Per prima cosa, le presentazioni: negli anni ottanta e novanta Andrea Gracis è stato una bandiera della Scavolini Pesaro e poi di Treviso, vincendo molto (argento a Roma nel 1991, tre Campionati, tre Coppe Italia e una Coppa d’Europa).

In seguito è diventato procuratore e scout per i Sacramento Kings. Dallo scorso gennaio è A.D. di Universo Treviso Basket, il progetto che mira a dare nuova vita al glorioso basket trevigiano.

Andrea, tu hai giocato in Serie A quando era un campionato d’altissimo livello, collezionando tra l’altro 93 presenze in azzurro e uno splendido argento agli Europei. Hai avuto una carriera fantastica tra Pesaro e Treviso, che, tra le altre cose, ti ha permesso di giocare con Walter Magnifico e di scendere in campo contro l’ultima Yugoslavia, nel 1991. Dopo decenni di lavoro impeccabile, il basket italiano vive oggi una pesante crisi strutturale. Che idea ti sei fatto di queste vicende, e, soprattutto, come se ne esce?

Credo che non sia cosa sola ad aver determinato questa situazione. Forse, a voler identificare il fattore principale, lo identificherei nell’incapacità delle società italiane di lavorare per un’idea comune.

In NBA David Stern ha lavorato per il movimento, trasformando la National Basketball Association in un prodotto fruibile a livello planetario. Alla nostra realtà sta mancando questo tipo di progettualità, un’idea comune per far crescere la pallacanestro italiana senza limitarsi all’orticello. Se una società è in difficoltà, ne risente il movimento nel suo insieme. Dobbiamo lavorare per aiutare le società in difficoltà a crescere, e non affossarle.

Nel 1990, al MacDonald’s, la tua Scavolini scese in campo contro i New York Knicks, costringendoli all’over-time. Che ricordo serbi di quell’esperienza, e che impressione ti fece il gioco statunitense, a livello fisico e tecnico?

Quelli erano i primi anni in cui ci si avvicinava all’NBA. Era inarrivabile, non come ora, con i ragazzi che possono ambire concretamente a giocarci, come hanno fatto Bargnani, Datome, Gallinari e Belinelli.

Cominciare a confrontarsi con gli americani era straordinario, e fu l’impatto fisico a colpirmi maggiormente. Non tanto l’aspetto tecnico, ma la preponderanza fisica rispetto a noi europei, che oggi è viceversa quasi colmata.

I Knicks erano all’inizio della preparazione (era l’11 ottobre, quindi Gracis è generoso nei loro confronti. N.d.R.), quindi avevamo il vantaggio di affrontarli non al top della condizione. Noi giocammo una gran partita, e forse i vertici NBA tremarono quando Gerald Wilkins dovette segnare da tre per portare la partita all’over-time.

All’epoca, l’idea di andare a giocare negli USA era pura utopia, mentre oggi abbiamo quattro giocatori NBA di buon livello, un Belinelli campione del mondo, e Gentile in rampa di lancio; eppure la Nazionale sembra lontana parente di quella che conquistò l’oro europeo nel 1999, ai tempi di Galanda, Fucka, Mayers, Abbio e Meneghin. Come mai?

È un controsenso, ma è difficile conciliare le esigenze della Nazionale con quelle individuali dei ragazzi che sono in NBA. Per vari motivi, dagli infortuni di Bargnani e Gallinari all’esigenza di Belinelli di concentrarsi sul suo futuro NBA, non hanno mai giocato assieme.

C’è difficoltà a conciliare le esigenze, comprensibili, dei ragazzi, e quella di garantire la presenza in Nazionale. A mio avviso, la squadra è buona, e se si trova chimica, con la presenza di Gentile (che è all’attenzione delle franchigie NBA), possono essere competitivi. Il problema è trovarli tutti disponibili e sani, per consentire a Pianigiani di amalgamarli.

Dopo le expansions di fine anni ottanta, gli americani sono stati costretti a guardarsi attorno per cercare nuova linfa, e si sono interessati ai giocatori europei più affermati: prima Drazen Petrovic, Arvydas Sabonis, poi Toni Kukoc. In seguito, approfondita la conoscenza, hanno iniziato a prelevare giocatori sempre più giovani, come Ginobili o Dirk Nowitzki.
Quant’è cambiato il loro modo di guardare all’Europa nel corso degli anni, e quanto bene ci conoscono?

Direi che le cose sono cambiate molto. Ci sono stati degli apripista straordinari, come Divac e Marciulionis, oltre a quelli che hai nominato, e che hanno fatto la differenza, e aprendo la strada a tutti gli altri.

