shaun-livingston-rudy-gobert-nba-utah-jazz-golden-state-warriorsOgni volta che un campionato professionistico pone la parola fine allo svolgimento della sua stagione e ne incorona il vincitore, si aprono tantissime tematiche differenti sui quali cui discutere.

Tra queste, è innegabile il fascino dell’immediata dell’analisi del roster della squadra vincente appena dopo il triplo zero del cronometro, quando vengono sparati i coriandoli nel palazzetto e cominciano le prime gettate di spumante, e comprendere il significato dell’anello per ciascuno dei singoli, differenziando opportunamente chi ha vinto per la prima volta dopo una carriera lunga e prosperosa, chi non è nuovo all’ebbrezza del sollevare al cielo il trofeo, e chi aveva già vinto altrove, ed avrebbe fatto di tutto per vincere ancora, ma con un’altra uniforme addosso.

Si distinguono giovani e veterani, superstar e gregari, ma l’effetto finale è solo uno: il gruppo di giocatori che compone una determinata compagine è ora titolare di una vittoria che ne definisce inequivocabilmente la carriera in retrospettiva.

Come tutte le altre prima di essa, anche l’affermazione di Golden State su Lebron e soci dà luogo a numerose storie, la principale delle quali è senza dubbio il sottolineare la fine di un calvario cestistico durato quarant’anni, una sorta di giustizia poetica per una franchigia che per lunghi anni ha vissuto tra derisioni e sfortune varie prima di riuscire a togliersi di dosso quell’etichetta di squadra divertentissima da guardare a livello offensivo, ma sempre inefficace quando si cominciava a parlare di costruire qualcosa di serio per qualificarsi ai playoff.

E’ la prima vittoria degli Splash Brothers, Curry e Thompson, due figli d’arte i cui padri avevano già solcato i parquet Nba, così come è il primo titolo di Steve Kerr da head coach, dopo tutta l’argenteria portata a casa nei magici anni novanta da giocatore in quell’irripetibile contesto dei Bulls di Michael Jordan e Phil Jackson.

Sapere inoltre che giocatori come Andre Iguodala – un esempio di altruismo nel suo sapersi riciclare che ogni giovane rampante dovrebbe seguire –  hanno finalmente ottenuto ciò per cui hanno lavorato una vita, fa solamente bene al cuore di ogni tifoso della pallacanestro statunitense, a prescindere dalla fede cestistica di ognuno.

Nonostante il pensiero vada immediatamente e comprensibilmente verso i personaggi-chiave della stagione, quelli costantemente sotto le luci dei riflettori ed autori della maggior parte del lavoro di facciata, ci sono delle storie considerate secondarie, ma non per questo costituite da uno spessore umano diverso.

Da questo punto di vista, tutto ciò che Shaun Livingston potrà raccontare ai nipotini è racchiuso tra le vicende più speciali che si possano ricordare di queste ultime Finals.

A vederlo oggi, senza minimamente conoscere la sua biografia, lo si liquiderebbe frettolosamente come un backup qualsiasi, utile alla causa ma non certo indispensabile. Un buon cambio, una guardia atletica dall’eccellente statura ed ottimale comprensione del gioco, ma non certo il giocatore che risolve la gara nel momento del bisogno.

Al contrario, chi sa che cosa questo ragazzo abbia dovuto sopportare per tornare anche solo ad allacciarsi le scarpe da ginnastica, continua a chiedersi perché sia successo ciò che è successo, e che cosa sarebbe mai potuto diventare questo giocatore senza un infortunio tra i più gravi della storia dello sport.

Oggi tutte queste domande non hanno più un significato, e lui non se le pone già più da un pezzo. Shaun Livingston oggi è campione NBA, e questa è la parte più importante di tutta la faccenda, perché il titolo è un giusto riconoscimento per tutti i sacrifici che egli ha dovuto sopportare per rientrare in un giro che chiunque gli avrebbe precluso a priori, stando alla tremenda gravità di quell’episodio della regular season del 2007.

livingston_maggette_full_getty_71796944ds015_clipperwolves_11_15_48_pmIn quell’epoca Livingston aveva tutt’altra fama rispetto a quella odierna, era un ragazzo di caratteristiche fisiche e mentali uniche, che l’avevano messo sotto le luci della ribalta ben presto, quando ancora conduceva la sua Peoria Central High School (sita nell’Illinois) a due titoli statali coinvolgendo ogni compagno cui riuscisse a far pervenire i suoi succulenti assist.

Al contrario di tanti coetanei non era famoso per le doti di scorer e non impressionava gli scout con medie superiori ai trenta a gara, nonostante il viso da ragazzino era sì un uomo in mezzo ai bambini, ma lo era per ragioni diverse rispetto ai suoi colleghi.

