Play.it USA ha incontrato per una chiacchierata Gianluca Pascucci al Pianella di Cantù, in occasione di una delle periodiche visite che i dirigenti NBA compiono in giro per l’Europa, rinsaldando i rapporti, e chissà, visionando anche qualche talento.

Gianluca, vanti un’esperienza a tuttotondo nel mondo del basket, su entrambe le sponde dell’Atlantico: assistente e scout per la Scavolini Pesaro, poi GM e AD dell’Olimpia Milano; dal 2013 sei Vice President Player Personnel dei Rockets, per i quali eri già stato scout internazionale dal 2002 al 2008, e ora sei anche GM dei Rio Grande Valley Vipers.
Quali sono le differenze, in termini di programmazione e metodi di lavoro, tra una franchigia NBA e di un club europeo?

Principalmente il fatto che in America tutte le realtà sportive professionistiche sono gestite come un normale business, e quindi con in testa l’idea di dover essere profittevoli, cosa che in Europa non sempre avviene. Quando intavoli un business, deve essere ben chiaro in partenza l’esigenza di ragionare a medio-lungo periodo, perché è impossibile guadagnare subito; le scelte devono avere un respiro medio, o ampio. Direi che è questa la differenza fondamentale.

Come altri tra i migliori professionisti del basket italiano, anche tu hai incontrato la NBA a inizio millennio, quando gli americani guardavano con crescente attenzione all’Europa, grazie a degli apripista straordinari come Divac, Marciulonis o Petrovic, e poi Nowitzki, Stojakovic. Come sei entrato in contatto con gli Houston Rockets dell’allora GM Carroll Dawson?

Sono sempre stato molto appassionato di scouting, principalmente di college basketball; lavoravo per la Scavolini Pesaro, e così ho avuto la fortuna di girare per eventi e tornei in Europa e Stati Uniti, entrando in contatto con varie franchigie che in quel momento guardavano con interesse sempre maggiore all’Europa, e da lì, cosa nasce cosa, ho conosciuto uno scout degli Houston Rockets che mi ha proposto di diventare il loro scout per l’Europa.

A detta di molti, Houston è una delle franchigie NBA più attente allo scouting internazionale assieme a Oklahoma City. Come funziona il vostro processo di osservazione dei giocatori, europei ma non solo?

Credo che i dati dimostrino come nessuna franchigia NBA possa più snobbare il mercato europeo e internazionale; ci sono più di 100 giocatori internazionali in NBA, ed è una percentuale sempre crescente. Noi di Houston cerchiamo di essere quanto più possibile dettagliati, andiamo in profondità, non escludiamo nessun giocatore perché ogni cestista fa storia a sé, c’è chi si sviluppa in modo precoce e chi matura più lentamente. Capitano giocatori che al momento del draft sono in parabola ascendente, ma che non hanno ancora raggiunto l’apice, e che quindi potranno dare il massimo nei due-tre anni successivi. Valutare quello che può essere lo sviluppo susseguente al draft è la fase più interessante dello scouting, e direi che è di capitale importanza prestare grande attenzione ai dettagli e non dare nulla per scontato; anche giocatori che, come dicevo prima, possono sembrare non pronti, a volte stanno solo seguendo un percorso di crescita diverso da quello di altri, e possono diventare elementi di valore.

Dando per scontato che ogni chiamata al draft è frutto di un lavoro collettivo, ci sono delle scelte dei Rockets alle quali sei più affezionato, magari perché sei stato il loro primo sponsor, o perché hanno ecceduto ogni attesa?

Direi no, nessuno, perché, come hai detto tu, le scelte al draft sono fatte collettivamente, anche se la decisione finale spetta solitamente al GM, in concerto con la proprietà. Sotto questo punto di vista, la nostra situazione è ottima perché siamo tutti molto coinvolti nelle decisioni.

I Rio Grande Valley Vipers della D-League sono una squadra di successo, in campo (due titoli vinti, l’ultimo nel 2013) e nello sviluppo dei giocatori, basti dire che Aaron Brooks, Shannon Brown, Marcus Morris, C.J. Watson, Garrett Temple e Pat Beverley sono tutti passati da Hidalgo. Quant’è stretta la sinergia con i Rockets, di là dal ricevere giocatori NBA che hanno bisogno di minuti, come K.J. McDaniels, o Montrezl Harrel?

