È ottobre, il mese dei primi freddi, delle castagne, e, per noi appassionati di NBA, anche di training camp, quando tutti sono più sorridenti, le prospettive rosee, e ogni giocatore si dichiara pronto a difendere e giocare duro per 82 partite.

Un altro dei grandi classici autunnali sono gli allenatori che, citando la Princeton Offense, o “principi di Attacco Triangolo”, promettono attacchi meravigliosi.

Eppure, poche franchigie NBA giocano continuativamente un sistema offensivo come i due citati; quel genere di sistema richiede solitamente un periodo di adattamento, e un allenatore NBA ci penserà due volte prima di adottare un tipo d’attacco che chiede ai giocatori di abbandonare antiche abitudini, e che, di solito, comporta un periodo di risultati altalenanti. Come dice David Blatt, “Ci vuole molto tempo per sviluppare la Princeton Offense. Serve un certo tipo di personale, e i giocatori devono rinunciare a giocare come sanno”.

Alla vigilia della stagione 2014-15, molte più franchigie del solito promettono di usare dei sistemi d’attacco, anziché dei set offensivi classici; c’è la Denver di Brian Shaw, che sta cercando di traghettare i Nuggets verso un basket più ragionato, la Golden State di Steve Kerr, che dovrebbe appunto implementare “principi di Attacco Triangolo”, e la New York di Derek Fisher e Phil Jackson, che l’Attacco Triangolo vorrebbe usarlo per intero, mentre a Los Angeles, sponda gialloviola, Byron Scott vorrebbe adoperare quei meccanismi di Princeton che contribuirono a far grandi i suoi Nets.

Qualche critico ha storto il naso, soprattutto perché l’attacco Princeton è ritenuto un sistema lento e che incoraggia il tiro dalla media (due tabù, nell’era della sabermetrica), ma si tratta di perplessità infondate, e che tradiscono una concezione mortificante del Gioco.

Un sistema infatti, si adatta alle esigenze; il Triangolo dei Bulls non era quello dei Rockets di vent’anni prima, e nemmeno quello che ha vinto i due titoli di Bryant e Gasol ma, con gli opportuni accorgimenti, si è sempre dimostrato vincente (dal 1991 a oggi ha vinto 11 titoli NBA e conquistato 13 Finali), ma ritenuto difficilmente esportabile (ricordiamo gli insuccessi di Quinn Buckner e Jim Cleamons a Dallas, di Tim Floyd ai Bulls e di Kurt Rambis ai Timberwolves), oggi, quasi all’improvviso, l’eredità di Jackson e di Tex Winter sembra pronta a sbocciare.

Quali vantaggi comporta utilizzare un sistema offensivo, anziché ricorrere a un playbook con i vari giochi da chiamare volta per volta?

I sistemi, rispetto ai set offensivi, sono meno prevedibili. Mentre un set offensivo conosce due, tre, forse quattro opzioni (dopodiché si deve ricorrere all’uno contro uno), un sistema offensivo è un meccanismo fluido nel quale le opzioni non si esauriscono mai, perché non c’è uno schema da chiamare, ma una serie di movimenti che vanno appresi e poi applicati a seconda di come si comporta la difesa.

È chiaro che utilizzare un sistema richiede alcuni talenti particolari: Mitch Kupchak diceva che quando lavorava con Jackson, valutavano i giocatori da reclutare in base alla loro abilità di passatori; la Princeton Offense richiede in più discreti tiratori.

Ci sono numerosi ostacoli che i vari Shaw, Bundenholzer, Brown, Kerr, Scott e Fisher dovranno superare; dalla resistenza di alcuni giocatori, specialmente le stelle, non sempre inclini a rinunciare ad alcuni egoismi in nome del collettivo, alla difficoltà di leggere coralmente la difesa e di comportarsi di conseguenza.

Tex Winter racconta che, ai tempi in cui allenava i Rockets, chiese a Elvin Hayes, superstar e principale realizzatore della franchigia, di fare qualcosa di diverso, come passare la palla, solo per sentirsi rispondere “Io sono un All Star. Perché dovrei cambiare il mio modo di giocare? Chiedermi di passare la palla è come chiedere a Babe Ruth di fare un bunt”.

In realtà, il problema di Hayes, che viaggiava con medie fantascientifiche pur facendo sempre lo stesso immarcabile palleggio e tiro, consisteva nei suoi limitati fondamentali.

Alla fine, Hayes, ammettendo di saper fare una cosa soltanto, confessò a Winter che “Coach, è troppo imbarazzante per me fare queste cose”, e Tex modificò l’attacco per consentirgli di ricevere e tirare. Questo scambio descrive molto bene il motivo per il quale il Triangolo ha sempre stentato a trovare posto nel mondo dei pro.

Allenatori sotto pressione non possono permettersi esperimenti (e a volte non vogliono perdere il controllo del gioco, continuando a chiamare gli schemi dal pino), e le star hanno troppo potere rispetto ai loro allenatori, al punto da poterli far licenziare (Hayes in questo era uno specialista, ma non certo l’unico).

