I Playoffs dei Rockets sono stati anticlimatici rispetto ad una Regular Season che, dopo le incertezze iniziali, aveva regalato 54 vittorie e un finale in netto crescendo.

La montagna ha partorito il topolino, ossia l’eliminazione da parte dei Portland Trail Blazers di Aldridge e Lillard, mettendo McHale e i suoi giocatori dinnanzi a numerosi interrogativi (non così inattesi, per la verità) di prima grandezza, dal destino dell’allenatore all’effettivo valore delle proprie stelle, Howard a Harden.

Houston si trova su un crinale scosceso, costeggiato da un lato dal rischio di trasformarsi in un costosissimo e inefficiente giocattolo, e dall’altro, dalla possibilità di costruire una squadra formidabile.

È un’alternativa che molti GM sognerebbero di poter incontrare sulla loro strada, ma è anche una situazione tremendamente delicata, che richiede la dote non comune di saper misurare con precisione la medicina da amministrare al malato.

Va detto che Morey ha costruito la situazione nella quale si trova grazie alle sue cospicue doti di manager: in pochissimo tempo ha cancellato le vestigia dei Rockets di McGrady e Yao, ricostruendo senza incertezze una franchigia composta da giocatori adatti al basket che ha in mente, quello portato all’estremo dai Rio Grande Valley Vipers (farm team di Houston), fatto di tiri da tre presi rapidamente o di penetrazioni chiuse al ferro.

Ha dimostrato di saper scegliere bene al draft e d’esser capace di attrarre giocatori di prima grandezza, come Howard e, in fondo, anche Jeremy Lin, che firmò per i Rockets quando era ritenuto una stella in rampa di lancio. Morey è stato lestissimo anche sul mercato, rimediando James Harden senza rinunciare al “core” dei nuovi Rockets.

Oltre ai giocatori, Morey ha ricevuto carta bianca dal proprietario, Leslie Alexander, anche per quanto riguarda l’allenatore: ha voluto Kevin McHale, un tecnico adatto al tipo di pallacanestro che i Rockets volevano adottare e ideale complemento di un gruppo di giocatori bisognosi di una guida più che d’un condottiero.

Eppure, nonostante quanto di buono fatto dalla dirigenza di Houston, i Rockets non sono ancora una potenza di prima grandezza, circondati come sono da molti, legittimi, dubbi.

In Texas ostentano sicurezza, convinti come sono che il 2013-14 sia stato positivo per le 54 vittorie, piuttosto che negativo (per l’eliminazione 4-2 dai Blazers), convinti come sono di essere destinati a trovare sul mercato un free agent capace di trasformarli in una powerhouse con la quale tutti dovranno fare i conti.

Per quel che abbiamo visto, però, non basterà un free agent, fosse anche LeBron James, per far svoltare questo gruppo di giocatori.

I Rockets non sono certo scarsi, ma carenti da un punto di vista mentale; tanto è stato detto (e a ragione) della loro difesa, ma la loro incapacità di restare concentrati miete vittime in ogni zona del campo, incluso l’attacco, che è sì il punto di forza della squadra, ma che perde troppi palloni (il 16% del totale dei loro possessi finisce con un turnover) per non essere perfettibile.

Si tratta di un problema che il coaching staff conosce benissimo, e che McHale ha scelto di affrontare seguendo la natura volatile dei suoi giocatori, anziché imponendo regole e panche punitive.

Oggi l’ex Celtic ha una potente arma di persuasione nei confronti dei suoi ragazzi. Le squadre migliorano passando per le sconfitte, ed è possibile che i Rockets avessero bisogno di sbattere il naso contro alla dura realtà (l’eliminazione per mano dei Blazers) per rendersi conto di dover alzare il livello della contrazione.

In passato avevamo creduto di indicare che a battere Houston non sarebbe stata una formazione capace di imbrigliare l’attacco dei Rockets, ma viceversa una squadra abile nello sfruttare le crepe difensive dei texani, e così è stato: Portland ha banchettato, approfittando di una difesa il cui efficiency rating recita 112 punti concessi su 100 possessi (erano 103 in regular season), cifre indegne di una squadra con ambizioni.

Il principale imputato per questi numeri impietosi è James Harden, ossia la superstar conclamata della squadra. È normale, in NBA, che le stelle non difendano alla morte in ogni possesso, ma Il Barba è andato decisamente oltre il consentito. Un conto è Kobe Bryant, che per scelta tecnica gioca da flottante per sporcare le linee di passaggio anche a costo di farsi infilare un paio di volte a partita da un taglio non visto, un altro discorso è stare fermi a guardare.

Harden tende a difendere solo con le mani; preferisce faticare poco e scommettere sulla palla rubata anziché tentare di forzare l’attacco a un errore mediante una buona serie difensiva. Quello che porta in dote ai Rockets in termini di personalità e talento non è ovviamente discutibile, ma il suo atteggiamento lo è, e molto.

Al di là del problema tecnico costituito da dover difendere il quattro, avere una stella il cui atteggiamento comunica mancanza di concentrazione e poca attenzione ai dettagli influisce sempre sull’atteggiamento dei compagni e non a caso, difesa e palle perse sono problemi della squadra, oltre che di Harden; ci sono 160 giocatori NBA che in questa stagione hanno disputato almeno 50 partite con 25 minuti di media, ci informa Richard Li di RED94; tra questi, Harden è, insospettabilmente, 159° per metri percorsi (l’ultimo è Paul Pierce). La spiegazione di questo dato sta tutta nella metà campo difensiva, zona mistica nella quale il Barba tende ad dimenticare d’essere un atleta di livello.