Quando sono arrivato a Houston per la seconda volta, nel 2012, mi dissero subito che i Vipers erano trattati come i Rockets; tutti sono coinvolti, e c’è una sinergia clamorosa, che ho poi sperimentato in prima persona nel corso di quest’ultimo quadriennio, il primo anno come Assistant General Manager, poi come GM, quindi seguendo più direttamente la franchigia.
C’è veramente un grande interesse da parte dei Rockets nell’investire risorse umane ed economiche su questi giocatori, perché è l’unico modo a noi noto per farli migliorare e renderli partecipi della realtà di Houston. Tutto, dal sistema di allenamento a quello di gioco, è finalizzato all’obiettivo di crescere giocatori, come Clint Capela, che possono essere potenzialmente utili per i Rockets.

Avete nominato come Head-Coach Matt Brase, che era già assistente della squadra (e ha giocato ad Arizona per suo nonno, Lute Olson), e con il quale avevi già lavorato in passato nel front office di Houston, mentre nello staff c’è una vecchia conoscenza tua e del nostro basket, Joseph Blair, e Cody Toppert, che i più attenti tra i lettori ricorderanno per un biennio a Forlì. Cosa ci puoi dire di loro, delle loro qualità come allenatori?

Matt era assistente ai Vipers al mio primo anno, quand’ero Assistant GM, e assieme abbiamo vinto il titolo, poi lui è tornato coi Rockets, ma abbiamo continuato ad avere un rapporto eccellente; è un grande lavoratore ed è cresciuto negli anni, così quest’estate, quand’eravamo alla ricerca di un nuovo allenatore, abbiamo subito pensato a lui. Abbiamo intervistato tanti candidati, ma sapevamo che per avere il posto, tutti loro avrebbero dovuto battere Matt Brase quanto a qualità come allenatore e capacità di sviluppare i giocatori, e alla fine la scelta è caduta proprio su di lui perché conosce il sistema, ed è davvero un ottimo Head-Coach.

Per quanto riguarda gli assistenti, penso che abbiamo assemblato uno staff di altissimo livello, con enfasi sullo sviluppo dei giocatori. Cody Toppert è stato professionista in Europa, e poi ha lavorato con tanti giovani, preparandoli per il draft, o comunque aiutandoli a migliorare nella loro carriera. Joseph era nello staff di Arizona, io l’ho avuto come giocatore ai tempi di Pesaro; proprio a causa dell’Arizona-connection, è molto legato anche a Matt, e devo dire che stanno facendo un ottimo lavoro, posto che uno staff al primo anno ha sempre dei momenti di assestamento, però siamo contentissimi, e la speranza è che possano continuare ancora a crescere e migliorare.

Seguendo il basket europeo, NBA e NCAA, hai viaggiato in lungo e in largo negli Stati Uniti; quali sono le arene che reputi più affascinanti, magari per il tifo caldissimo, o per l’atmosfera che si respira?

In Europa, è facile citare Tel Aviv e Belgrado. A Tel Aviv la passione dei tifosi contagia anche chi arriva lì da avversario, si respira la passione per il gioco e il trasporto che hanno verso la squadra; a livello di College, ci sono grandissime arene, di tradizione e fascino. Anche qui in Europa tutti conoscono Duke e il suo Cameron Indoor; è un palazzetto molto piccolo, compatto. Poi c’è Arizona, che è meravigliosa, e UCLA col Pauley Pavilion, ma anche il Dean Dome, nel cui confronto con il Cameroon Indoor (distante forse 5 km), c’è tutto il contrasto tra Duke e North Carolina; una è un catino, l’altra una cattedrale dai soffitti altissimi, e dovunque ti giri c’è la storia della pallacanestro a livello mondiale. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa è l’entrata del museo di UCLA e John Wooden, dove hanno affisso una targa che dice “se UCLA fosse una nazione, sarebbe la quinta nel medagliere olimpico”, e ti offre la misura della grandezza di quest’università.

Tutti, prima o poi, abbiamo fantasticato di uno scambio capace di far svoltare la stagione della nostra squadra preferita, ma nella realtà, come avviene una trade? Quanto tempo occorre per imbastirne una?

