Toccare il cielo con un dito e poche ore dopo sprofondare in un abisso senza fondo.

Alle ore 15.00 (ora americana) del 19 febbraio l’acquisto di Goran Dragic aveva rinsaldato le speranze di playoff trasformando Miami in una delle possibili mine vaganti della Eastern Conference. Gli ingredienti c’erano tutti: 3 stelle, i gregari, giovani di belle speranze e un ambiente abituato a vincere.

Dopo aver faticato e patito le pene dell’inferno in una prima metà di stagione contrassegnata dagli infortuni e da tanti piccoli contrattempi si guardava al futuro imminente con un pizzico di speranza.

Poi la doccia fredda. Gelata. Chris Bosh che di ritorno dall’All Star Game di New York e un paio di giorni di vacanza ad Haiti si faceva ricovere in ospedale per quello che sembrava una forte influenza e che poche ore la trade Dragic si è scoperto essere un principio di embolia polmonare data la presenza di coaguli di sangue in entrambi i polmoni. La solita patologia che pochi giorni prima, senza essere diagnosticata in tempo, aveva tolto la vita alla leggenda dei Portland Trail Blazers Jerome Kersey.

Nemmeno il tempo di fantasticare sui pick & pop della coppia Dragic/Bosh e i pick & roll Dragic/Whiteside, che l’ennesima tegola stagionale si abbatteva sulle teste di Spoesltra e soci. Bosh “out for the season” è stato il bollettino medico diffuso dopo tutti gli esami del caso, notizia che trapelava già molto prima dell’annuncio ufficiale con sommo dispiacere dello staff tecnico degli Heat che si è stretto attorno al giocatore il quale tuttavia non è mai stato in pericolo di vita.

Bosh non è stato il primo caso del genere: qualche mese fa a Mirza Teletovic dopo una partita di stagione regolare a Los Angeles non riusciva più a respirare e decise di sottoporsi a qualche esame in ospedale che evidenziò lo stesso problema. Avesse preso l’aereo con la squadra per la partita successiva non avrebbe rischiato un semplice infortunio, ma la vita.

I coaguli di sangue nei polmoni non sono una cosa rara, sono uno degli effetti collaterali di operazioni chirurgiche o trattamenti fisici particolarmente invasivi (lo stesso Udonis Haslem sviluppò un principio di embolia polmonare durante la riabilitazione dell’operazione al piede che gli fece saltare 69 gare di stagione nel 2010) e se trattati in tempo non comportano nessun rischio a lungo termine ed una normale ripresa dell’attività. Ed infatti la buona notizia è che l’ex Raptors tornerà in campo recuperato al 100% per il prossimo training camp.

Nel frattempo c’è una stagione regolare da concludere nel migliore dei modi e un obbiettivo ancora alla portata nonostante tutte le difficoltà, ovvero i playoff. Con tutte queste mazzate sarebbe stato facile tirare i remi in barca e guardare al futuro, ma i Miami Heat non accettano la resa senza averci provato fino in fondo. Lo ha detto chiaro e tondo Pat Riley quando ha ceduto 2 prime scelte e paccottiglia per prendere Goran Dragic ed il suo contratto in scadenza, lo ha ribadito il coach ad una settimana dalla trade per fare chiarezza.

Fare i playoff vuol dire con ogni probabilità prendere una piallata al primo turno da chicchessia, lasciare la propria scelta ai Sixers (che l’hanno ereditata dai Wolves via Cavs che la detenevano dal 2010) e fare due incassi in più all’American Airlines Arena. In questo momento storico, accedere alla postseason a queste condizioni significa una pessima gestione societaria, ma non a Miami dove la cultura, da quando Pat Riley è al timone, è sempre stata competere. Ad ogni costo.

A South Beach si è sempre cercato di focalizzare l’attenzione sul presente, sviluppare il talento di giovani prospetti, rifondare tramite il draft, costruire un ciclo dal nulla e impiegare anni e sudore per tornare competitivi non è mai interessato a Riley e agli Heat.

