Per un istante, durato lo spazio di due partite, era sembrato possibile che questa inedita e insolita serie Finale potesse incoronare campioni NBA i Cleveland Cavaliers, una formazione lungamente criticata per le magagne difensive e la disfunzionalità in attacco, che, con il capitolare di Kevin Love e Kyrie Irving, si è rivelata viceversa tignosa e resiliente soprattutto nella propria metà campo.

Sul 2-1, l’impresa era parsa a portata di mano, dopo l’ennesima prestazione formidabile di LeBron James, che chiude la serie con 35.8 punti di media, 13.3 rimbalzi e 8.8 assist, e gli eroismi di Matthew Dellavedova, tanto scarso quanto tosto (ed è un’ode alla sua forza di volontà, non certo un insulto), Tristan Thompson e Timofey Mozogv.

Alla lunga però, hanno vinto il talento e il coraggio di Golden State. Sì, anche il coraggio, perché decidere di schierare cinque esterni, nel bel mezzo delle Finali, è il genere di mossa con la quale ci si gioca la reputazione.

Steve Kerr (cinque anelli da giocatore, tra Bulls e Spurs, oltre alle esperienze come GM e apprezzato analyst per ESPN) sapeva cosa stava facendo, si è fidato del sistema tanto da portarlo alle estreme conseguenze, vincendo il titolo all’esordio in panchina, il primo dal 1982, quando Pat Riley portò al trionfo una squadra che, però, l’aveva già assaporato con Paul Westhead nel 1980.

Ha vinto Golden State, la squadra che è arrivata a questo traguardo programmando, costruendo con costanza, e non la Cleveland del levantino Dan Gilbert, proprietario avvezzo a scegliere e licenziare GM (Danny Ferry, Chris Grant, e ora David Griffin) che non si sono distinti per particolare sagacia, e allenatori (Mike Brown, Byron Scott, poi ancora Brown e ora David Blatt) perennemente traballanti.

Buttare la croce addosso a LeBron, dopo una serie di questo tipo, sarebbe ingeneroso; James ha dato tutto, toccando vette di Usage Rate sconsigliabili (39.3% in Finale), per tener vive le speranze di una squadra che, senza Irving, non aveva altre fonti di gioco ma alla fine, questa monotematicità ha condannato Cleveland a soccombere.

Forse si potevano muovere obiezioni in estate, quando LBJ reclutò Kevin Love, anche a costo di sacrificare Andrew Wiggins. La storia non si fa con i “se” e con i “ma”, quindi è inutile speculare sul tipo di stagione che sarebbe stata con l’ala canadese in squadra, ma è altresì chiaro che si è trattato d’una mossa miope, improntata sul right now, senza ragionare strategicamente su un orizzonte di medio termine.

L’anno prossimo tornerà Kyrie Irving, e ci sarà Kevin Love, che dice di voler restare, ma, dovendo prolungare gli accordi di Dellavedova, Shumpert e Thompson, i Cavs saranno comunque chiamati a delle scelte se vogliono evitare di pagare qualcosa come 200 milioni di dollari tra luxury tax e stipendi, cifre insostenibili anche per le profonde tasche di Gilbert.

Al riguardo, Mike Miller condivide l’opinione di LeBron: “Servono giocatori che mettano tiri e che siano fisici in difesa, perché in attacco c’è James”. Sulla stessa lunghezza d’onda, Griffin: “È questione di delineare i ruoli. Vicino a James non si possono avere molti giocatori che dominino la palla”.

È un ragionamento antistorico in una NBA che evidentemente non premia lo schema –star e role players– dei decenni scorsi, ma è il basket che piace a James, e a Cleveland, nel bene e nel male, si fa come dice lui, soprattutto in assenza di un controcanto autorevole, come era Pat Riley a Miami.

In Gara 6 il nativo di Akron ha sfruttato 34 blocchi, con un UsageRt del 41.2%, tradotto in 0.88 punti per possesso, mentre Steph Curry ha ricevuto 39 blocchi, con un UsageRt di appena il 7.7%, e 1.14 PPP.