Ci volle Jerry Krause, che conobbe Winter quando Tex allenava a Kansas State e Jerry faceva lo scout per Washington, per riportare il Triangolo tra i “pro”. Diventato GM dei Bulls, Krause chiamò Winter a Chicago, e il resto, come si suole dire, è storia.

Che sia l’eredità di Sam Barry con il suo attacco con il centro opposto, o di Tex Winter o di Phil Jackson, l’Attacco Triangolo è appena tornato prepotentemente alla ribalta; Don Nelson, da GM dei Mavs, disse a Cleamons che l’unico motivo per il quale il triangolo vinceva era la presenza di MJ, ma i tanti allievi di Jackson ritengono che il Triangolo, con le opportune modifiche, possa funzionare benissimo anche senza.

Oggi più che mai, in un basket che richiede continuo movimento di palla, usare un sistema potrebbe rivelarsi una risorsa preziosa.
In fondo, gli Spurs campioni in carica adoperano una motion-offense che è frutto dell’assemblaggio di vari modelli, e che ricorre a svariati principi del Triangolo e della Princeton (e a volte, ne usa addirittura alcuni schieramenti).

Partiamo dalle parole di A.C. Green, venerabile maestro, tre titoli NBA e quindici stagioni consecutive senza saltare una partita, uno che ha giocato e vinto accanto a Kareem Abdul-Jabbar e a Shaquille O’Neal: “Il triangolo ti trasmette la sensazione di dover prestare attenzione ai dettagli, che è una cosa che a me piace. L’avevo assaggiato a Dallas, quando Cleamons allenava lì; per me, il triangolo è il modo in cui il basket andrebbe giocato. Passi la palla, tagli e porti un blocco, finché qualcuno trova un buon tiro. Inoltre, è rassicurante ritrovare sempre un determinato schieramento in campo e comprenderne la sinergia”.

Il triangolo è dunque un sistema di letture, che conosce alcune situazioni prefissate (il “blind pig”, il “momento della verità”) ma che vive di fluidità. Richiede quindi cinque giocatori capaci di passare bene la palla, e la capacità di riconoscere cosa succede. Dice Horace Grant: “Il guaio con il triangolo è che se un giocatore sbaglia lettura, s’incasina tutto quanto”.

I vantaggi portati dai sistemi consistono nell’imprevedibilità: chi gioca il Triangolo non forza una situazione offensiva, ma saggia la difesa, in cerca del punto di minor resistenza. Nello schieramento dal quale prende il nome, il Triangolo Laterale serve per sovraccaricare un lato e poi ribaltare sul lato che la difesa ha sguarnito.

Sempre Horace Grant: “È molto difficile difendere contro il triangolo, perché ci sono tantissime opzioni disponibili. A lungo andare, il Triangolo porta anche grandi benefici al fisico dei giocatori, perché ti devi sempre allontanare dalla pressione e muoverti per il campo. Dopo il Triangolo, gli altri sistemi tradizionali sembrano troppo semplici o inefficienti, perché o ti mandano a sbattere contro la difesa, oppure te ne stai da parte e aspetti il tuo turno. La fisicità ti logora, e l’attesa fa perdere concentrazione”.

Il Triangolo è duttile, capace di mettere in risalto guardie e lunghi in egual misura: ha magnificato il talento di Jordan e Bryant, ma anche quello di Shaq e Gasol, passando per Wilt Chamberlain, a Philadelphia, che con Alex Hannum, giocava un sistema simile. Michael Jordan derideva il Triangolo definendolo “attacco delle pari opportunità”, ma una ricerca di Arizona State del 2010 ha confermato che, nei Playoffs di quell’anno, la squadra che condivideva meglio il pallone (da un punto di vista matematico) erano proprio i Lakers di Jackson.

Col passare dei lustri, molte formazioni hanno adottato le soluzioni del Triangolo, e Jackson ha a sua volta preso da altri allenatori (il doppio pick-and-roll di Adelman e Carril, per dirne una), in un proficuo arricchimento tecnico del quale a beneficiare è prima di tutto il gioco.

Proprio Carril dice: “Mi piace il Triangolo per via dei passaggi e dei tagli. Un giocatore non rimane mai lì fermo, perché c’è sempre una posizione del campo da occupare. Ma i giocatori devono essere capaci di concentrarsi”.

Un altro assistente di quei Sacramento Kings era John Wetzel, che a Virginia Tech aveva giocato per Howard Shannon, che a sua volta giocò nella Kansas State di Tex Winter: “Giocavamo l’Attacco Triangolo in una versione non molto dettagliata. Lo usavamo perfino contro le zone. Ci sono molti motivi per i quali in NBA non si usa il triangolo: prima di tutto, perché è estraneo al modo in cui i giocatori di oggi hanno imparato a giocare. Secondo, perché di solito è un gran disastro mentre i giocatori cercano di impararlo e, in quel periodo, il lavoro dell’allenatore è a rischio. Terzo, perché si deve convincere un giocatore dominante ad accettare un sistema che richiede a tutti di giocare molto a lungo senza palla. Ma se avessi un contratto garantito e lungo, userei sicuramente il Triangolo”.

