Fate conto di essere il proprietario di un baracchino (oggi si dice eat street) posto di fronte allo Staples Center di Los Angeles.

Difficile, non è che ce ne siano davvero, ma voi immaginate per un attimo di aver visto passare davanti alle vostre insegne migliaia di tifosi ogni anno che andavano a vedere le partite casalinghe dei Clippers.

Non i Clippers alla moda degli ultimi anni, quelli un pelo più rimaneggiati, ad esempio quelli nei quali militava il primo scintillante Lamar Odom, tanto per dirne uno, la franchigia che competeva con i vari Chicago Cubs, Detroit Lions o Cleveland Indians per essere la Cenerentola della propria lega.

Immaginate di cucinare subdole bombe caloriche per i notoriamente avveduti cittadini angelini e vi rendete conto che da qualche anno la domanda non è più, quando si uscirà dalla mediocrità, bensì…e non ci credete nemmeno troppo nel dirlo: sarà questo l’anno buono per l’anello?

Vi riprendete dal torpore e vi ricordate che adesso e da un buon tre stagioni abbondanti, la squadra numero uno della città (della California non si può dire per evidenti ragioni di anelli, ad oggi) è proprio quella dei Clippers!

Sì, la domanda che ci si pone dalle parti dei Los Angeles Clippers, in queste giornate di pre-season è se questo possa essere l’anno nel quale, al netto della concorrenza interna ed esterna alla conference, i velieri possano mostrare in modo compiuto quello che il finale dei recenti play-off aveva solo lasciato intravedere, in particolare in quei pochi secondi nei quali Chris Paul, mandando a casa gli eterni San Antonio Spurs in gara 7 di un bellissimo primo turno di play-off, era sembrato poter fare finalmente l’ultimo passo verso la maturità, l’ultimo salto di qualità per issarsi allo status di pretendente al titolo.

Difficile? Certo. Possibile? Si. Fattibile? …adesso vediamo…

Passare, da un fugace quanto esaltante momento di gloria singola, al coronamento di una stagione condita di titolo, è un passo tremendamente lungo.

Però si può cominciare con il pensare a quante cose si stiano ben allineando nel firmamento rosso-blu.

Le prime due che vengono in mente sono che ad oggi, pochi allenatori godono dello status e della considerazione che Doc Rivers porta con se.

L’ex coach dei Celtics ha portato dal Massachusetts la capacità di sapere cosa significa arrivare fino in fondo, saper gestire lo spogliatoio con le tonnellate di ego che vi abitano, di una squadra di livello top della NBA.

Se infatti è vero che qualche allenatore europeo di altra specialità olimpica, spiega che fare l’allenatore è un mestiere diverso dal fare l’allenatore di un top team, allora la medesima equazione può tranquillamente essere adattata alla NBA e se si è saputo gestire contemporaneamente le ugole di Garnett, Pierce e Rondo, non dovrebbe essere così impossibile far coesistere degli “angioletti” come Paul, Griffin e Jordan.

E proprio quest’ultimo nome si ricollega all’altro fattore che ha rivoluzionato il panorama del basket della parte sud della California e di cui il centrone da Texas A&M è la prova più lampante: oggi i Clippers sono attrattivi, i giocatori ed i loro ingombranti agenti assortiti, vogliono giocare per i Clippers, perché sentono che è questa una delle realtà nelle quali si potrebbe concretizzare il giusto mix che porta al titolo o forse solo perché sono di moda.

La vicenda appunto del numero 6 che questa estate ha così tanto fatto infuriare il proprietario del Mavs, Marc Cuban, ne è la prova.

In quale altro periodo storico, un giocatore che praticamente aveva già firmato per più soldi e per la franchigia del proprio stato d’origine almeno cestistico, si sarebbe lasciato convincere a fare la figura dello bugiardone, del voltagabbana, solo per gli accorati appelli del suo capitano e del suo allenatore e tornare quindi a rivestire, condendo il tutto da dichiarazioni di amore imperituro, la maglia dei Clippers?

Seconda prova. Questa estate, via mercato ha lasciato la franchigia, Matt Barnes, veterano di lungo corso, giocatore adatto a mille battaglie, ma non più utile a dare un contributo da salto in alto alla squadra.

E chi lo ha sostituito (almeno nei numeri) un onesto gregario?

No, i Clippers hanno messo sotto contratto e senza un apparente, titanico sforzo, Josh Smith, ovvero quello che solo un paio di anni fa era l’oggetto del desiderio di tanto squadre della lega, un giocatore che ad oggi in 11 stagioni ha vinto senza mezzi termini meno di quanto ci si aspettasse, ma che resta nonostante l’età avanzi, uno dei giocatori che fa la differenza fra un roster medio-buono ed un roster di tutto rispetto per pensare di poter puntare al bersaglio grosso: vedasi Houston solo 12 mesi orsono.

