Nonostante l’arrivo di Kevin Love e il ritorno in Ohio di LeBron James, operazioni estive che legittimavano a sognare in grande, nessuno, a partire dal nuovo coach David Blatt, s’illudeva che i Cavs fossero da subito una squadra perfetta: era chiaro che il roster fosse difensivamente fragile e senza un ”cinque” di ruolo, e che molti giocatori avrebbero avuto bisogno di tempo per adattarsi a una realtà con ambizioni.

Alla quarta sconfitta consecutiva, LeBron ha detto di ritenere i Cavaliers una squadra fragile: “Lo siamo stati sin dall’inizio, ed è qualcosa che deve cambiare con l’esperienza”.

Nonostante mille cautele e il realismo di Blatt e delle tre superstar, la realtà sembra inferiore alle aspettative, tra difesa letargica, un certo egoismo, e problemi assortiti.

Ci attendevamo qualche problema difensivo iniziale, ma i Cavs sono pessimi anche offensivamente, e stanno regredendo rispetto alle prime partite, quand’erano capaci di metter punti sul tabellone con fluidità e buone percentuali, facendo uso di un convincente attacco Princeton.

Ora però i Cavs stanno tirando con il 45% dal campo (19 squadre fanno meglio di loro) e con il 36.7 da tre (ottavi). Se uniamo queste cifre, di per sé non tragiche, al fatto che sono ventiseiesimi per defensive efficiency (107.4 punti su 100 possessi) e che gli avversari sono accampati nel loro verniciato, (dove segnano con un inquietante 65.2%) il quadro della situazione inizia ad assumere tinte fosche.

cavs14

In seguito alla sconfitta con i Raptors, un non meglio specificato membro dello staff dei Cavs ha confidato alla stampa locale: “vedremo chi riderà a giugno” che potrebbe anche essere profetico, ma per arrivarci, Cleveland ha dinnanzi a sé tantissimo lavoro.

Oltre al dato tattico, è l’atteggiamento a lasciare sconcertati: qualcuno inizia a mostrare palese fastidio, e il primo ad avere un “body language” (ci limitiamo a questo, perché non siamo nello spogliatoio o agli allenamenti) negativo sembra proprio LBJ, che pure, dopo la sconfitta contro i Blazers, disse “sarà un processo lungo, molto più di quanto non lo fosse stato nel 2010. La mia pazienza sarà messa alla prova, lo so, ma ho un nuovo allenatore e dei nuovi compagni”.

Di là dall’enigmatica sintassi del Prescelto, non sappiamo se il suo atteggiamento sia parte di questa strategia, ma essere passivi difficilmente aiuterà Kyrie Irving e Kevin Love, due giocatori abituati a contesti perdenti, a vedere la luce.

Nell’entusiasmo estivo, tutti si sono concentrati sulla difficoltà di far giocare assieme tre prime donne come Kyrie Irving, LeBron e Love, ma pochi si sono soffermati sul background sportivo di Irving e dell’ex di Minnesota, due ragazzi di grande talento che, però, da quando sono in NBA i Playoffs li hanno visti in tv.

La difesa di entrambi rimane inguardabile, mentre offensivamente, Love si sta via via adattando ad un ruolo sempre più marginale (il suo usage offensivo recita un 20% da comprimario, e segna praticamente solo se assistito, il che significa che non ha virtualmente mai in mano la palla) sebbene sia l’unico a segnare in modo efficace dalla media, mentre Irving penetra molto, e continua a crearsi da solo i propri tiri, con risultati alterni.

Kevin Love 2014

Kevin Love 2014

Kyrie finisce al ferro con il 69.1%, ma fuori dalla restricted area segna con il 18.2% (4-22) e con il 39.2% dal mid-range. Non sono i numeri di un grande playmaker, men che meno di quello di una squadra da titolo, soprattutto perché, oltre a queste percentuali, anche il numero di assist di Irving è in picchiata (4.8 contro i 6.1 dell’anno scorso, che già, non erano poi tanto entusiasmanti).

Dodici mesi fa, i Cavs avevano già convocato una riunione players-only che avrebbe dovuto dirimere la controversia tra Dion Waiters e Irving, accusato dal primo di non passare mai la palla (toh!). Lungi da noi sostenere che Kyrie sia stato viziato un po’ troppo da Chris Grant e poi da Griffin, ma certe ricorrenze possono assumere contorni sinistri.

Irving e Love sono giocatori speciali, dotati di caratteristiche che li rendono unici (in una recente telecronaca, Jon Barry ha definito Kyrie come il miglior trattatore di palla dai tempi di Isiah Thomas) ma che non stanno affatto sublimandosi nel contesto di squadra.