Al riguardo, Jackson dice: “il Triangolo è solo un sistema, ce ne sono molti altri che possono funzionare altrettanto bene”. Uno di questi è la Princeton Offense, rimessa a lucido da Pete Carril a Princeton University, appunto.

Questo sistema ha conosciuto minor gloria NBA (la sua stagione di massimo fulgore fu il 2001-02, quando i Kings arrivarono a Gara 7 contro i Lakers, e i Nets in Finale NBA), ma è un impianto di gioco altrettanto valido, e adotta principi tutto sommato simili al Triangolo, come le corrette spaziature, il costante movimento senza palla, e i tagli (che, a ben vedere, sono alcuni dei principi predicati anche da Popovich).

Si può giocare con due lunghi veri (i Kings avevano Chris Webber e Vlade Divac, ma anche Scott Pollard, uno che il pianoforte, più che suonarlo, l’ha sempre spostato) oppure con uno soltanto, come i Nets, che usavano uno schieramento con un solo post e quattro esterni, incluso Kenyon Martin).

Il primo principio della Princeton è di guardare il difensore, perché sarà lui a determinare dove andrà l’attaccante. Il secondo principio (che la distanzia dal Triangolo) è quello di fare back-door se si è anticipati forte dal difensore. Rispetto a Winter, Carril ha predicato molto di più l’uso del pick-and-roll ad inizio azione, ma si tratta di sistemi assai duttili.

La Princeton Offense si può sviluppare come attacco di post alto, con tutti i giocatori sopra alla linea del tiro libero (quindi i tagli saranno verticali verso il canestro), oppure di post basso (e i blocchi saranno portati sotto canestro per gli esterni che eseguiranno tagli per lo più orizzontali lungo la linea di fondo, mentre i lunghi saliranno in post alto a fare i passatori).

Siamo abituati a pensare che all’Attacco Triangolo serva una superstar capace, se il meccanismo dovesse incepparsi, di “pagare cauzione” e giocare in isolamento negli ultimi secondi, ma in realtà, questo è un problema tipico di tutti gli attacchi, e a ben vedere, maggiore per quelle squadre che hanno solo tre/quattro opzioni, esplorate le quali, si ricorre all’isolamento.

Ovviamente i sistemi offensivi non si esauriscono con Triangolo e Princeton: esistono ad esempio l’Attacco UCLA di Wooden e l’Attacco Flex di Carrol Williams, ma gli impianti di gioco di Winter e Carril sono sicuramente tra i più affascinanti e hanno influenzato gli schemi di molti allenatori.

Popovich utilizza a volte uno schieramento 4-1 che vive di penetrazioni fulminanti, proprio come la Princeton di Byron Scott, mentre altre volte gli Spurs portano la palla in posizione di ala, usando movimenti propri dell’Attacco Triangolo.

Quello dei Texani è un attacco costruito da Coach Pop, Brett Brown e Mike Budenholzer, del quale l’ex-agente della CIA dice: “È un attacco di movimento, malleabile. Cambia continuamente, nel senso che, quando la palla e i giocatori sono in movimento, possono capitare cose che non erano pianificate, ma che i giocatori fanno spontaneamente, e che poi diventano parte dell’attacco”.

I suoi assistenti, divenuti nel frattempo allenatori (con i 76ers e gli Hawks), stanno cercando di replicare i successi del loro mentore. Ovviamente, hanno a disposizione molto meno talento rispetto a quando lavoravano a San Antonio, ma l’attacco di Atlanta ha consentito ad una formazione non irresistibile di fare un certo rumore nei Playoffs della Eastern.

Quel che sarà interessante osservare è come questi sistemi verranno adattati ad un personale diverso rispetto a quello che li ha resi famosi (vale a dire, il nucleo storico degli Spurs, le formazioni di Phil Jackson e i Kings di Adelman) e in un contesto di regole che privilegia l’alternanza di tiro da tre e conclusione al ferro rispetto al gioco dalla media distanza.

Un sistema può aiutare una buona squadra a fare il salto di qualità (ed è per questo che riteniamo molto interessante seguire i Warriors di Kerr), ma è difficile da trapiantare in una formazione in ricostruzione, come i Nuggets di Shaw, o i Lakers di Scott.

Si tratta in ogni caso di esperimenti coraggiosi e rinfrescanti, in un panorama cestistico che si sta appiattendo sul tiro da tre e che confonde il basket di Popovich con quello di D’Antoni, simili nell’output (entrambi incoraggiano le conclusioni dalla lunga distanza) ma non certo nelle premesse tecniche, o nella gestione della partita.

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