In tutto questo c’è anche una caratteristica di continuità che comincia a farsi importante.

La struttura della squadra e del quintetto sono infatti molto solide: Chris Paul, non c’è nemmeno da discuterne, è il leader, la stella, il capitano e soprattutto è quel giocatore accanto al quale tutti riescono a far un figura migliore.

Per anni una buona fetta della critica americana, pur amandolo più di altri, non ha smesso di sussurrare in merito alla sua incapacità d vincere quando contava, ma il tiro in faccia a Duncan del già citato primo turno 2014/15 potrebbe avere levato dubbi anche per questo aspetto.

Blake Griffin è il cannoniere, l’atleta e il bersaglio preferito degli assist di Paul. Di anno in anno sta abbandonando l’icone del puro schiacciatore per provare ad essere un ala forte moderna e dinamica ma con un tiro affidabile. Una riproposizione in chiave muscolare del duo Stockton-Malone.

Se il postino era arrivato ad essere tecnicamente ineccepibile nell’esecuzione dei giochi da pick’n roll, la fisicità e la capacità di sviluppare movimenti d’attacco da situazioni dinamiche del numero 32 sembra avere pochi uguali nella lega di oggi.

Entrambi dovranno però arrivare alla parte di stagione che conta in condizioni migliori degli scorsi tentativi ed in questo la fortuna potrebbe ancora giocare un ruolo importante.

Per tamponare le possibilità di steccare con il piano A, la franchigia si doveva dotare di alternative e queste sono rappresentate in primo luogo dal centro di cui si è già parlato, DeAndre Jordan, uno degli ultimi veri centri della lega, fortissimo in verticale quanto scarso nella tecnica dalla linea di tiro libero, cosa che lo ha anche trasformato nel vero erede e bersaglio del hack a shaq, il fallo sistematico “inventato” per Shaquille O’Neal al termine degli anni 90.

Sempre in tema di alternative, Rivers potrà contare su di un sesto uomo come Jamal Crawford, ormai alter ego di Paul nei momenti in cui c’è da guidare la second unit della squadra o per vincere quelle partite nelle quali il talento ex Chicago e New York decide di far vedere gli straordinari numeri dei quali è dotato.

Il tiro di J.J. Redick e le qualità del figlio d’arte Austin Rivers saranno assolutamente utili, soprattutto per mettere vittorie nel bilancio in vista della composizione del tabellone play-off, ma il vero jolly dell’estate angelina è stato il ritorno nella sua città (o l’arrivo se si guarda alla carriera professionistica) del figlio di Inglewood: Paul Pierce.

L’ex leader dei Celtics è probabilmente, ma lo si diceva già qualche anno fa, all’ultimo ballo della sua avventura NBA e non gli sembrerebbe vero di portare ad LA (ma dalla sponda NON Lakers) un primo titolo che avrebbe dello storico e che potrebbe consacrarlo come uno dei grandissimi, se mai ve fosse bisogno di questo sport.

Ma come giocheranno quindi?

Questa è una domanda molto intrigante e della quale il solo Rivers probabilmente ad oggi ha un’idea certa.

Il quintetto più razionale direbbe: Paul, Redick, Pierce, Griffin e Jordan con Smith e Crawford prime entrate dalla panca, ma saranno l’alchimia che si andrà formando e la capacità di sfruttare un roster davvero mai così profondo a dare la risposta alla prova del campo.

Nulla vieterebbe infatti, anche in ossequio alle tendenze più aggiornate, di provare uno small ball versione Clippers, con Smith o Griffin addirittura centro, tre piccoli veri come Paul/Crawford, Redick e Lance Stephenson tutti insieme e Pierce da 4.

Tutto questo per rispondere alla fatidica domanda: sarà l’anno buono o semplicemente sarà l’ultimo tram da veder passare in cui i Clippers hanno avuto tutto per farcela?

Sì perché tutta questa pressione, tutte queste aspettative porteranno con loro una grande dose di eccitazione, sogni abitati da anelli e parate su bus aperti, ma inevitabilmente ogni qualvolta un obiettivo viene programmato e non viene poi raggiunto, aggiunge pressione sulle spalle dei giocatori, peso nei palloni che dovrebbero alzarsi leggeri e saper giocare a dispetto e nonostante tutta questa pressione sarà il gradino più alto da superare per i velieri della California.

One thought on “Sarà l’anno della verità per i Clippers?

  1. Ottimo articolo Mengiscan!
    Un solo appunto: lo so che vado controcorrente, ma per me Blake Griffin è nel complesso un ottimo giocatore tecnico: ha un ottimo Jump Shooter, è uno straordinario passatore e palleggiatore e nel post basso sta migliorando molto.

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