Il pick-and-roll di Golden State è sinonimo di imprevedibilità: Green, in 22 occasioni da bloccante, ha ricevuto nel 77.3% dei casi, tirando nel 22.7% delle ricezioni; Iguodala, ha ottenuto la palla sull 77.8% dei 9 blocchi portati, tirando nel 55% delle occasioni.

Di seguito, Green, dopo aver bloccato, riceve, palleggia, e, avendo mosso la difesa, può trovare Iguodala in angolo, libero per un tiro comodo

Quando i Cavs hanno provato a raddoppiare sistematicamente Curry, per cercare di fargli raccogliere il palleggio, Steph è riuscito a pescare i compagni per qualche assist, come questo, per Klay Thompson

I pick-and-roll di Cleveland, viceversa, avevano uno sviluppo molto lineare, che non ha richiesto grandi adattamenti alla difesa dei Warriors: Mozgov ha portato 26 blocchi, ricevendo nel 15% delle occasioni e senza mai tirare. Tristan Thompson ha portato 12 blocchi a LeBron, senza mai neppure ricevere palla.

James si è messo in proprio, con 15 isolamenti e 30 penetrazioni (in entrambi i casi, assestandosi oltre un punto per possesso), continuando in una clamorosa serie individuale che però, per assurdo, ha aiutato G-State, consapevole di dover costringere LeBron a lavorare per aver la meglio sui Cavaliers.

In Gara 3, pareva che Cleveland avesse trovato il modo di costruire buoni tiri per la squadra, con Mozgov pronto a ricevere vicino a canestro

oppure, con lo scarico per Dellavedova, che qui la mette da otto metri abbondanti.

Ma, nel lungo periodo, queste soluzioni non hanno trovato continuità, e non hanno mai davvero mosso la difesa. Non è colpa di Blatt o di LeBron, e, in fondo, nemmeno dei volenterosissimi role players. Semplicemente, i Warriors erano troppo forti per questa versione dei Cavs.

Ancora una volta, ha avuto ragione il lungimirante Jerry West, che dei Warriors è una sorta di “GM ombra”, e che, un anno fa, si era messo di traverso, minacciando le dimissioni, se il GM Bob Myers avesse spedito Klay Thompson a Minneapolis in cambio di Kevin Love.

Come ha detto lo stesso Myers, quando il Logo è così perentorio, conviene dargli retta, e West, a 77 anni, ha dimostrato ancora una volta d’essere tre piste avanti rispetto a tutti. Il vecchio Jerry aveva già capito che Kevin Love stava alla difesa come l’acqua all’olio, e non valeva la pena di sacrificare per lui Klay, del quale è sempre stato il primo sponsor.

Il successo di West è anche quello di Larry Lacob, proprietario dei Warriors, che acquistò una franchigia in disarmo, cambiandone radicalmente la mentalità, senza proclami o spese folli, ma circondandosi delle persone giuste (West in primis, ma anche l’ex GM Larry Riley) e affidando a loro e al figlio Kirk, coinvolto nel management, tutte le scelte basketball related.

Ci sono stati momenti d’impopolarità, come i fischi della Oracle Arena dopo lo scambio Bogut-Monta Ellis, ma il tempo è galantuomo, e anni di ottimo lavoro, coerenza e buone scelte hanno pagato: oggi i Golden State Warriors sono una squadra giovane, già titolata e potenzialmente competitiva per tanti anni a venire.

Golden State ha vissuto qualche piccolo inciampo nel corso dei Playoffs, ma era naturale e logico che una franchigia priva d’esperienza a questo livello (con giocatori che mai avevano vissuto il favore del pronostico) potesse affrontare qualche momento di difficoltà, soprattutto dopo una Regular Season che, viceversa, era trascorsa senza sobbalzi.

I Warriors hanno conquistato il titolo con un percorso molto netto, pur provenendo dalla tremenda Western Conference; dopo aver battuto New Orleans e Memphis, hanno faticato a chiudere la serie contro la resiliente Houston, ma si sono presentati in Finale forti del pronostico.

Cleveland, viceversa, era stata data per morta dopo l’infortunio patito da Kevin Love al primo turno contro Boston; poi, superata Chicago nella serie più difficile dei loro Playoffs, hanno smantellato facilmente quel che restava degli Atlanta Hawks, presentandosi in Finale da sfavoriti, ma con la convinzione di poterci provare.

