La carriera di Ron Adams (californiano di nascita e cosmopolita per elezione) è lunga, lunghissima, e si snoda tra Fresno Pacific e UNLV, poi gli Spurs, i 76ers, Bucks, Bulls, Thunder, Celtics per approdare infine ai Golden State Warriors, dove lavora da due stagioni, portando in dote tonnellate di esperienza e cultura, oltre al suo acume tattico. Ecco che cosa ci ha raccontato sui Dubs, Brad Stevens, George Karl, e molto altro ancora!

Mr. Adams, al vostro arrivo ad Oakland avete trovato le solide fondamenta poste da Mark Jackson (oltre che da Mike Malone e Darren Erman), ma come avete fatto a portare tutti sulla stessa lunghezza d’onda, e sviluppare il vostro eccellente sistema difensivo?

Per prima cosa, è giusto sottolineare che abbiamo ereditato una squadra molto solida, e penso che coach Kerr sia stato estremamente elegante nel dare credito alla squadra di allenatori che ci ha preceduti; non è una cosa che avviene sempre, nel mondo dello sport.

Per quanto riguarda lo sviluppo del sistema difensivo, si parte dando un’occhiata al personale a disposizione, quindi si determina che cosa sono in grado di fare i giocatori, e poi si miscela il proprio sistema con il livello di talento disponibile.

Alla radice, è giusto che ci siano alcune convinzioni e filosofie difensive essenziali, ma a questo livello è necessaria una buona dose di eclettismo; il dogmatismo non paga, e direi che, volgendo indietro lo sguardo, abbiamo scelto la strada migliore.

Lei è probabilmente il miglior specialista difensivo di tutta la NBA; come si costruisce una difesa, partendo da zero? Dai giocatori a disposizione, per poi sviluppare il sistema attorno ai loro punti di forza, o preferirebbe che fossero loro ad adattarsi alle sue filosofie di gioco?

In parte ho toccato l’argomento nella risposta precedente, ma val la pena di approfondire: si tratta di un processo duplice, occorre cioè mescolare il talento a disposizione con la propria filosofia difensiva.

È importante notare che a livello NBA (e penso valga anche a livello europeo) gli allenatori fanno affidamento sui giocatori per avere un input.

andre-iguodala-tri-e1434109348187Prendiamo ad esempio un difensore fantastico come Andre Iguodala, che ha difeso contro così tanti grandi attaccanti nel corso di una lunga carriera; Andre dispone di una conoscenza pratica che batte ogni competenza difensiva teorica, e il mio lavoro consiste nel farne uso.  Cerco quindi di dargli spazio per fare le cose a modo suo, a patto che rientri nella nostra filosofia di gioco complessiva.

Fondamentalmente, tendiamo a pianificare le nostre strategie difensive in relazione a specifiche aree: transizione difensiva, difesa di post basso, difesa sui blocchi, difesa sul tiro da tre punti, difesa sul catch-and-shoot, e i rimbalzi difensivi.

In ciascuna di queste aree, abbiamo degli schemi di riferimento, e in più, c’è l’area critica dei fondamentali difensivi. Noi tutti crediamo che l’efficienza nelle piccole cose, ci consentirà poi di arrivare ai grandi traguardi.

Lei ha lavorato con i Milwaukee Bucks dal 1998 al 2003. Nonostante siano una squadra dimenticata, i Bucks di George Karl giocavano una pallacanestro gradevole ed efficace (nel 2001, andarono ad una partita dalle Finali NBA), pur rifiutando lo schema classico inside-out, affidandosi piuttosto a tre (o quattro, con Tim Thomas) tiratori sul perimetro. Pensa che il basket odierno sia anche una loro eredità?

cassall474Questa è una domanda veramente interessante, e mi fa pensare che tu sia un eccellente studente del gioco. Quella era proprio una squadra affascinante: Sam Cassell, Ray Allen, Glen “Big Dog” Robinson, Ervin Johnson, Scott Williams, Tim Thomas e tanti altri.

Sam, Ray, and Glen erano grandissimi realizzatori, e i nostri lunghi facevano il lavoro sporco nel verniciato; eravamo capaci di finire sotto di 20, rimontare furiosamente e poi vincere la partita, oppure capitava di essere avanti di 20 e poi trovarsi ad inseguire!

Ero convinto che giocassimo ai livelli di una squadra da titolo, anche se avevamo dei difetti difensivi che a volte ci frenavano, e penso che tu abbia ragione nel dire che quel gruppo è parte del retaggio odierno. George Karl, proprio come Steve Kerr, aveva completa fiducia nella capacità della squadra di segnare canestri, e non ha mai cercato di limitarne psicologicamente la libertà realizzativa.

Mr. Adams, lei ha una esperienza vastissima a livello NCAA; si va da Fresno State a Drake, da UNLV a Fresno Pacific e Santa Barbara. Quali sono le sfide e le differenze, tra insegnare basket a livello di college, e a livello NBA?

Un tempo le differenze erano assai nette, mentre oggi non c’è più una cesura così netta.