Aver trasformato Love in un (eccellente) tiratore sugli scarichi significa non poterne sfruttare appieno il potenziale offensivo, che si esprime quando può giocare a due e gestire il pallone dal post alto.

Allo stesso modo, Irving sta abusando delle proprie doti di palleggiatore per costruirsi tiri di mediocre qualità, anziché per sfruttare il pick-and-roll con Love e con LeBron.

La responsabilità di questa confusione tecnica non può evidentemente ascriversi ai soli giocatori, ma è altresì vero che in pre-stagione e nelle prime gare di regular season, i Cavaliers avevano utilizzato un sistema di gioco molto più altruista di quello, asfittico e rabberciato, nel quale si sono rifugiati con il passare delle partite, segno che Blatt ha predicato, ma, alle prime difficoltà, il gruppo s’è disunito.

Per quanto possiamo stimare l’ex allenatore di Maccabi e Treviso, non è lui il coach ideale per guidare un gruppo simile; Blatt era stato scelto dal GM David Griffin quando la squadra si fondava ancora su Irving, Wiggins, Bennett e Waiters.

Non abbiamo la palla di cristallo, ma è lecito supporre che, avessero avuto per le mani LBJ e Love, i Cavs si sarebbero mossi diversamente.

Con questo non vogliamo certo dire che David Blatt non sappia fare il suo lavoro, ma è, per background, più vulnerabile di altri allenatori (pensiamo a Derek Fisher o a Mark Jackson, piuttosto che George Karl), e meno credibile, sia per chi ha già vinto (LeBron) e ha radicato alcune abitudini, che per chi, finora, ha ammonticchiato solo sconfitte (Love e Irving) e deve trovare la voce che lo spinga a cambiare passo.

Tutti questi fattori hanno prodotto un mix esplosivo per cui Cleveland attacca male e difende peggio; le cifre irreali di LeBron di un anno fa sembrano lontane anni luce, la squadra gioca con un entusiasmo da corteo funebre, e passa male la palla (21.8 assist sono lontani dalle cifre che la Princeton può produrre con un trio di stelle come quelle dei Cavs).

Lebron nel 2013

Lebron nel 2013

Lebron in questo inizio di stagione...

Lebron in questo inizio di stagione…

Aggiungiamoci che i difetti che erano preconizzati durante l’estate (difesa porosa e poca presenza sotto canestro) sono confermati dai fatti, e il record di 6-7 è spiegato.

È molto presto per dar per morta questa squadra, che ha abbondanti margini di miglioramento e tutto ciò che serve per arrivare fino in fondo, tuttavia i Cavs si stanno accorgendo che il talento da solo non serve a nulla, se non è accompagnato da intensità, passione, e voglia di vincere.

Capiteranno serate nelle quali basterà l’attacco dei Big Three, ma una squadra non può vivere di performance individuali estemporanee se vuole vincere, e se l’obiettivo è il titolo NBA, allora serve anche una difesa d’élite, fatta, più che di talento, di disponibilità al sacrificio.

Di là dall’aspetto mentale, è chiaro (e lo era anche in estate) che questi Cavs sono destinati a soffrire nel verniciato. Non tanto a rimbalzo, dove Kevin Love (i cui numeri sono in picchiata rispetto alle medie alla Rodman degli anni passati, ma che continua a catturare il 44.1% di rimbalzi contestati, numeri che lo collocano sopra a Cousins, Vucevic, o Bogut) può dire la sua e così anche Tristan Thompson e Varejao, ma quanto a protezione del canestro.

I Cavs hanno appena richiamato il rookie Alex Kirk dai Canton Charge della D-League, ma il problema è di attenzione difensiva e non di soli centimetri.

Certo, Love, per struttura e atletismo, è giocatore molto meno verticale di Chris Bosh, ma, pur senza pretendere che diventi Anthony Davis, deve assolutamente diventare un difensore migliore: attualmente, concede al suo diretto avversario il 51.4% dal campo, un’enormità, che tocca il 65.7% se ci si avvicina al canestro (6% sopra la percentuale abituale dei suoi avversari).

Inoltre, anche il lavoro difensivo perimetrale dei Cavs potrebbe essere migliore. Perso Gee, l’unico difensore individualmente accettabile dei cavalieri è James. Oltre alle penetrazioni concesse, che stanno uccidendo i Cavs, Irving lascia al suo diretto avversario il 48.6% abbondante (contro il 43.7% che i suoi avversari segnano di media), mentre il solo LeBron tiene il diretto avversario sotto media, seppur di poco.