Noi europei ci siamo resi conto che il divario non era così ampio, e che molto dipendeva dall’aspetto fisico del gioco; allenandolo meglio, il gap si è progressivamente ridotto.

Dal canto loro gli USA, dopo la figuraccia di Mike Krzyzewski, che nel 2006, battuto dalla Grecia, si riferì a Theo Papaloukas indicandolo con il numero di maglia, hanno cambiato registro.

Gli americani hanno iniziato a lavorare con umiltà, e oggi si documentano su come lavorano le squadre europee, e guardano al resto del mondo con più rispetto e considerazione.

Sappiamo che gli americani hanno un rapporto a volte conflittuale verso il basket d’oltreoceano: da un lato, subiscono il fascino di certi giocatori, dall’altro ci accusano d’aver esportato alcune cattive abitudini, come il flopping: quanto c’è di vero?

Ci può essere qualcosa di vero. Di sicuro gli americani non apprezzano l’antisportività, o usare i mezzucci per ottenere vantaggi, ma sono aspetti che non inficiano il loro rapporto con l’Europa.

Inizialmente avevano una posizione snobistica, mi è capitato, nei primi anni in cui arrivavano allenatori americani, uno che ci insegnava a fare le trecce, ed è un po’ come non sapere chi è Papaloukas. Oggi invece guardano all’Europa con attenzione anche dal punto di vista delle metodologie di lavoro.

Siamo su un piano paritetico, e i rapporti sono cambiati moltissimo. L’atteggiamento resta quello di aver il campionato migliore del mondo, ma è in fondo lo stesso atteggiamento che abbiamo noi italiani, a ruoli invertiti, rispetto al calcio.

È bello vedere i nostri giovani arrivare in NBA e affermarsi, ma questo, unito al fatto che i veterani NBA non vengono più a giocare in Europa, ha reso i nostri campionati meno competitivi.
Esiste il rischio che la NBA prosciughi il pozzo dal quale attinge?

Credo che l’Eurolega sia un campionato al quale la NBA guarda con molto interesse; c’è la crema dei giocatori europei ma anche tanti americani che vogliono crescere senza passare per le leghe di sviluppo. Non so se ci sia questo rischio, dipenderà da quanto l’Europa potrà offrire in termini economici ai giocatori di alto livello.

L’NBA è il sogno di tanti ragazzi, ma ce ne sono altrettanti che, con un buon contratto, preferiscono essere protagonisti e giocare, restando in Europa. So di molti giocatori che piuttosto che giocare 82 partite a dieci minuti di media, preferirebbero un po’ meno soldi in cambio di un ruolo importante.

Hai lavorato per Geoff Petrie, il GM che, a inizio millennio, assemblò i fantastici Kings che sfiorarono le Finali nel 2002. Quella squadra è stata la prima formazione NBA ad avere un cuore europeo, con Vlade Divac, Pedrag Stojakovic, e il giovane Turkoglu in uscita dalla panchina. Come avvenne il contatto?

Tramite l’agenzia Interperformances, per la quale all’epoca lavoravo come agente. Interperformances assunse l’incarico di fornire un supporto scouting a Sacramento, e all’interno dell’agenzia mi fu assegnato il compito di seguirli, così conobbi Petrie e Wayne Cooper (Basketball Vice President) personalmente.

Dopo un anno di lavoro mi proposero di diventare scout in esclusiva per loro, nel 2006. Era una bella occasione che ho colto al volo, e sono rimasto con loro per 7 anni.

Come funziona il processo di scouting NBA, a livello europeo, e quant’è cambiato, nel corso degli anni?

Dipende molto da franchigia a franchigia. Ho molti amici che fanno questo lavoro, e ogni squadra adotta metodologie differenti. Houston, ad esempio, da tantissima importanza ai giocatori europei, ed è meticolosa nel monitoraggio di tutti i campionati, quindi investe molto in personale e viaggi, e così anche Oklahoma City.

Sacramento era una realtà che, pur essendo interessata all’Europa, era meno esasperata nel monitoraggio. Io avevo la responsabilità dell’intera Europa, mentre altre franchigie hanno collaboratori specifici in determinati campionati, come quello russo o serbo.

Io mi occupavo di tutta l’Europa a mia discrezione, e mensilmente mandavo relazioni sui giocatori, creando dei ranking. Seguiva un contatto diretto sia con Petrie sia con Wayne Cooper, per organizzare i viaggi e visionare i giocatori interessanti da me selezionati. Quindi, circa due volte l’anno, a una mia selezione, seguiva la loro verifica.