C’è stata un’epoca in cui, quando un giocatore arrivava al professionismo passando per un buon programma di Division I, si poteva star tranquilli che avrebbe avuto buoni fondamentali e una discreta conoscenza delle varie strategie offensive e difensive.

Invece oggi, a causa del formato dei tornei AAU, i ragazzi giocano un sacco di partite, anziché allenarsi come si faceva una volta, quando a controllare il gioco estivo erano gli allenatori di high school.

La naturale conseguenza di questo sistema è che i giocatori hanno spesso dei fondamentali traballanti. Il gioco di livello universitario oggi è tutto impostato sul recruiting, e molti atenei danno per scontato che perderanno i loro migliori giocatori dopo appena una stagione.

A causa di questo ciclo vorticoso, oggi abbiamo atleti che diventano professionisti ma sono privi di grandi fondamentali; molti di loro non hanno una buona meccanica di tiro.

Di conseguenza, l’NBA è diventata una lega dove si sviluppano certe abilità quasi da zero, anziché un contesto nel quale i giocatori vengono solo rifiniti.

Dal punto di vista del gioco vero e proprio, il contrasto tra pro e college è nettissimo: le regole sono diverse, il basket NBA è più fisico e veloce, le sfumature di gioco aumentano, e l’impegno fisico accresce notevolmente. Aggiungici tutte le distrazioni che un atleta professionista incontra sulla sua strada oggigiorno, e avrai un’idea di quanto sia dura.

Per terminare, direi che l’NBA è una sfida per ogni nuovo giocatore così come per ogni nuovo allenatore, e quelli che non accettano questo presupposto, sono destinati a fare parecchia fatica.

A proposito di fondamentali, lei pensa che i giocatori giovani abbiano effettivamente un’etica lavorativa inferiore, come a volte si sente dire?

Influisce il modo in cui i giovani giocatori vengono fatti crescere, e non dimentichiamo che in NBA arrivano atleti più verdi di un tempo, oltre che privi di grandi fondamentali.

I giocatori più ricettivi con i quali ho lavorato, apprezzano molto le sequenze di esercizi che occorre seguire per costruirsi dei fondamentali solidi. Sono ragazzi che affrontano la sfida con entusiasmo, e riconoscono la correlazione tra il successo e queste routine un po’ noiose.

Circondati come sono da una cultura di stimoli istantanei, per molti giovani giocatori è difficile focalizzare tutta l’attenzione sugli esercizi ed escludere il resto. La vecchia mentalità “old school” –a base di concentrazione e fatica– non è innata, ma ci sono molti ragazzi che riescono in questa transizione e diventano gran lavoratori.

Parliamo di Brad Stevens, uno dei migliori giovani allenatori della NBA. Lei ha lavorato con lui per una stagione, prima di accettare l’offerta di Golden State. Cosa ci può dire su di lui?

Brad è una persona intelligente, innovativa, abile nel relazionarsi con i giocatori e con il management, e ha una grande comprensione del gioco.

Allena entrambi i lati del campo, e consente ai suoi atleti di trovare la propria nicchia in cui fiorire. Migliora di anno in anno, e adesso ha a disposizione un roster piuttosto omogeneo.

Giocano in un modo non troppo diverso da come facciamo noi a Golden State, e penso che quest’anno saranno un cliente assai scomodo da incontrare ai Playoffs.

Lei ha lavorato con Tom Thibodeau a Chicago, dal 2010 al 2013. In termini di cambiare il modo in cui si gioca a basket, lo “shrink the floor” è stato l’equivalente difensivo dell’attacco di D’Antoni. È d’accordo?

“Shrink the floor” è un termine valido, ma ci sono altri modi per esprimere lo stesso concetto. Ad esempio, io uso il termine “shell”, e quindi di “tight shell” o di “squeezing the shell”.

Tom è un allenatore brillante, dedito a insegnare una difesa di altissimo profilo e un attacco dotato di sincronia. Il suo gergo difensivo (tanto quanto il mio) proviene da allenatori del passato dai quali abbiamo imparato; Tom e Mike D’Antoni sono parte di una lunga storia di allenatori.

Ce ne sono stati di grandissimi prima di loro, e tutti e due hanno appreso da questi coach, prima di aggiungere il proprio tocco personale alle rispettive filosofie.

Possiamo dire che la difesa e l’attacco di Tom parlano per lui, così come l’attacco full-court di Mike D’Antoni: sono diventati dei maestri nelle rispettive specialità, ma la mia opinione è che siamo tutti parte di un processo, e gran parte di ciò che facciamo, in realtà è già stato fatto in passato.

Detto questo, non è escluso che uno studente di oggi possa finire col sorpassare un suo insegnante “storico”!

Il record da 72-10 dei Chicago Bulls del 1995-96 è un monumento alla loro concentrazione e forza mentale, e i Warriors attuali potrebbero addirittura battere quel numero di vittorie. Che effetto fa allenare un gruppo di giocatori così continui e resilienti?

Le prime parole che mi vengono in mente sono “eccitante”, “divertente”, e “stimolante”. Parte della sfida è mantenere alta la qualità del gioco mentre si vince.