Lo stesso Varejao, che è specialista difensivo (con modalità bizzarre, ma tant’è) oggi concede il 60.9% al ferro, figlio dell’impossibilità di marcare contemporaneamente il proprio uomo, quello di Love, e di tener d’occhio anche i tagli degli esterni.

Il campione preso in considerazione si compone di sole 13 partite, e nelle restanti 69 gare i Cavs avranno tutto il tempo di ribaltare questi dati, assolutamente provvisori, ma resta il fatto che quest’inizio ha confermato le preoccupazioni circa la difesa interna di Cleveland, e sta rivelando altre criticità che erano inattese.

Alcune difese convogliano la penetrazione sui lati, come gli Spurs di inizio millennio, che portavano il penetratore da David Robinson, lungo la linea di fondo. Altre, come quella di Phil Jackson, vanno nella direzione opposta, convogliando la penetrazione al centro. Insomma, non esistono comandamenti scritti nella pietra, ma una scelta va fatta, mentre questi Cavs, al di là dei difetti individuali, sembrano non avere regole.

È indubbio che aggiungere un rim-protector (capace di difendere sul proprio uomo e di aiutare sulle penetrazioni) migliorerebbe la difesa (in questo senso, David Griffin ha dichiarato alcuni giorni fa che nessuno è indispensabile, ma attenzione anche ai free agent: dovesse ottenere il via libera dai medici, Emeka Okafor sarebbe perfetto per questi Cavs), e che questo tipo di roster sembra fatto apposta per esporre i difetti di Love, ma qualcosa si può certamente fare in termini di chiarezza tattica da parte dello staff e di impegno da parte dei giocatori.

Per quanto riguarda l’attacco, i margini di crescita sono ancora maggiori: Irving e LeBron stanno gestendo male la palla, fermandone la circolazione e ricorrendo a soluzioni individuali di scarsa efficacia.

Una fonte d’ispirazione potrebbe provenire dai Warriors, dei quali ci siamo occupati settimana scorsa: proprio come Steve Kerr ha tolto la palla di mano da Curry e Thompson per trasformare Golden State in una formazione più varia e pericolosa, portando Bogut in post alto, così i Cavs dovrebbero convogliare il proprio attacco attraverso Kevin Love, consentendogli di passare la palla e prendere decisioni.

Love non è un difensore accettabile, ma è un giocatore di grande intelligenza offensiva, capace di mescolare bene le carte, alternando il tiro da fuori e la penetrazione, senza mai perdere di vista i propri compagni.

L’anno scorso Love era ottavo in tocchi a partita, quest’anno è ventisettesimo; Kevin è il primo a sapere che giocare nei Cavs avrebbe comportato alcuni sacrifici, ma non siamo sicuri che confinarlo ai margini dell’attacco sia il sacrificio che destinato a produrre dividendi per il club.

In tutto questo, stupisce un po’ la lentezza di LeBron ad adattarsi al nuovo contesto tecnico, che, tra l’altro, ha voluto fortemente, reclutando Love in prima persona.

Si dice spesso che LBJ è un playmaker naturale, ma Bryant (che playmaker non è) sviluppò un’intesa fantastica con Gasol sin dal primo istante, a stagione in corso.

Il fatto che Love e James non abbiano fatto altrettanto, pur essendo giocatori clamorosi, denuncia i difetti di entrambi: Love è stato poco assertivo nell’imporsi a Irving e LeBron, mentre per quest’ultimo, il limite è forse quello di dover avere la palla in mano per sentirsi efficace.

Diciamo “sentirsi” perché sappiamo che James può essere letale anche (e forse soprattutto) lontano dalla palla, con ricezioni dinamiche in avvicinamento, oppure in situazioni di pick-and-roll 1-3.

La narrazione odierna vuole che LBJ sia l’erede di Magic Johnson, ma ci sembra che questi paragoni (con Magic come con MJ) lascino il tempo che trovano: James non è né un realizzatore puro, alla Kobe, e nemmeno un vero play (Magic non era playmaker perché faceva bei passaggi in contropiede, ma perché trattava la palla, la distribuiva e costruiva il gioco in ogni azione).

LBJ dovrebbe, a nostro avviso, essere ricordato come un giocatore totale, e vedersi come tale.

James aveva trovato il proprio nirvana tecnico con Wade, Spoelstra e Bosh, a Miami. È voluto tornare a Cleveland, ritenendo conclusa la parabola degli Heat e nascente quella dei giovani Cavs, ma per poter guidare questo gruppo, dovrà per prima cosa ritrovare le armonie che l’avevano spinto a giocare un basket celestiale in quel di South Beach.

 

3 thoughts on “Focus: Cosa succede a Cleveland?

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