Se nella prima parte di questa analisi avevamo puntato la nostra attenzione sulle (poche, a dire il vero) chance di Celtics e Nets di essere protagonisti da metà Aprile in poi, in questa seconda parte entriamo finalmente nel vivo di quella che è la corsa play-off della Eastern Conference.

Ci focalizzeremo infatti sulle tre squadre che, nel momento in cui scriviamo, occupano settimo, ottavo e nono posto della graduatoria e che, presumibilmente, si giocheranno i due posti disponibili per la post-season, per poi provare a dare fastidio alle favorite al titolo del versante atlantico in un primo turno che si preannuncia uno dei meno scontati degli ultimi anni: ci riferiamo, ovviamente in ordine alfabetico, ai Miami Heat, agli Charlotte Hornets e agli Indiana Pacers.

MIAMI HEAT

Lo spin-off della serie di successo “I miei anni al college”, sempre ideato e diretto da Pat Riley e dal titolo “Retooling, not rebuilding ”  , ha mandato in onda un nuovo episodio in prossimità della trade deadline, durante il quale è avvenuto un decisivo colpo di scena (e siamo sicuri che non si tratti di uno spoiler) ,ossia l’acquisizione dai Phoenix Suns di Goran Dragic.

Infatti, è indubbio che dal punto di vista tecnico e mediatico l’arrivo del play di Lubiana a South Beach sia stato lo scambio più interessante dell’ultima giornata di mercato rendendo sulla carta Miami, se non una vera contender in un Est comunque senza un padrone, almeno una squadra da play-off.

Tuttavia, anche a valle di questa trade permangono una serie di dubbi: prima di tutto, l’adattamento dello sloveno in un contesto tattico che non ha previsto, nelle ultime stagioni, la presenza di un play tradizionale (non avendone bisogno, sia chiaro) e che, anche dopo l’addio del Prescelto, si è adattato ai nuovi interpreti, piuttosto che evolversi in qualcosa di diverso; inoltre, l’elevata età media dell’ intero roster e la tenuta fisica nel medio periodo dei suoi elementi chiave (Wade in primis, ma escludendo da questo discorso l’indisponibilità di Bosh) sono considerazioni che non depongono a favore delle quotazioni della banda di Spoelstra.

L’inaspettata esplosione di Hassan Whiteside (10.9 ppg e 9.8 rpg, numeri in base ai quali qualcuno si è già affrettato a parlare di Hassanity) e l’inadeguatezza di molte rivali potrebbero rivelarsi alleate degli Heat nella corsa verso la post-season, un obiettivo che, data la ridotta finestra di competitività di questo gruppo e tenuto conto dei ristretti margini di manovra del front office nel prossimo futuro (specie se il rinnovo di Dragic avverrà alle cifre da superstar che si prospettano) ,in Florida non possono minimamente pensare di fallire.

Tuttavia, ad essere realisti, uno scenario nel quale Miami termina la sua stagione a metà Aprile è tutt’ altro che da escludere, in quella che, al netto dell’unicità della situazione di Bosh, rimarrebbe una delle maggiori delusioni dell’intera annata cestistica.

CHARLOTTE HORNETS

La recente serie positiva dei ragazzi allenati da Steve Clifford (sei vittorie nelle ultime nove partite, di cui cinque consecutive) ha permesso alla franchigia della North Carolina di scalare la classifica della Eastern Conference fino ai margini della zona play-off, sicuramente una posizione a loro più congeniale rispetto alle attese di inizio stagione.

Protagonista indiscusso della remuntada è stato il neo-acquisto Mo Williams, già compagno di merende giovanile del centro titolare Al Jefferson e giunto dal Minnesota attraverso il “sacrificio” di Gary Neal e di una seconda scelta.

Infatti, con i suoi 21.4 ppg e 8.5 apg, conditi da quattro doppie-doppie nelle sue prime dieci partite in maglia Hornets, l’ex Cavs si è dimostrato ben più di una polizza assicurativa nell’attesa, ormai conclusa, del rientro di Kemba Walker, garantendo in prospettiva un netto miglioramento nelle rotazioni del back court.

Se dunque gli Hornets, anche attraverso il ritorno del loro play titolare, riusciranno a trovare e mantenere una fluidità nel loro gioco offensivo (dati alla mano, siamo ai livelli di una squadra da lottery), allora non bisognerà meravigliarsi se, nel contesto dei play-off, essi si riveleranno un osso molto duro da battere quattro volte su sette per tutte le pretendenti al titolo della Eastern Conference.

D’altra parte, per ambire ai palcoscenici più prestigiosi, Charlotte dovrà necessariamente passare attraverso il recupero, forse prima di tutto psicologico, di un Lance Stephenson al di sotto di quegli standard a cui aveva abituato, negli ultimi anni, i tifosi dei Pacers e gli appassionati in generale.

Ad ogni modo, per una squadra che fa della fase difensiva il suo punto di forza (sesta nella Lega con 97 punti concessi a partita, decima con 100.4 se parametriamo il dato su 100 possessi) , con numeri vicinissimi a quelli dei tanto decantati Hawks e migliori anche di quelli di squadre difensivamente più quotate come i Bulls (costante riferimento se il tuo proprietario si chiama Micheal Jeffrey Jordan), pare più complicato non presentarsi ai nastri di partenza della post-season che non il viceversa: un’ onorevole eliminazione al primo turno pare, ad oggi, la sorte più probabile di questa versione dei “calabroni” .

