E’ ancora Finale NBA per i San Antonio Spurs, la sesta dal 1999. E’ un altro successo per una franchigia che ha elevato gli standard di eccellenza cestistica a livelli difficilmente visti in precedenza, mai, probabilmente, su un arco temporale così lungo. Una franchigia che ha avuto grandi successi, ma anche terribili fallimenti: dal tiro di Fisher con 4 decimi di secondo nel 2004, alla sconfitta in casa a gara 7 contro Dallas nel 2006 dopo una stagione da 63 vittorie, all’uscita al primo turno da prima del tabellone con Mepmhis due anni fa, fino al tiro di Ray Allen nelle Finals 2013.

Ma che, nonostante questo, non ha mai trovato scuse e con il lavoro e un sistema perfetto è sempre rimasta al vertice e oggi è lì di nuovo a cercar vendetta contro gli stessi Miami Heat dell’anno passato.

E proprio con questa mentalità San Antonio ha vinto la decisiva gara 6 contro i Thunder, prima partita equilibrata della serie, prima vittoria in trasferta della serie.

Nel terzo quarto c’è stata la svolta, proprio nel momento più complicato, quando molte squadre avrebbero tirato i remi in barca. Tony Parker, infatti, dopo un primo tempo sofferto, dava forfait per un problema alla caviglia sinistra, accomodandosi in panchina per il resto della partita.

Oklahoma City a quel punto era avanti di 7 punti (49-42) dopo il primo tempo e sembrava avere il controllo energico sulla partita. Un colpo del genere appariva essere un cazzotto da ko per i texani. Che invece hanno risposto al loro modo: dentro in quintetto Cory Joseph (oltre che a Matt Bonner) e, con l’aiuto prezioso della panchina, partita girata in un quarto da favola finito 37-20 (col 54% al tiro e 4/6 da tre punti) con Diaw inarrestabile, Ginobili (16, 6 rimbalzi, 5 assists e 4 recuperi) a far impazzire la difesa con le sue invenzioni e Leonard punta offensiva.

Perchè gli Spurs sono questi: non esistono scuse. Non esistono infortuni. Si fa al meglio con quello che si ha, e non conta se questo è Parker o Cory Joseph, visto che tutto si muove in un concetto di pallacanestro più grande che ti può portare ad avere, in una delle partite più importanti dell’anno, un Boris Diaw da 26 punti e 8/14 al tiro, con gli avversari che vedono Durant e Westbrook combinare per 65 punti, 21 rimbalzi e 10 assists in maniera inutile.

Gara 6 è stata in tutto e per tutto un manifesto del sistema Spurs. Anche dopo la rimonta di OKC nel quarto periodo (32-22 l’ultimo quarto, dopo un 15-2 Spurs tra terza e ultima frazione che li aveva portati avanti 81-69) e la partita al supplementare, Popovich ha trovato la ricetta vincente per chiudere i conti mettendosi nelle mani di quello che è la colonna portante dei San Antonio Spurs intesi come franchigia: Tim Duncan (19+15). Lui che c’è sempre stato, che è stato l’artefice del primo successo nel lontano 1999, è stato lo stesso che stanotte, dopo una partita sofferta, ha dominato l’overtime con 7 punti consecutivi e l’aiuto difensivo decisivo sul tiro di Durant che, a 15″ dalla fine, poteva di nuovo pareggiare la partita.

E probabilmente, da un punto di vista romantico, è anche giusto così. Perchè se c’era un giocatore che si meritava la rivincita dopo la bruciante beffa dell’anno scorso era proprio lui.

Oklahoma, invece, torna a casa con le pive nel sacco, al termine di una serie schizofrenica, persa una volta, ripresa tra gara 3 e 4 che sembravano rimettere gli uomini di Brooks coi favori del pronostico e poi di nuovo persa, con una gara 5 mal giocata e oggi con una sconfitta che forse non era stata preventivata.

Questa volta, l’assenza di una panchina affidabile (51-5 il parziale in favore di San Antonio) e un gioco troppo prevedibile nei momenti cruciali hanno condannato i Thunder all’uscita.

Come detto, Durant e Westbrook hanno prodotto ottimi numeri, Jackson (21, 5 rimbalzi e 3 asissts) è stata la solita spina nel fianco per i neroargento e Ibaka (16 punti e 4 stoppate) ha risposto presente dopo la gara 5 in cui aveva ripreso fiato. Ma tutto attorno è stato il vuoto, senza un giocatore che abbia saputo portare un contributo tangibile alla partita.

Su Westbrook, poi, andrebbe aperto un capitolo a parte. L’ex UCLA ha giocato il suo solito basket fatto di energia più che di fosforo (34, 7 rimbalzi, 8 assists, 6 recuperi ma anche 7 perse), ma nel supplementare è finito fuori giri, non facendo praticamente mai toccare la palla a nessuno e chiudendo con 1/7 al tiro, inclusa una decisiva stoppata subita, con recupero, da Kawhi Leonard (sontuoso con 17 e 11 rimbalzi), da cui poi è nato il possesso su cui Duncan ha segnato il +3 a meno di 20″ dalla fine.

Gli uomini di Brooks avevano cominciato bene la partita che, seppur fosse sembrato chiaro da subito non avrebbe ricalcato le orme dei precedenti episodi, stava andando nella loro direzione sempre grazie alle proprie armi migliori: atletismo e energia in difesa.

Anche dopo il terzo quarto choc, sulle spalle proprio di Durant e Westbrook  OKC aveva avuto la forza di rimontare, sfiorare la vittoria e poi riacciuffare la partita proprio all’ultimo soffio con un canestro in penetrazione di Westbrook dopo che Ginobili dalla lunetta aveva fatto solo 1/2 per il 101-99.

L’overtime poi ha fatto vedere in maniera cruda come quelle che sono le forze dei Thunder, in certe situazioni, si possano rivelare debolezze decisive in partite del genere. Gli Spurs hanno destinato quasi tutti i propri palloni a Duncan in post basso, avendolo riconosciuto come centro offensivo più affidabile in quella situazione, OKC, al contrario, non è stata capace di servire il proprio (e della Lega) MVP, che si è trovato a prendere il tiro decisivo senza aver avuto possibilità, nei minuti precedenti, di prendere ritmo offensivo.

Il risultato del campo tirando le somme è probabilmente quello giusto. In questi due anni passati dalla Finale del 2012 Oklahoma City ha avuto il grande merito di rimanere a livelli altissimi, ma non è ancora riuscita a fare quel passo che le serve per poter comandare l’Ovest, certo, anche non aiutata dal destino (leggasi infortuni).

Soprattutto manca ancora quella freddezza necessaria per gestire queste partite, quando ancora, troppo spesso, Durant e compagni giocano un basket troppo improvvisato.

E contro questi Spurs, che fanno dell’organizzazione e dei piccoli dettagli il proprio mantra, quest’anno non si poteva passare.

Largo allora al trio terribile Duncan – Parker (da valutare le sue condizioni) – Ginobili, al loro capo mastro ex agente CIA e alla voglia di rivincita di una franchigia che ci darà anche la gioia di vedere un italiano nel momento più importante del basket mondiale per la prima volta, sperando che possa avere un ruolo più sostanzioso di quello avuto in questa serie.

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