Quei 201 centimetri rappresentavano una statura intrigante per una guardia se rapportata alla rapidità dei suoi movimenti ed alla capacità di mangiarsi il campo in pochi passi con quel fisico tutto nervi e muscoli tutt’altro che vistosi, l’apertura di braccia, 211 centimetri, era spaventosa e metteva in forte risalto tutte le sue potenzialità di guastatore delle linee di passaggio e disturbatore del palleggio avversario, e poi c’era quella dote innata, un qualcosa che non si costruisce con nessun allenamento, ovvero la capacità di vedere le cose un attimo prima che accadessero, quella che più di ogni altra sua caratteristica l’aveva sparato in orbita in ottica di passaggio al professionismo.

Nella stagione 2004, dopo aver declinato l’offerta di andare a Duke per almeno un anno a giocare per Coach K, era diventato la quarta scelta assoluta dei Los Angeles Clippers, nonché il giocatore selezionato più in alto nella storia della NBA ad arrivare direttamente dalla high school rivestendo il ruolo di guardia.

Un peso sulle spalle non certo indifferente da portare, unito ad una pressione per vincere in un ambiente che A) era perdente praticamente da sempre e B) era semplicemente lo stesso in cui aveva evoluito un certo numero 32 in giallo-viola, un’altra guardia dalle movenze brillanti e dalle intuizioni spettacolari, un paragone che ingolosiva parecchio i tifosi di una franchigia che stava disperatamente tentando in maniera utopistica di avvicinare i cugini dei Lakers a livello competitivo. E che si attendeva, ora, di poter sfoggiare la sua versione di Magic Johnson.

Quell’utopia sembrava un po’ meno tale in quella che si era trasformata nella miglior stagione della travagliata storia dei Clippers (escludendo ovviamente ciò che sarebbe accaduto poi, con Paul e Griffin), un 2005/2006 dove Livingston, assieme ad un Elton Brand pre-rottura del tallone d’Achille, Chris Kaman, Corey Maggette, un vecchio volpone come Sam Cassell a guidarlo e Mike Dunleavy in panchina, era stato co-protagonista di 46 vittorie in regular season, di un bel 4-1 rifilato a Denver nella prima serie di playoff, ed una più che decorosa uscita in gara 7 contro i Suns di Steve Nash, un bel modo per dichiarare al mondo che la sponda sfigata di Los Angeles stava per voltare definitivamente pagina. O che perlomeno ci stava provando seriamente.

Sul più bello, però, il mondo di Shaun Livingston va in frantumi. E non solo quello.

nba_g_livingston01jr_576x324E’ il 26 febbraio 2007 e si gioca allo Staples contro i Bobcats, Shaun esegue un’azione che ha ripetuto mille e più volte, prendendo la palla per fuggire in contropiede lasciando compagni e avversari un giro indietro.

Non viene neanche contrastato a livello difensivo, non ne vale la pena, è già in volo da un pezzo. Ma il salto, in qualche modo, non ha gli stessi tempi del consueto per qualche misterioso motivo, e l’atterraggio avviene qualche millesimo di secondo prima che il ragazzo se lo aspetti.

Il risultato fu uno dei più brutto infortuni che si possano vedere in ambito sportivo, un’orribile ed innaturale torsione dell’arto che spezzo’ i legamenti anteriori, posteriori e laterali del ginocchio sinistro nello stesso istante. Livingston è dolorante a terra, con la parte superiore della gamba in un verso, e la parte inferiore in un altro.

Oltre a tutto il resto, il menisco interno è andato, e la rotula è fuori sede. La corsa in ospedale è immediata, il pericolo cancrena con conseguente possibile amputazione è una possibilità, fortunatamente scongiurata già dai primi esami.

In quel momento, tuttavia, Shaun sapeva che la sua carriera poteva essere seriamente compromessa, ma era soprattutto consapevole che dopo quell’autentica esplosione di legamenti e cartilagini sarebbe stato per lui miracoloso anche solo pensare di correre di nuovo.

Iniziano infinite sessioni di terapia, autentiche torture dove il ginocchio viene piegato ogni giorno di più, con tutti i lancinanti dolori del caso. L’operazione eseguita dall’illustre Dottor James Andrews è un successo, ma la strada per il recupero è ancora lunghissima.

Shaun ha un solo pensiero in testa, ed è quello di quantomeno provare a tornare ad essere un giocatore di basket, pur sapendo che non sarebbe mai più stato lo stesso di prima a livello atletico.

Ci vollero mesi e mesi di riabilitazione per tornare a camminare in maniera decente, altri mesi ancora per accennare ad una piccola corsa, dopo aver massacrato l’articolazione in palestra ed in piscina.

Dentro di sé Shaun credeva di poter tornare in campo contro ogni pronostico. Ha mantenuto una volontà ferrea affrontando un piccolo traguardo alla volta, gioendo per ogni minuscolo progresso.

Finalmente, nel giugno del 2008, sedici mesi dopo quella maledetta serata, il Dottor Andrews firma il documento che consente a Livingston di tornare ad effettuare attività legate al basket.

Sembra un miracolo.

Anzi, è un miracolo.

nba_g_livingston_576La carriera dell’ex-guardia di Peoria Central si divide tra l’ebbrezza del ritorno all’interno del campo da basket e la frustrazione della progressiva comprensione che quella gamba aveva perso tantissima della sua elasticità, una qualità fondamentale per un gioco dove viene richiesto di saltare, cambiare direzione, sollecitare continuamente la reattività dei muscoli.