Con Kyrie Irving, fuori dai giochi, sotto 0-1, si era iniziato a parlare di sweep e di serie finita; va tributato un plauso ai Cavs, che, viceversa, sono stati capaci di rimanere sul pezzo, lottando con il coltello tra i denti e rifiutandosi di soccombere, persino negli ultimi minuti di Gara 6.

Le prestazioni da videogioco di James non sarebbero servite a nulla, se i “role player” non avessero superato i propri limiti, trovando quell’unità d’intenti assente in una prima parte di stagione che non lasciava necessariamente presagire un approdo in Finale.

Bravi i Cavs a crederci, perché, se la Finale NBA era un obiettivo abbordabile (provenendo dalla Eastern Conference), giocarsela non era affatto scontato. Per certi versi, questa Cleveland ricorda i 76ers del 2001, anch’essi legati a un solista (in quel caso, Allen Iverson), e poco talentuosi, eppure capaci di “catturare l’attenzione dei Lakers”, nelle parole di Phil Jackson.

Quella che è appena terminata, è una Finale NBA destinata a essere ricordata a lungo, avendo sancito la possibilità di conquistare l’anello giocando non solo con quattro esterni (questo si era già visto), ma addirittura con cinque, scalfendo il dogma che voleva la presenza di un centroboa come elemento imprescindibile per catturare i rimbalzi e pattugliare l’area.

La tentazione, quando si assiste a un evento così innovativo, è quella d’assolutizzarlo, come fecero i tanti che, sulla scorta della dominanza di Magic Johnson, immaginavano i playmaker del futuro tutti alti due metri, o chi, nel 1994, dopo l’anello dei Rockets di Akeem Olajuwon e Robert Horry, preconizzava una NBA basata su triple e post basso.

A volte si azzecca (in fondo, i Rockets di Rudy Tomjanovich non sarebbero spiaciuti a Daryl Morey), altre volte, si scambia un fenomeno unico per una tendenza (stiamo ancora aspettando il secondo play di due metri, a trent’anni di distanza dall’immortale numero 32 gialloviola).

Può darsi che negli anni a venire vedremo davvero un basket senza lunghi, ma non ci sembra un’eventualità ineluttabile. Le tendenze tecniche dipendono dai giocatori: quando in Finale arrivavano Bulls e Jazz, armate di Luc Longley e Greg Ostertag, si filosofeggiava sull’inutilità dei lunghi dominanti, ma nei 4 anni successivi a vincere furono Shaq e Duncan.

I Warriors hanno aggiunto una possibilità in più, dimostrando che si può vincere l’anello anche giocando con cinque piccoli, e forse è questa la (prudente) chiave di lettura da adottare, senza ragionare per assoluti.

Per il secondo anno di fila, le Finali hanno incoronato un MVP inatteso; dopo il ventiduenne Kawhi Leonard, è stato il turno di Andre Iguodala, nove anni più vecchio, titolare solo in 3 partite su 6, (e mai in Regular Season,) che ha chiuso le Finals con 16.3 punti di media, 5.8 rimbalzi, 4.0 assist e il 52.1% dal campo, ma soprattutto, con tanta buona difesa in single coverage su LeBron James (in Gara 6, ha concesso il 18.1% al tiro!), costretto ad una bassa efficiency e un NetRating negativo (tra difesa e attacco), anche nelle due vittorie.

Si poteva premiare Steph Curry, autore di una serie rispettabile a fronte della marcatura asfittica di Dellavedova, ma si è scelto di consegnare il premio al giocatore che ha fatto pendere l’ago della bilancia tattica in favore dei Warriors, e che, in questo senso, è stato davvero “most valuable”. L’altro giocatore a ottenere voti è stato ovviamente LeBron, che poteva essere il primo MVP delle Finali della squadra sconfitta dai tempi di Jerry West (ancora lui!). Non ha vinto, ma è uscito ingigantito da una serie che ce lo ha riconsegnato forse vulnerabile, ma anche infinitamente più maturo e leader rispetto al ragazzo che abbandonò il campo senza salutare i Magic, nel 2009.

