Tutto è appena finito. Ci è passato sopra come un carro armato e ci ha stordito con un mix di adrenalina, tensione, gioia, rabbia, commozione. Come sempre, del resto. Quasi due mesi di playoffs NBA, un viaggio di emozioni che si ripete diverso e eccezionale ogni anno.

Eppure è già passato abbastanza tempo per cominciare a sedersi e a ripensare a quello che è stato. Non con la razionalità del conoscitore, dell’opinionista, dell’allenatore (reale o mancato). Piuttosto con l’istinto del nostro cuore sportivo.

Ognuno ha il suo, ovviamente, perciò il mio riassunto non ha la pretesa di essere esaustivo né tantomeno condiviso. Può però servire a farvi tornare alla mente singole emozioni, un po’ come quando ci ritroviamo fra le mani una vecchia fotografia oppure quando le nostre narici riconoscono un odore che ci riporta alla mente qualcosa di intimo.

Questo, dunque, è il diario dei miei Playoffs 2015, con i momenti, le situazioni, i canestri, gli infortuni, i protagonisti che mi hanno regalato qualcosa da portarmi dentro.

22 aprile. Si comincia da dove eravamo rimasti, cioè con gli Spurs. I campioni in carica sono in difficoltà allo Staples, sotto uno a zero e con la seria possibilità di raddoppiare lo svantaggio. Tocca ancora al  trentanovenne Duncan salvare lo 0-2 con una prestazione superlativa, anche e soprattutto durante l’overtime.  Come se non bastasse tutto ciò che aveva fatto nei 51 minuti già trascorsi, a un paio di minuti dalla fine, sul 101 pari, riceve alla lunetta e ne mette due cadendo verso sinistra per evitare le manone di Jordan. Mostruoso.

24 aprile. “The Truth” Paul Pierce, sul cui reale peso in diversi a Washington (e non solo) si erano interrogati durante la stagione, ipoteca la serie contro i Raptors mettendo l’ennesima tripla dal valore specifico colossale a sedici secondi dalla fine di gara 2.  Mentre rientra in difesa, con l’immancabile faccia di circostanza, pronuncia il celebre “That’s why I’m here!” che non necessita commenti. La personalità fatta uomo.

26 aprile. I Mavericks sono sotto 3-0 con Houston, i playoffs sono virtualmente finiti. In più hanno appena messo fuori squadra la sua stella, Rajon Rondo, e hanno perso per infortunio Richard Jefferson e Chandler Parsons. Una passeggiata per Harden e compagni? Nient’affatto.  Carlisle mette in campo l’underdog JJ Barea, e tutti i suoi giocatori tirano fuori una prestazione di grande orgoglio. A metà del secondo quarto, quando i Rockets sono sopra in doppia cifra e tutto sembra andare come dovrebbe, Monta Ellis si inventa un passaggio schiacciato alla Magic Johnson che attraversa metà campo e da il via al parzialone che cambia il match. Ammirevoli.

27 aprile. Atlanta-Brooklyn è per tutti una serie senza storia, e infatti Atlanta va due a zero. Poi in gara 3 i Nets riescono a spuntarla, senza tuttavia impressionare. In gara 4, però, succede quello che in molti aspettiamo invano da parecchio tempo: il signor Deron Williams decide di giocare come il suo talento gli permette di fare e con i suoi 35 punti, oltre alle innumerevoli giocate da assoluto fenomeno, consente ai suoi di portare la serie in parità. Rimane impresso sulle mie retine il crossover con cui nel secondo quarto manda a sinistra Carroll e tutti quelli che stanno guardando la partita per poi andarsene a destra ad appoggiare un comodo layup.

30 aprile. I Bulls hanno ritrovato da poche settimane il loro numero 1, Derrick Rose, diventando così temibili per tutte le franchigie ad est. Con i frizzanti Bucks di coach Kidd e di Carter-Williams sembravano in controllo, poi qualche passo falso inaspettato e eccoli a gara 6, a Milwaukee, con lo spettro di una gara 7 che rappresenterebbe un’incognita. Ci si aspetta una partita punto a punto, invece stavolta le mogli non potranno lamentarsi per l’assenza prolungata dei mariti davanti alla tv. All’intervallo siamo già 65-33 per i Tori, e alla fine il tabellone dice 120-66, a soli quattro punti dal record all-time dei playoffs NBA per punti di vantaggio. L’immagine di Rose che se ne va inseguito vanamente da tre Bucks appoggiando tranquillamente a canestro è emblematica. Devastanti.

2 maggio. È il singolo gioco che decide la serie meglio giocata e più combattuta di questi playoffs. Sette partite (overtime compresi), aggiustamenti e colpi di scena vari non hanno minimamente spostato l’ago della vittoria verso una delle due squadre. Ci pensa CP7 a risolvere la questione, mettendo l’unico tiro (di difficoltà inaudita) che Green e Duncan gli lasciano prendere su quell’ultima azione. I campioni sono fuori. Incredibile.

3 maggio. Gara 1 fra Atlanta e Washington, fine secondo quarto. John Wall cade e si frattura la mano. Sembra una cosa seria, invece riesce a giocare il resto della gara. I suoi Wizards vincono, dopo aver eliminato con uno sweep Toronto, e danno l’impressione di essere in rampa di lancio per portare a casa anche questa serie. Invece la dura (per loro) verità toglie il suo miglior giocatore dai giochi (tornerà, ma a mezzo servizio). Lotteranno fino alla fine ogni partita, ma non basterà. Un peccato.