Lo dice la storia degli ultimi 11 draft: dopo aver scelto Wade nel 2003, solamente una volta gli Heat si sono ritrovati in lottery (scegliendo Beasley), per 7 volte hanno scambiato la loro scelta la notte del draft portandosi a casa giocatori come Mario Chalmers, DeQuan Cook, James Ennis, Norris Cole e Shabazz Napier, nessun futuro “Hall of Famers”, ma ognuno di loro gregario di comprovato valore.

Questo non vuol dire snobbare il draft o fregarsene del futuro, anzi. E’ un approccio estremamente pragmatico a una delle scienze più inesatte dove i fattori di rischio sono infinitamente alti. Loro scavano nel profondo, valutano fattori che per molte squadre sono secondari, cercano giocatori che siano in grado di coprire una determinata esigenza, meglio se pronti da subito a dare il loro contributo.

E puntano molto sul cosiddetto “player development”. E’ grazie a tutto questo lavoro dietro le quinte che le sorprese della stagione, Hassan Whiteside e Tyler Johnson, sono tali ai tifosi ma non al management.

Il caso Whiteside è curioso: gli Heat avrebbero voluto selezionarlo nel draft del 2010 ma non lo ritenevano abbastanza maturo (cosa peraltro vera) per cui passarono oltre e scelsero Dexter Pittman. Il nome di Whiteside però non uscì mai dal taccuino di Chad Kammerer, il direttore dello scouting, colui che convinse Riley a acquistare prima Chalmers e poi Cole ed infine Ennis, perle scovate a fine primo o a inizio secondo giro, acquistate a un “prezzo di costo” risibile.

Tyler Johnson, assieme a Whiteside la sorpresa di questi Heat

Lo stesso Goran Dragic, arrivato a Miami nel prime della carriera, era nel mirino degli Heat dal 2011. Riley provò a soffiarlo a Daryl Morey quando lo sloveno era solo un ottimo backup del play titolare Kyle Lowry ai Rockets, non riuscì nell’intento e riuscì a ottenere Norris Cole dai Chicago Bulls la notte del draft.

Tornando al presente, la seconda parte di stagione, con un Dragic in più e un Bosh in meno è iniziata con 6 vittorie e 4 sconfitte, un incremento delle percentuali dal campo, del pace, dei rating difensivi ed offensivi che hanno catapultato una delle squadre più lente, macchinose e imprecise al top della lega.

Certo, in queste 2 settimane e mezzo il calendario NBA ha aiutato (le 6 vittorie sono avvenute contro squadre con un record ampiamente al di sotto del 50%, le 4 sconfitte contro Hawks, Cavs e 2 volte contro i Pelicans), ma l’impatto avuto da Dragic e la conferma ad alto livello di Hassan Whiteside sono stati argomenti altrettanto interessanti.

C’era bisogno di un giocatore come Dragic per un attacco che faceva fatica a mettere punti a referto e sviluppare gioco, per di più senza Wade. Cole, Chalmers e Napier si impegnavano ma dovevano svolgere un compito di cui non erano all’altezza. Lo sloveno è uno dei miglior giocatori NBA a tagliare a fette le difese ed è il miglior playmaker nella lega a finire a ferro con il suo 68% nelle conclusioni al ferro.

Dragic nel cuore dell’area dei Lakers

In attesa di inserirlo a pieno regime nei maccanismi offensivi Erik Spoelstra lo giostra nelle due posizioni di guardia e spesso lo fa agire come secondo ball-handler ma ha già iniziato a disegnare per lui soluzioni tattiche che lo portino a innescare tutto il suo talento e la sua rapidità con la palla in mano.