Vogliamo migliorare da un punto di vista tecnico attraverso i successi, così da arrivare ai Playoffs ed essere una squadra migliore rispetto all’inizio della stagione.

Proprio come i vecchi Bulls, abbiamo dimostrato di saper vincere, e questa mentalità è un indubbio vantaggio, ma allo stesso tempo, dobbiamo migliorare. Riuscire a trovare questo equilibrio è molto più complicato rispetto a quanto potrebbe apparire dall’esterno.

Molti osservatori identificano il marchio di fabbrica dei Warriors nel tiro da tre, o nello small-ball. Mi sembra però che il front office e il coaching staff di G-State mantengano una mentalità flessibile. Sbaglierei, dicendo che l’elasticità è il vostro autentico marchio di fabbrica?

No, avresti perfettamente ragione. Riceviamo molto credito per lo small-ball, ma l’anno scorso non avremmo mai vinto il titolo senza giocare “big”, quindi, sì, l’elasticità di cui parli per noi è importante, e rappresenta una parte preponderante del nostro successo.

Steve non ha paura di proporre tante diverse soluzioni contro i nostri avversari, tali da rendere più difficile affrontarci. Ciò detto, è ovvio che il tiro da tre è parte importante del nostro sistema offensivo.

Steve Kerr ha tutte le qualità di un grande allenatore. Ha “venduto” la sua visione alla squadra e costruito un ruolo rilevante per tutti i giocatori. Non si ostina a difendere una cattiva scelta per orgoglio, e tantomeno permette all’ego di ostacolare il gruppo. Ci racconti la sua prospettiva su di lui, come uomo e come allenatore.

2014-05-20-Kerr-29-844x563Steve è una persona fantastica; intelligente, divertente, coinvolgente e umile, e sono convinto che il nostro staff e la nostra squadra riflettano appieno questa sua umiltà.

Steve rende il gioco divertente per i nostri ragazzi, e vuole che scendano in campo con gioia e gratitudine per tutte le ricompense e vantaggi che otteniamo come allenatori e giocatori NBA.

Gli piace stare con la squadra, sa far parte del gruppo e si rende conto d’essere solo una tessera del puzzle (per quanto di fondamentale importanza). I suoi messaggi all’indirizzo del team sono semplici, eppure profondi; non mette i ragazzi in confusione, non gli crea ostacoli quando devono scendere in campo e rendere al meglio.

Crede tantissimo nel lavoro di squadra e nel passarsi continuamente la palla, ama profondamente la pallacanestro, e sa di essere fortunatissimo ad allenare questo team.

Non è uno che si autoconvince di aver ragione, e, quando le cose non vanno come avevamo previsto, è in grado di fare degli aggiustamenti in corsa. Dal mio punto di vista, è un piacere lavorare con lui, così come con gli altri allenatori del nostro staff.

Questa edizione dei Warriors ha la chance di diventare uno dei team più iconici di sempre. I Dubs non si accontentano di vincere tanto; hanno una narrativa coinvolgente, giocano buon basket, e sono tatticamente innovativi. Eppure, alcuni dicono che il modo in cui giocano Curry e Golden State finirà col “rovinare il basket”. Cosa ne pensa?

Beh, come tutte le squadre di maggior successo abbiamo la nostra schiera di critici, ma sappiamo chi siamo: non facciamo paragoni con altre formazioni, e cerchiamo di vivere nel momento.

Abbiamo abbracciato il processo di diventare una buona squadra, e sappiamo benissimo di essere stati fortunati, oltre che relativamente al riparo da infortuni. Proviamo rispetto per i nostri avversari, e ci rendiamo conto che per molti di loro la sfida con noi sarà come il Super Bowl.

Sentiamo certe critiche, ma penso che abbiano l’unico effetto di fortificarci; qualunque sia il livello che abbiamo raggiunto, non indugiamo, giochiamo il basket che ci viene meglio, e ci godiamo questo viaggio. Ora come ora, il nostro obiettivo non è stabilire il miglior record di tutti i tempi, quanto piuttosto, ottenere –ancora– il seed più alto per i Playoffs. Può darsi che, inseguendo quest’obiettivo, pareggeremo o batteremo quel record!

Lei ha la reputazione di essere una persona istruita e di buone letture. Ha mai pensato di assegnare dei libri ai giocatori, come faceva Phil Jackson?

In realtà sì, raccomando dei libri ai giocatori, ma è più una cosa che spetta a Steve! Io parlo con loro a proposito delle difficoltà che si incontrano nella vita, e ho un rapporto stretto e franco con la maggior parte dei ragazzi.

Alla mia età, ho visto succedere un sacco di cose, e se posso rendermi utile dando consigli sulle scelte di vita di qualcuno, sono ben contento di farlo. Abbiamo una squadra di ragazzi svegli, con delle sane curiosità intellettuali, quindi adoro aiutarli, e vedere dei giovani uomini che maturano.

Grazie per il tempo che ci ha dedicato, coach!

2 thoughts on “L’architetto dei Warriors: intervista con Ron Adams

  1. Complimenti, intervista eccellente, molto interessante e stimolante da leggere.

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