Livingston divento’ un girovago, nel giro di quattrordici mesi venne provato con scarso successo a Miami, poi scambiato ed immediatamente tagliato da Memphis, scrutinato senza costrutto per fare da backup a Russell Westbrook ad Oklahoma City.

Aveva poi giocato in maniera più che soddisfacente ai Wizards, nella seconda parte della stagione 2009/2010 ottenendo i complimenti di Flip Saunders per come si era inserito nei meccanismi di una squadra perdente e che per giunta aveva perso numerosi pezzi per infortunio, ma che aveva trovato il modo di terminare l’anno in maniera convincente, lottando pur senza avere particolari motivazioni se non quella di lasciare qualcosa di positivo per l’anno seguente.

Washington non sarebbe riuscita a trattenerlo per via dell’offerta giuntagli dai Bobcats, un biennale da 7 milioni complessivi, un contratto troppo interessante per non essere accettato. Ma anche in quel caso Per Livinsgton non si sarebbe trattato di nulla di così duraturo, perché nei successivi due anni, tra trade e tagli, avrebbe cambiato altre quattro uniformi.

E’ in quel di Brooklyn che vengono gettate le basi per ciò che Livingston ha ottenuto quest’anno con i Warriors. I Nets lo firmano per dare minuti di prezioso riposo al fisicamente problematico Deron Williams, ed è proprio con la canotta bianco-nera che si comincia a rivedere una minima traccia di quel ragazzo atletico ed esplosivo, che viaggiava da un lato all’altro del campo con velocità impressionanti.

Sono passati tanti anni dalla riabilitazione e sono già state giocate tante partite, ma Shaun ha ammesso di non essersi mai inconsciamente tolto completamente la paura di un altro atterraggio disastroso. E come dargli torto?

Shaun-Livingston-drives-on-the-WizardsMa il passaggio-chiave avviene nell’estate del 2013, appena prima che il telefono squilli e Brooklyn si faccia viva, quando Livingston decide di partire verso Miami e sottoporsi ai rigidi allenamenti di Manny Sumner, un trainer conosciutissimo a livello sportivo professionistico americano. E

d è in quel frangente che, nonostante sia passata un’eternità dall’infortunio, Livingston mette veramente alla prova la resistenza del suo ginocchio, un qualcosa che non aveva mai fatto prima di allora. Non aveva più provato ad andare al massimo. Non si fidava.

I risultati di quelle sessioni di allenamento sono eccellenti, e non è un caso che l’esperienza annuale sotto le indicazioni di Jason Kidd sia equivalsa al miglior anno di Shaun a livello NBA, in quella che probabilmente è stata la sua migliore annata di carriera.

Non solo erano tornate le giocate atletiche, i passaggi immaginifici, le schiacciate e le entrate a canestro, era pure arrivata una solidità complessiva che forse non aveva mai provato in precedenza, un minutaggio decente per rimettersi in mostra, tutti fattori comprovati dall’ulteriore elevazione del suo rendimento durante i playoff dell’anno scorso, momento nel quale ha aiutato i Nets a superare il primo turno contro i Raptors e dove ha mantenuto una media punti in doppia cifra (11.4) per tutta la serie poi persa con gli Heat, dando una mano in difesa contro i signori Wade e James.

Oggi è titolare di un triennale con i Golden State Warriors, e la California – guarda caso, ancora lei – per la prima volta dai tempi di Los Angeles sembra una dimora più duratura delle precedenti.

Magari non sembra, se ci si ferma a giudicare solo le cifre, ma é stato un pezzo importante di questa cavalcata vittoriosa per tutto quello che è capace di dare: portare palla, dare il cambio alle superstar, segnare in entrata con movenze ancora atletiche, centrare canestri in particolari momenti di alcune partite (questo soprattutto nella postseason, dove ha segnato in doppia cifra in almeno una partita di ciascun turno di playoff, compresi 18 fondamentali punti e 7 rimbalzi in gara-1 contro i Rockets) difendere sfruttando la statura e la lunghezza delle braccia, sporcando le linee di passaggio altrui. In sintesi, eseguire tutte quelle piccole giocate che servono per vincere ad alti livelli.

920x920Non è e non sarà mai quello di prima, ma quello lui lo sapeva bene fin dall’inizio, nonostante tutti continuassero a ricordarglielo.

Dicevano che non sarebbe mai più tornato a giocare, anzi, che non ha nemmeno senso vederlo giocare oggi dopo quello che gli è successo. Non sarebbe nemmeno dovuto essere capace di camminare senza zoppicare per il resto della sua esistenza, ma la sua determinazione ha vinto su tutto e su tutti.

Vederlo lì, sul podio inscenato a Cleveland insieme ai compagni e toccare con mano il Larry O’Brien Trophy, è un’emozione che risulta davvero impossibile non riuscire a provare.

Ed il bello è che a 29 anni di basket ne ha ancora tanto davanti…

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