Alcune trade nascono in brevissimo tempo, mentre altre sono coltivate a lungo, durante le settimane o addirittura i mesi precedenti. A livello NBA i colloqui tra General Manager, proseguono ininterrottamente, perché ci si vede spesso alle partite NBA e a quelle di college, dove si chiacchera anche di eventuali opportunità. È un percorso che dura 365 giorni, anche se, ovviamente, quando si avvicina la trade deadline (che ormai è incombente) i colloqui s’intensificano.

L’NBA è storicamente una players’ league, nella quale i giocatori, specialmente le stelle, tendono a contare più dei sistemi di gioco o degli allenatori, anche se poi, le franchigie di maggior successo sono quelle che coniugano lo star-power con l’esigenza di creare un contesto tecnico più ampio, una cosiddetta “culture”. Se condividi, dove collocheresti Houston, all’interno di questo discorso?

Come in ogni lega del mondo, senza giocatori forti, difficilmente si può pensare di vincere. In NBA c’è una parte di giocatori che hanno grande rilevanza e impatto, le cosiddette superstar, e senza di loro non si può andar lontano. Io credo che i Rockets siano in una buona situazione, grazie a James Harden e Dwight Howard. Come penso sia normale, siamo impegnati a tentare di costruirgli attorno un sistema che massimizzi le loro capacità, amalgamando le stelle e il resto del roster, per poter così raggiungere l’obiettivo finale, al quale tutti puntano.

Daryl Morey è diventato, suo malgrado, una delle figure più polarizzanti nello sterile dibattito tra chi fa della Sloan Conference una religione, e chi pensa che non serva a niente. Com’è Morey, visto da vicino?

Daryl è una persona di grande intelligenza (cestistica e non); è un leader per il quale è stimolante lavorare, perché è ricettivo, coinvolgente nel processo decisionale, e questo gratifica molto le persone che collaborano con lui.
Credo che nella pallacanestro odierna sia riduttivo distinguere tra chi usa le statistiche e chi no; tutti le usano, e non sarebbe intelligente tralasciare degli strumenti utili a prendere una decisione migliore, o meno rischiosa. Faccio una provocazione: secondo te, è meglio fare i montaggi con i VHS, o usare Synergy, che ci permette di non perdere tempo? Questo è solo un esempio, ma ci sono delle risorse, e lasciarle inutilizzate non sarebbe intelligente. Ti posso assicurare che sebbene Daryl sia riconosciuto come uno dei principali promotori dell’approccio statistico, ha una conoscenza cestistica molto elevata, e il nostro processo decisionale è sempre a 360 gradi.

Dagli anni ’80 in poi, il tiro da tre ha progressivamente costretto gli esterni NBA a migliorare la meccanica di tiro dalla lunga distanza. Oggi tiro e mobilità sono così importanti per spaziare l’attacco e difendere il canestro, che si può vincere un titolo NBA con cinque esterni, tanto che qualcuno preconizza la scomparsa dei lunghi, dimenticando che Golden State ha a roster Bogut e Ezeli. Io credo che i centri si adatteranno, privilegiando la velocità sulla potenza, e aggiungendo il tiro al loro arsenale. Ci sono esempi di questa tendenza che calcano i parquet NBA, come Porzingis, Anthony Davis, Towns, e, per certi versi, anche Cousins. Tu che ne pensi?

Credo che i centri non scompariranno mai, saranno sempre parte integrante di questo gioco. Se analizzi ogni singolo ruolo, c’è stato negli anni un miglioramento dell’atletismo della velocità, perché quello è l’indirizzo delle nuove generazioni, con le loro qualità atletiche. Non vedremo probabilmente più i Mark Eaton di una volta, ma ci saranno sempre centri capaci di andare spalle a canestro e di offrire un riferimento alla loro squadra. Anzi, poter schierare un centro e quattro tiratori può renderti ancora più dominante, perché più allarghi il campo e più la difesa faticherà a recuperare, e dovrà scegliere tra raddoppiare i lunghi vicino a canestro e marcare i tiratori appostati sul perimetro, come in fondo ha già fatto, a suo tempo, la Houston di Hakeem Olajuwon.

Ringraziamo moltissimo Gianluca Pascucci, per la grande disponibilità e gentilezza nei nostri confronti!

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