L’anno scorso, i San Antonio Spurs avevano deliziato gli appassionati di basket con un gioco altruista, bellissimo da vedere e di grande precisione tecnica. I Warriors delle NBA Finals non hanno giocato un basket altrettanto qualitativo (anche se durante la stagione hanno raggiunto picchi d’assoluta eccellenza) ma sono una squadra giovane, che ha imparato alla svelta dai propri errori e che avrà tutto il tempo per diventare più spietata e chirurgica.

I Golden State Warriors hanno il look sinistro di una squadra all’inizio di un ciclo, con idee moderne, personale giovane e motivato, e un allenatore che ha saputo usare lo splendido lavoro di Mark Jackson (commovente, in telecronaca, per l’affetto paterno verso quelli che sente come i “suoi” giocatori) come fondamenta per costruire un edificio tecnico dalle qualità rare: Golden State possiede concetti tecnici solidi, eppure è capace di grande flessibilità tattica, vanta individualità uniche come gli Splash Brothers, eppure trasuda gioco di gruppo e altruismo.

Se il futuro del basket è questo, con meno star-power, e un gioco più altruista e vario, diventa meno difficile sacrificare i lunghi, e tutto l’inestimabile patrimonio cestistico che rappresentano, sull’altare dello spirito del Gioco.

7 thoughts on “Le NBA Finals 2015 e l’inizio di una nuova era

  1. Grande stagione, grandi finals , grandi warriors.
    Erano anni che aspettavo questo momento e sinceramente non me lo ero immaginato cosi’ bello e divertente.
    Una squadra veramente tosta, anche se un pizzico ( e forse piu’ ) di fortuna ha aiutato il cammino dei guerrieri.
    Mi spiace per James, un giocatore sopra tutti, l’unico in grado di rendere una squadra mediocre un team da finali.
    Onore a lui e ai Cavs che ci hanno provato facendo prove eccellenti.

  2. Questo è mio, di 2 anni fa: http://www.playitusa.com/nba/2013/09/43845/focus-dove-sono-finiti-i-centri/

    1) Alessandro, Zach Lowe ha detto che non esistono squadre campioni che non siano state fortunate, e io sono totalmente d’accordo. Un accoppiamento, un infortunio, un’ave maria che entra o che esce…
    I Warriors un po’ di fortuna se la meritavano, e, in tutta onestà, i Cavs hanno avuto la sfortuna di Irving, ma prima c’è la fortuna d’essere nella Eastern, e d’incontrare gli Hawks in versione ospedale. Tutto si compensa, nella ruota cosmica del basket! (fate finta che non l’abbia scritto)

    2) Per età, coesione, competenza del front office e mentalità, la risposta non può essere che sì, i Warriors possono aprire un ciclo. Un gran bel ciclo.

    • Si, Alessandro Credo che Le uniche squadre al mondo (no, gli Houston Rockets, i San Antonio Spurs, il Real Madrid segnano soprattutto con gli esterni, stessa cosa per il CSKA) Le uniche squadre che utilizzano i lunghi come arma principale in attacco credo siano, i Minnesota Timberwolves (a volte quando c’è Nikola Pekovic, anche se in genere il gioco è costruito solo per Wiggins) i Memphis Grizzlies (Randolph, Gasol), i Charlotte Hornets con Al Jefferson, i New Orleans Pelicans con Anthony Davis e la Stella Rossa con Maryanovic in Eurolega. Non trovi?

  3. GSW è certamente un’ottima squadra con un roster profondo, un coach intelligente e un gioco scintillante. Hanno strameritato il titolo. Da tifoso dei Suns però faccio notare che, per stessa ammissione di Kerr e Gentry, il loro modo di giocare deriva direttamente da quello dei Suns di Mike D’Antoni. Il loro grande merito è stato quello di dominare a Ovest con incroci anche fortunati nei P.O. La serie più dura è stata contro Memphis, squadra tosta che sa difendere. Contro i Cavs, o meglio contro Lebron, era evidente come sarebbe andata a finire.

  4. No, non direttamente, non più di quanto non discendano dalla Princeton Offense (che Gentry ha allenato), e comunque, solo offensivamente, perché in difesa sono di un altro pianeta.

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