Nel corso dell’esperienza con i Kings, hai avuto modo di incontrare Shareef Abdur- Rahim, che oggi è molto quotato come possibile GM. Lo conosciamo bene come eccellente power forward, ma che impressione ti sei fatto di lui come manager?

Io l’ho conosciuto come scout. Quando è venuto a visionare Jonas Valanciunas ho trascorso una settimana in sua compagnia, ed è davvero una splendida persona.

Ha una fondazione cui dedica tempo e denaro, è un ragazzo umile, e anche quando c’è stato il passaggio tra la vecchia e la nuova proprietà e sono andato a Sacramento, lui, che è stato uno dei pochi sopravvissuti all’epurazione, mi è stato vicino, abbiamo cenato assieme, mi è stato di grande supporto e aiuto. Come manager non l’ho testato, ma è una brava persona e gli auguro tutto il bene possibile.

Dall’esterno, l’impressione è che negli ultimi anni della gestione Maloof/Petrie ci sia stato un certo disinvestimento, in attesa di trovare un acquirente per la franchigia. Anche tu hai avuto quest’impressione di trascuratezza?

C’è del vero, nel senso che negli ultimi tempi il lavoro di Petrie si è basato più sul risparmio e sull’ottimizzazione delle risorse, per limitare i costi e far recuperare soldi. Non si respirava un’aria propositiva, ma si è ugualmente tentato di fare qualcosa di positivo, ma se devi risparmiare, è chiaro che certe scelte diventano obbligate.

Sono scelte in fondo perfettamente legittime, penso ad esempio ai Grizzlies, tanto criticati per aver spedito Pau Gasol ai Lakers in cambio di spazio salariale. In realtà, hanno ricostruito anche grazie a Marc Gasol, i cui diritti arrivarono in quella stessa trade.

La differenza è che, in NBA, una ricostruzione richiede tempo, non è come nel calcio, dove basta poter spendere; Ci sono limiti imposti dal draft e dalla free agency. Ci vuole pazienza.

Oggi, conclusa l’esperienza con i Kings, partecipi insieme a Riccardo Pittis nel tentativo di rinascita del basket trevigiano. È stato doloroso osservare impotenti quel che è successo alla squadra che, ai tempi di Giorgio Buzzavo e Maurizio Gherardini, fu un crocevia del basket continentale. Che ricordo conservi della grande benetton, e che opinione ti sei fatto della scelta della famiglia Benetton d’occuparsi solo delle giovanili?
Il ricordo, fino a Gherardini (perché con la sua uscita è crollato tutto), è di una società organizzata ed estremamente competente, con un’idea di crescita e programmazione d’alto livello.

Non per niente Gherardini è stato chiamato a lavorare negli USA (a Toronto e Oklahoma City. N.d.R.), ed è stato il miglior manager italiano; ha creato un circolo virtuoso con l’ingaggio di Nachbar, Bargnani, e americani di livello che sono passati per Treviso e sono poi arrivati in NBA.

C’è una statistica che dice che la squadra che ha fornito più giocatori alla NBA dal 1991-92 al 2011-12 è Kentucky con 40, ma Treviso, prima tra le europee, è settima, con 28. Dalla Benetton sono passati Toni Kokuc a Vinnie Del Negro, fino a Maurice Evans.

Credo che Benetton abbia lasciato anche per disamoramento a seguito dell’affare-Lorbek. Ha allontanato la famiglia dal basket, e un’altra cosa che presumo abbia influito è che con l’investimento che volevano fare, Treviso non sarebbe stata competitiva in Europa.

Per un nome come Benetton non ha senso giocare per arrivare quinti o sesti, o non essere competitivi in Europa. Dopo aver vinto veramente tutto, almeno in Italia, si è chiuso un ciclo.

Quali sono le vostre prospettive?

È cambiato tutto, non c’è il mecenate alle nostre spalle. Abbiamo uno sponsor come De’Longhi e una cinquantina di piccole aziende del consorzio Universo Treviso, che contribuiscono alla crescita della nostra società. Vogliamo consolidarci, programmare e costruire una squadra che possa durare nel tempo.

Ci piacerebbe riportare entusiasmo a Treviso; sei vittorie consecutive ci consentono di sorridere, e il pubblico ha risposto in modo fantastico. La cosa bella è che c’è identificazione tra squadra e tifosi, il PalaVerde è quasi pieno, domenica eravamo il palazzetto con più spettatori di tutto il panorama cestistico italiano.

 

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