Tutto fa pensare a un lungo sodalizio nonostante a fine anno diventi Free Agent e sia considerato uno dei prezzi pregiati del mercato. A mezzo stampa ha dichiarato che non vuole precludersi nessuna possibilità futura ascoltando tutti coloro che gli faranno pervenire un’offerta, ma considerando che Miami è la squadra che può offrire più soldi, una situazione tecnica ideale e un posto glamour in cui vivere, tutto fa pensare che in cima alla sua lista di preferenza ci siano gli Heat.

La crescita di Hassan Whiteside per quanto incredibile non stupisce più. Dopo aver conquistato il posto di centro titolare a seguito della sua fragorosa esplosione era lecito attendersi un calo. Invece il prodotto di Marshall è salito ulteriormente di livello piazzando 6 doppie-doppie nelle ultime 8 partite scollinando oltre i 24 rimbalzi presi per due volte stabilendo il suo career high anche nei minuti giocati.

La cosa impressionante è che i margini di crescita sono infiniti per questo ragazzo che sotto la cintura ha poco più di 50 gara in NBA e meno di un anno fa sbarcava il lunario in Libano.

Whiteside braccato dai Suns

Juwan Howard e Alonzo Mourning lo hanno preso sotto la propria ala nel momento più delicato dalla sua giovane carriera – quello in cui può definitivamente esplodere o implodere su se stesso – lavora ogni giorno sul suo gioco ed ha già ampliato il suo bagaglio offensivo con un tiro dalla media distanza sempre più efficace.

Da quando ha conquistato il quintetto la difesa degli Heat ha cambiato marcia e anche orientamento: niente più difesa iper aggressiva fatta di raddoppi sui pick & roll e rotazioni folli degli esterni che esponevano troppo al tiro da tre e al rimbalzo d’attacco ma una difesa più conservativa, che induce gli attacchi a prendersi tiri dal midrange e ridurre al minimo i secondi possessi. Ha risolto i problemi di “stamina” e di falli ed adesso riesce a stare in campo più a lungo ed in modo più proficuo.

Qualora limitasse anche le pause mentali che nelle ultime 4 gare hanno comportato 2 espulsioni e 2 falli tecnici, Pat Riley potrebbe aver trovato quel centro difensivo importante che manca dai tempi di Alonzo Mourning.

Il ritorno di Dwyane Wade è stato per certi versi traumatico perchè non è al 100% della forma dopo aver saltato 3 settimane per uno stiramento al bicipite femorale ed è in palese difficoltà a alzare il livello del suo gioco come dimostrano i quasi 19 punti a partita con 17 tiri dal campo a gara e un misero 40% al tiro nelle ultime 9 partite. Quando non segna in attacco vengono a galla tutti i suoi limiti come il rendimento ondivago in difesa e le scelte di tiro. A volte è persino irritante vederlo giocare.

Però è un pezzo imprescindibile degli Heat, perchè la sua leadership non è solo tecnica, ma emotiva. I compagni gli perdonano gli eccessi ed i difetti, perchè è sempre lui a suonare la carica e prendere per mano la squadra nel momento di maggiore difficoltà o quando c’è da vincere una partita.

In stagione regolare solo LeBron James segna più di lui nel 4° periodo, solo Russell Westbrook si prende le sue responsabilità al tiro e solamente quei due alieni sono più clutch di lui con quel volume di gioco. Nelle ultime uscite è stato molto più incisivo ed ha ridotto le sbavature, se la salute fisica non lo abbandona è pronto a caricare per l’ennesima volta sulle spalle i compagni.

Ma se gli Heat senza Bosh restano in corsa per i playoff i meriti vanno suddivisi anche a chi ha preso il suo posto nello scacchiere di Spoelstra ovvero i due ex compagni di squadra al college a Kansas State, Henry Walker e il figliol prodigo Michael Beasley, entrambi presi del marciapiede con un contratto decadale, entrambi subito preziosi nelle poche gare che hanno disputato in maglia Heat.

