare bignè e crostate, doveva entrare nel canestro.

Il gruppo degli attuali Utah Jazz non sembra essere da meno, coach Quin Snyder in primis. Hanno poco talento, poche risorse e in NBA c’è troppo poco spazio per le favole perché ripetano la cavalcata di quei Bulldogs, ma si toglieranno nondimeno delle soddisfazioni. GG WP Gordon, come si dice nell’ambiente videoludico. Good game, well played.

Credo che a David Foster Wallace, se fosse ancora in vita, piacerebbe come gioca Gordon Hayward.

“La realtà degli atleti di massimo livello al giorno d’oggi” scriveva ancora, “richiede un tempestivo e totale impegno verso un unico obiettivo. Una concentrazione quasi ascetica. Una sussunzione di qualsiasi altro aspetto della vita umana nei confronti dell’unico talento prescelto. Una concessione alla vita in un mondo che, come il mondo di un bambino, è estremamente serio e estremamente piccolo”.

Gordon Hayward è così. Che si tratti di pallacanestro, tennis, ingegneria o videogames, affronta ogni sfida con la stessa serietà di un bambino. In fondo, per quanto alcuni siano pagati per farlo, è a questo che si riduce l’idea del gioco, la sua poesia, il suo inesauribile fascino, l’esperienza religiosa; tra il fischio d’inizio e quello di fine non esiste null’altro al mondo.

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