INDIANA PACERS

La trasformazione della squadra di coach Vogel è senza ombra di dubbio il tema del momento in NBA: com’ è possibile che la stessa squadra sia passata da una striscia di sette sconfitte consecutive nella parte centrale del mese di Gennaio (per altro, non la peggiore striscia perdente in stagione) al 12-2 realizzato nell’ ultimo mese e mezzo, con il quale i Pacers guarderebbero tutte le altre squadre dall’alto verso il basso se la stagione fosse iniziata col mese di Febbraio?

Sicuramente gran parte della spiegazione sta, più che in una ritrovata efficienza difensiva (nella quale i giallo-blu erano e rimangono squadra d’elite NBA), in un netto miglioramento delle cifre nella metà campo offensiva, dove i Pacers sono passati dai 95 punti segnati a partita (98 ogni 100 possessi) tra Novembre e Gennaio ai quasi 102 (con dato che schizza a sfiorare i 108 sui 100 possessi) fatti registrare dal 1° Febbraio in poi: insomma, tutta la differenza che passa tra una squadra da lottery e una contender.

E’ sorprendente notare come questa metamorfosi coincida praticamente del tutto con il ritorno a pieno regime di George Hill, che tra un infortunio e l’altro ha praticamente saltato mezza stagione: il reintegro del prodotto di Purdue è stato infatti fondamentale non solo per permettere all’attacco di Indiana di ritrovare le certezze perdute nei mesi estivi prima (con l’addio di Stephenson e l’infortunio di Paul George) ed invernali poi, ma anche nella conversione di Rodney Stuckey da anonimo starter ad arma letale partendo dalla panchina.

Per altro, a beneficiare del ritorno di Hill in cabina di regia sono stati anche i lunghi, le cui percentuali sono nettamente migliorate : il caso più lampante è quello di David West, tornato devastante in situazione di pick and roll.

E’ chiaro che, continuando di questo passo, è più facile pensare ai Pacers come una mina vagante in ottica play-off piuttosto che immaginare uno scenario nel quale Hibbert e soci si accostino alla post-season solo dal loro divano di casa; se poi, per quanto attualmente improbabile, nel prossimo mese il talento di Paul George tornerà a calcare i parquet della Lega, allora dalle parti di Indianapolis nessun tipo di obiettivo portà realmente essere precluso.

5 thoughts on “La corsa ai Playoff ad Est (Part. 2)

    • Sono d’accordo con te, ma cosa vuol dire Play Tradizionale?
      http://www.ciuff.it/2015/01/02/levoluzione-del-gioco-lascesa-dei-playmaker
      T’invito a leggere quest’eccelso articolo ed in particolare questa parte:

      “Il ruolo del playmaker, come detto, si è ormai completamente snaturato rispetto alla concezione originaria del ruolo, ovvero uomo d’ordine dedito alla creazione del gioco e mai realizzatore. C’è da dire, per la precisione, che in Nba il playmaker è sempre stato piú finalizzatore rispetto ai campionati Fiba, dove fino agli anni 80, la regola era Davide Bonora, calcolatrice sul parquet, mai un errore, mai una persa, solo sapiente regìa.”

  1. “Tradizionale” nel senso di accentratore e catalizzatore della manovra offensiva.Mi pare ovvio sottolineare quanto lo sloveno abbia bisogno di avere la palla in mano per rendere al meglio, a differenza per esempio di un Mario Chalmers che a giocare “off the ball” non può che guadagnarci.

    Spero di aver chiarito il tuo dubbio!

  2. http://www.ciuff.it/2015/01/02/levoluzione-del-gioco-lascesa-dei-playmaker

    Ci sono diversi tipi di playmakers e per me Dragic è un play guardia.

    Playmaker GUARDIA

    Sono le point guard votate principalmente ad attaccare il ferro, a fare canestro, a portare a casa 20 o più punti a sera. Insomma, giocatori che il gioco lo creano, ma non con la regìa, bensì dominando gli avversari offensivamente, aprendo con il loro strapotere offensivo spazi per se stessi e per i propri compagni. Derrick Rose, Damien Lillard, Russell Westbrook e Kyrie Irving, con quest’ultimo che sta studiando alla corte del re per migliorare e trasformarsi in un giocatore decisivo non solo in fase realizzativa ma anche nella gestione del gioco.

  3. Intanto grazie per la segnalazione,leggerò sicuramente l’articolo.

    Detto questo,è chiaro che l’evoluzione del gioco porta a un’ evoluzione anche dei ruoli e a ciò che viene richiesto a determinati giocatori (pensate allo “stretch four” ,figura sulla quale sto scrivendo un articolo a quattro mani e che spero verrà pubblicato nel giro di qualche giorno): quando ho dato quella definizione di Dragic ovviamente non l’ho fatto pensando a lui come potrei pensare, per dire, ad un Kidd o a un Nash, ma di certo lo sloveno per rendere c’ha bisogno di “controllare” la manovra offensiva come facevano l’ ex Nets e il canadese.
    Che poi la controlli andando lui stesso in penetrazione, oppure scaricando al miglior offerente, quello è un altro problema, ed esula anche un pò da quello che volevo intendere in quel momento.

    Comunque, in generale,affibbiare delle etichette è sempre molto rischioso, si rischia di banalizzare e di non cogliere appieno la realtà delle cose.

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