Beasley e Walker

Walker ha giocato l’ultima partita nella lega a aprile del 2012, ha girato il sudamerica, le filippine e le minors americane ma non ha mai perso la speranza di tornare a calcare i parquet della NBA. Si è presentato a suon di triple contro Sixers e Magic (in cui le sue 2 bombe hanno portato la gara all’overtime) andando in doppia cifra nelle prime 4 gara disputate e evoluendo in un ruolo che non aveva mai rivestito in carriera, quello dello stretch four.

Un ruolo, quello. in piena emergenza dopo l’infortunio di Josh McRoberts, i problemi di Bosh e la cessione di Shawne Williams, tamponato dal terzo ritorno in maglia Heat (non era mai successo nella storia della franchigia) di Michael Beasley, il giocatore che ogni GM e allenatore non vorrebbe mai vedere nella propria squadra, ma che a Miami trattano come uno della “famiglia”.

E lui ha risposto con 10 giorni convincenti che hanno convinto Riley a estendergli il contratto per altri 10 giorni in cui ha prodotto tanto in pochi minuti, ha dato una mano a rimbalzo, è stato esemplare in campo, si è sacrificato a giocare da centro e si è scoperto difensore oltre la media. Con lui in campo gli Heat hanno un defensive rating di 94.9 punti subiti per 100 possessi ed il suo net rating è il migliore della squadra.

Inoltre va dato credito al lavoro svolto da Erik Spoelstra, il cui contributo nella vittoria dei due titoli è sempre passato, ingiustamente, in secondo piano.

Non è mai stato il burattino di Pat Riley come in molti credevano, ma un coach molto esigente con i propri giocatori, capaci di strigliarli e ricompensarli al momento giusto, dal carisma innato che ha saputo “vendere” ai propri giocatori.

Da un punto di vista tecnico ha ampliato il concetto del “run & gun” con l’introduzione del “position less” nel quadrienno di LeBron James – se oggi tante squadre usano dei set offensivi in cui gli esterni si intercambiano con i lunghi e questi si appostano negli angoli per uno scarico, il merito è del coach di origine filippina e della sue sperimentazioni con Bosh, James e Battier nel biennio 2012/2014 – e da un punto di vista tattico è uno dei coach più preparati della lega.

In questo anno di alti e bassi, che lo hanno costretto a sperimentare e trovare il bandolo della matassa più e più volte – come dimostrano le 25 starting lineup diverse su oltre 60 partite che ha dovuto schierare in stagione per fare fronte a tutti gli infortuni che sono capitati – è stato magnifico nel lavorare con il roster a disposizione, nel coinvolgere tutti i giocatori, nel creare la sintonia tra il gruppo di veterani e quello dei giovani che ha permesso agli Heat di restare a galla.

Ha lanciato Whiteside, si è visto esplodere tra le mani un signor nessuno come Tyler Johnson, ha fatto tornare ai suoi livelli il Luol Deng in fase calante nelle ultime stagioni e sta riabilitando il nome di Michael Beasley. Ci sarebbero gli estremi per un premio Nobel, altro che per il “Coach of The Year”.

Gli ultimi successi interni hanno ridato un pizzico di entusiasmo all’ambiente, anche se la strada per raggiungere i playoff è ancora lunga e tutta in salita.

Con 6 squadre in lotta per gli ultimi due posti validi a raggiungere i playoff nella Eastern Conference, gli Heat non possono concedersi più passi falsi, soprattutto tra le mura amiche, violate già 18 volte in questa stagione a fronte di sole 13 vittorie.

E sono già cerchiate sul calendario le date del 5 e 7 aprile, quelle in cui faranno visita ai Pacers e ospiteranno all’AAA gli Charlotte Hornets, ovvero due scontri diretti da vincere a tutti i costi per raggiungere l’obbiettivo prefissato in questa sciagurata stagione.

One thought on “Non sottovalutate il cuore dei Miami Heat

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