5 maggio. Memphis batte a sorpresa Golden State a domicilio grazie soprattutto alla coppia di lunghi Randolph-Gasol. Sembra di vedere una squadra del passato venuta a dimostrarci che è possibile battere i super atleti dei Warriors con tanta tecnica, senza tiro da tre e soprattutto grazie a una gran difesa. È l’inizio di uno scacco che Kerr e compagni spezzeranno solo in gara 4, ed è simboleggiato dalla rubata di Tony Allen nel finale di gara, mentre Curry and friends provavano a rientrare, condita dal promemoria a voce alta “First Team All Defence”. Energia pura.

10 maggio. I Bulls sembrano davvero lanciati, e il massacro rifilato qualche giorno prima ai Bucks non sembra più un caso. Con i favoriti Cavs vanno avanti 2-1 e hanno la possibilità di allungare grazie al fattore campo. L’infortunio di Gasol in gara 3 però li mette in difficoltà. Consapevoli che si tratta della loro occasione danno tutto per mantenere quel vantaggio. E ce la potrebbero quasi fare, se nella storia non ci fosse Lebron James, che piazza un clamoroso buzzer-beater (con un solo secondo e mezzo a disposizione dalla rimessa!) e gira l’intera serie. Chirurgico.

11 maggio. Golden State decide che ha perso abbastanza tempo con i Grizzlies e li demolisce a domicilio grazie al suo inarrestabile (e ritrovato) attacco. Stephen Curry si produce in un primo tempo celestiale che all’intervallo conta 21 punti, 8 su 14 dal campo e diverse giocate spaziali. Una su tutte? Quella in cui ubriaca un paio di avversari e poi pesca con una fucilata David Lee a mezzo metro dal canestro. Imprendibile.

14 maggio. Clamoroso (ancora) allo Staples! Una serie tenuta a bada con un certo controllo dai Clippers sembra andare tranquillamente verso un 4-2 con chiusura casalinga. In svantaggio per tutta la gara, e sotto di tredici all’inizio dell’ultimo quarto, un più che disperato McHale mette Harden in panca, e a quel punto Houston piazza un fantasmagorico 40-15 rendendo realtà una delle più incredibili rimonte mai viste. Gli uomini di Doc Rivers, come un pugile suonato, non si riprenderanno più. Josh Smith diventa il più improbabile degli eroi, e dopo aver messo dentro il canestro di tutto, in evidente trance agonistica, a un paio di minuti dalla fine porta palla, fa qualche finta a Jordan neanche fosse Curry e poi piazza la tripla del + 9. Pazzesco.

23 maggio. I Warriors sono già 2-0, e gara tre è fondamentale. Quale gara? Il match si trasforma in un massacro che sostanzialmente chiude la serie, e come al solito il direttore d’orchestra, con 40 punti totali al conteggio di fine serata, è Steph Curry. Quando a metà del secondo quarto il nostro taglia fuori Howard e gli prende in faccia il rimbalzo, anche gli ultimi accaniti sostenitori dei Rockets capiscono come andrà a finire. Alieno.

24 maggio. Cleveland è in grande vantaggio, avendo vinto le prime due gare on the road. Ma in gara 3 Atlanta ha un moto d’orgoglio, e nonostante l’espulsione di Horford porta i Cavs all’overtime. Teague fa di tutto, ma ancora una volta Lebron non ha pietà degli avversari. Fondamentale ed esemplificativa la tripla messa a 38 secondi dalla fine, dopo un tiro sbagliato, su un rimbalzo offensivo di Thompson e dopo aver fatto saltare a vuoto Millsap come uscisse da un tostapane. James può anche fare degli errori, ma alla fine è ancora decisivo. Enorme.

4 giugno. È il momento delle Finals. Gara 1, si va all’overtime. A un paio di minuti abbondanti dal termine Kyrie Irving si fa male, fine delle danze per lui, e se per Cleveland la strada era già in salita adesso c’è da scalare il Tourmalet. L’immagine del numero 2 dei Cavs che se ne va zoppicante, con la maglia alzata fin sopra la pancia, oltre a rimanermi stampata in testa dovrebbe far riflettere tutti quelli che muovono i fili del gioco, perché gli infortuni ancora una volta (e anche quest’anno) finiscono per incidere sullo spettacolo che amiamo e che vorremmo vedere. Preoccupante.

7 giugno. Lebron prende la palla subito dopo il suono della sirena e la schianta al suolo, con una violenza inaudita, poi sfoga tutta le sua tensione. È il gesto che simboleggia la vittoria che lui e i suoi sono riusciti a costruirsi fuori casa a suon di dedizione e difesa. James chiude con una tripla doppia devastante, alla faccia di chi qualche giorno prima aveva pontificato la decisione del coaching staff dei Warriors di non raddoppiare il Prescelto. Indomabile.

14 giugno. Gara 5, Golden State e Cleveland sono sul 2 pari. A metà dell’ultimo quarto Curry shekera Dellavedova per qualche secondo e mette la tripla, poi si gira e (finalmente) fa la faccia cattiva invece di quelle faccette da componente di una boy band (con tutto il rispetto). È la presa di coscienza della superiorità da parte dei futuri campioni, ed allo stesso tempo è il segnale di una lenta resa da parte degli esausti Cavs. Il titolo vola a San Francisco. È stato bellissimo.

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