Harden ha tutte le caratteristiche necessarie per essere un grande difensore, o almeno, per nascondere meglio le proprie lacune. I Blazers l’hanno attaccato sempre, senza soluzione di continuità, esponendone i limiti. Oltretutto ha mostrato la corda anche in attacco, con troppi palloni persi e la tendenza ad andare a cercare i tiri dove non dovrebbe, spezzando il ritmo offensivo della squadra.

Da questa descrizione può sembrare che James Harden sia la causa di tutte le fragilità dei Rockets, ma ci si sbaglierebbe; la scarsa verve difensiva è una malattia piuttosto diffusa tra tutti gli esterni di Houston, da Jeremy Lin a Chandler Parsons.

La porosità della prima linea difensiva di Houston complica notevolmente la vita a Dwight Howard, che è ormai recuperato, ma che non può fare miracoli se i suoi esterni giocano ai casellanti per 48 minuti.

Quel che è certo è che la guardia barbuta dovrà scavare dentro a sé stesso e nel proprio gioco per rimettersi in discussione e uscire da quel loop di errori nel quale si è cacciato.

Abbiamo detto della difesa, ma anche l’attacco è abbondantemente perfettibile: in una squadra che idealmente dovrebbe cibarsi di pick-and-roll tra lui e Howard o di tiri da tre e penetrazioni al ferro, spesso è stato proprio James il primo a far saltare il banco, con tiri avventati o uno-contro-uno insistiti quando sarebbe stato meglio muovere la palla.

L’impressione è che McHale dovrà convincere Harden che essere un leader non coincide con il volume di tiro; l’insistenza del Barba è ad un tempo ammirevole (perché ci sono tante presunte stelle che nei momenti caldi non solo sbagliano, ma spariscono) ma anche nociva, perché se il cuore è al posto giusto, il metodo è sbagliato: forse quest’ennesima delusione aiuterà Harden a capire che non può sempre attaccare cercando il fallo (non lo fa nemmeno Durant) e attaccare senza criterio.

Tanti grandi sono passati per questi momenti e non ci sorprenderemmo di trovare al training camp di ottobre un James Harden reso più forte e consapevole dalle delusioni.

Lo stesso discorso si può fare per la squadra: se i Rockets intendono davvero fare il salto di qualità, dovranno per prima cosa guardare con onestà alla serie disputata contro i Blazers, riconoscendo di dover cambiare cultura difensiva e di non potersi permettere di accendere e spegnere. Se troveranno delle scuse o s’incolperanno a vicenda, anziché crescere come gruppo andranno alla deriva, ciascuno per conto proprio.

I giocatori e McHale avranno molto su cui lavorare in termini d’approccio e attenzione ai dettagli, e la dirigenza ha già annunciato che non trascorrerà l’estate con le mani in mano: la notizia che il prossimo tetto salariale sarà più alto di 5 milioni rispetto a quello corrente consente ai Rockets di andare ancora una volta sul mercato dei free agent per cercare, nelle parole del proprietario Alexander, di rimediare un altro grande giocatore per impreziosire il roster.

L’estate di Morey sarà scandita dalle scadenze dettate dall’estensione contrattuale di Chandler Parsons e dal draft (i Rockets detengono le proprie scelte), per poi concentrarsi su una free agency adombrata dalla massima incertezza.

La situazione più spinosa riguarda il contratto di Parsons: i texani detengono il diritto di estendere il contratto di Chandler per un’altra stagione, a cifre di poco superiori a 900.000 dollari (quindi ben inferiori al suo valore di mercato). Se eserciteranno l’opzione, avranno spazio per tentare di accalappiare una stella per la terza estate consecutiva (dopo James Harden e Dwight Howard);

Dovessero decidere di non prolungare, Parsons diverrebbe un restricted free agent; i Rockets potrebbero pareggiare le offerte di tutte le altre squadre e così trattenere Parsons, ma direbbero addio allo spazio salariale del quale dispongono.

Insomma la scelta è tra aggiungere un free agent, rischiando di salutare Parsons tra un anno, e la certezza di trattenerlo, senza però poter più firmare giocatori di alto livello.

Ma chi sono i free agent dei quali hanno parlato Morey e Alexander? Loro non possono certo fornirci una lista (incapperebbero nelle multe di Adam Silver!) ma noi possiamo facilmente estrapolare una lista: oltre all’ovvio e improbabile LeBron James, esiste un’alternativa molto solleticante costituita da Carmelo Anthony, che si vocifera sia interessato a Chicago e Houston.

Da un punto di vista tecnico, i Rockets sono un “fit” perfetto per Carmelo, che ha sfiorato l’MVP giocando da ala forte e che ai Rockets potrebbe ripetere l’esperimento.

Che poi una squadra simile sia capace di produrre una difesa di livello è tutto da verificare, ma il potenziale offensivo sarebbe davvero sconfinato (posto che a basket si gioca sempre con un solo pallone).

Altri free agent dal profilo più accessibile sono CJ Miles, Trevor Ariza e Tabo Sefolosha, tre esterni duttili e abili difensori.

CJ Miles, in particolare, è il genere di giocatore che potrebbe adattarsi bene all’attacco dei Rockets e allo stesso tempo aiutare la squadra a cambiare cultura difensiva.

Allo stesso tempo, i Rockets sanno di avere un buon numero di giocatori che possono esplodere, da Isaiah Canaan a Troy Daniels. Inutile a quel punto rischiare di strapagare un comprimario che si può trovare in casa, meglio investire tutti i soldi su un solo giocatore capace di fare la differenza.

Chiudiamo tornando al punto di partenza: l’imperativo categorico di Houston è cambiare passo in difesa e aumentare la soglia di concentrazione. