Alla trade deadline del 19 febbraio si sono mossi tanti giocatori, e ci sono stati molti scambi tatticamente interessanti, ma nessuno è intrigante, o ha le stesse implicazioni sentimentali, del ritorno a Minneapolis di Kevin Garnett.

A maggio The Big Ticket compirà 39 primavere, non è più l’All Star di un tempo, ma, al di là dallo scontato declino fisico, è un campione che si allena duramente, uno che prende sul serio il suo ruolo e le responsabilità, e che vive per la competizione.

Minnesota l’ha voluto sia per motivi d’immagine (Garnett resta di gran lunga il giocatore più amato della franchigia, che quest’anno ha solo 14.000 spettatori di media, ma nelle due partite giocate dal Bigliettone, ha scollinato quota 19.000), sia per ragioni sportive;
KG è chiamato a un ruolo da leader e da chioccia dei giovani in squadra, in campo e fuori, con l’esempio e con i consigli.

Dall’alto delle sue 20 stagioni NBA (durante le quali ha partecipato a 15 All Star Game, ha vinto un titolo NBA, un trofeo di MVP, uno di Miglior Difensore, ed è diventato l’unico giocatore nella storia della lega ad aver collezionato 25.000 punti, 10.000 rimbalzi, 5.000 assist, 1.500 rubate e altrettante stoppate, e guadagnato più di ogni altro cestista) KG è il miglior mentore che Andrew Wiggins, Ricky Rubio e compagnia (Minnesota è la sesta squadra più giovane della NBA) possano sognare.

The Kid, come lo chiamava Sam Mitchell sul finire degli anni ’90, ha vissuto le stesse esperienze che Wiggins sta sperimentando in questi mesi, dai momenti esaltanti ai fallimenti. È passato dall’High School all’NBA quando i liceali erano guardati con estremo sospetto, guadagnandosi, allenamento dopo allenamento, il rispetto dei compagni e dello staff tecnico, fino a diventare uno dei giocatori più forti di tutti i tempi.

Quand’era un rookie, KG divenne il protégé di Sam Mitchell (che all’epoca era un’ala esperta) e che oggi ritrova nel ruolo di assistente allenatore. Mitchell, abbacinato da quel che vedeva in allenamento, fu il primo a prendere da parte i giornalisti, per dire: “Kevin Garnett è il giocatore più forte del mondo, e ricordatevi che l’ho detto io”, ma non era certo il solo.

Quando lo vide la prima volta, Elgin Baylor disse che Kevin “Aveva i migliori mezzi atletici per un giocatore di quella taglia che io avessi mai visto. È molto magro, ma non importa, con la sua agilità e coordinazione, può essere un vero grattacapo per le ali piccole, le ali forti, e anche i centri”.

Garnett misurava due metri e undici, ma giocava ala piccola, ruolo che sapeva interpretare con cognizione di causa, pur difendendo come una specie di “libero”, veloce nei raddoppi, sempre pronto a stoppare dal lato debole, o a prendere rimbalzo e ad aprire il contropiede, con buona pace di chi pensa che certi specimen fisici siano prerogativa della generazione dei Kevin Durant o degli Antony Davis.

Flip Saunders, che è tornato a occupare la panchina dei T-Wolves, è ben felice di riaccogliere un giocatore come KG in uno spogliatoio che tracima talento ma non di altrettanta esperienza.
Di sé, Kevin dice: ”Non sono mai stato un individualista. Non me n’è mai importato dei riconoscimenti, sono sempre stato guidato dalla competizione e dal processo d’apprendimento”.

Garnett porta in dote ai Wolves una quantità infinita d’esperienza; The Revolution sa come si vince (2008) e come si perde una Finale (2010), è stato prima opzione (a Minneapolis) e “secondo violino” (a Boston), ha giocato contro i Bulls di Michael Jordan, contro i Lakers di Shaq, è stato membro di squadre forti e scarse, in mercati grandi e piccoli, scambiato, criticato, osannato, ha visto giovani guardie perdersi per strada (Stephon Marbury), e altre diventare solide realtà (Rajon Rondo).

Secondo Sam Cassell, l’assistente di Doc Rivers che con KG raggiunse le Finali di Conference nel 2004 e il titolo nel 2008: “Kevin Garnett è uno che rispetta i tuoi sentimenti; ha rispetto anche per l’ultimo giocatore del roster”, il che è vero in campo, ma non aspettatevi un giocatore morbido. Subito dopo la trade, Saunders ha avvisato i suoi giocatori di non usare i cellulari in spogliatoio, pena, vedere il 21 infilarli nel wc e tirare l’acqua.

Questo suo atteggiamento, la disponibilità a lavorare per i compagni senza pretendere tiri o attenzioni, unito a una determinazione feroce in allenamento, è stato a lungo oggetto di critiche.

Ricordiamo un salotto di TNT del 2002, in cui Magic e Barkley lo criticavano per l’incapacità di pretendere la palla nei momenti cruciali, mentre solo Danny Ainge (che poi sarebbe diventato GM dei Celtics e l’avrebbe voluto con sé) lo difendeva, ponendo l’accento sull’inconsistenza della squadra.

La sua assoluta serietà nel preparare le partite, è diventata parte del cambio di cultura dei Celtics.
Lo spogliatoio di Minnesota sembra un ambiente positivo, ma con KG, nessuno potrà adagiarsi sugli allori di un Dunk Contest, o un eventuale ROY.

Il Bigliettone è sempre stato tanto bravo a fare squadra e prendersi cura delle persone vicine, quanto a inimicarsi i rivali, a volte con comportamenti ben oltre la soglia del cattivo gusto, dalle frasi contro Charlie Villanueva a quella non confermata, ma che se pronunciata, è davvero indegna, detta a Tim Duncan, nel 1999.

Atteggiamenti che stridono con quanto visto a Pesaro, nel 2001, quando Kevin girava con Mo e Mike, due ragazzini di Chicago rimasti senza famiglia, ai quali lui ha fatto da padre, o con quel che di lui dicono il già citato Cassell, o Joe Smith, che l’ha definito “Uno dei migliori compagni di squadra che ti possano capitare”.

Come sempre, è difficile (se non impossibile) capire come sia una persona basandosi sul sentito dire, o su quel che fa in televisione. La sensazione (confortata dall’opinione di molti giocatori NBA) è che Garnett sia un giocatore duro e competitivo, uno che usa tutte le armi a disposizione per provare a vincere, dalle stoppate a gioco fermo, alle provocazioni (lo ricordate mentre sfotteva José Calderon o Andrea Bargnani?); tutte cose che, alla lunga, non l’hanno certo trasformato nel beniamino dei colleghi.

Al netto della freddezza del resto della Lega, Kevin è destinato alla Hall of Fame. I Celtics potrebbero non ritirarne la maglia (come spesso ricorda Paul Pierce, non hanno mai ritirato la maglia di nessuno che abbia vinto meno di due titoli), ma il suo banner occuperà un posto d’onore al Target Center, mentre il rumore che fa la palla quando Garnett cattura un rimbalzo, la sua intensità da “psycho” (come si definì lui stesso), le stoppate, la classe cristallina, il modo in cui difende (è detentore del 18esimo plus-minus reale NBA, a quota 3.36), sono leggenda.

I T-Wolves l’hanno scelto perché, di là dal contributo in campo e dalla scadenza contrattuale, vogliono che qualcuno detti l’imprinting di Anthony Bennett (candidato a replicare il pianto in panchina di Glen Davis?), Zach LaVine e Andrew Wiggins, e che costringa tutti ad allenarsi meglio.

In campo, Garnett può dare venti minuti d’esperienza e leadership, ma non farà la differenza, ma è tornato a Minneapolis per essere soprattutto una presenza positiva, in spogliatoio e in allenamento.

KG languiva a Brooklyn, una squadra senza capo né coda, costruita con i soldi, senza riguardo per chimica o equilibrio, ed era scontato che, alla fine del proprio contratto (in scadenza a giugno) si sarebbe ritirato, mentre ora parla apertamente della possibilità di andare avanti per altri due anni (e si vocifera di una possibile cordata, da lui capitanata, per rilevare il club da Glen Taylor), ringalluzzito dal ritorno dove tutto è iniziato e dalla possibilità di chiudere il cerchio e d’essere, in una squadra di giovani, quel che Sam Mitchell e Kevin McHale furono per lui.

5 thoughts on “Kevin Garnett ai Timberwolves, tra nostalgia e prospettive

  1. Gli aveva fatto gli auguri per la festa della mamma…Peccato che la signora Duncan fosse venuta a mancare, per un tumore, il giorno prima del quattordicesimo compleanno di Tim. Da quel che so, non esistono conferme, quindi è da prendere cum grano salis

  2. Ma sei sicuro che sia il giocatore che ha guadagnato di più in assoluto nella NBA?

    Ovviamente immagino vengano considerati solo i salari e non gli extra (sponsor), altrimenti Jordan è fuori concorso

  3. Sì, mi riferivo ai contratti con la squadra. Il podio è Garnett, Shaq, Kobe, ma tutta la top ten è costituita da giocatori scelti negli anni novanta, che hanno beneficiato del periodo più lucroso in assoluto.

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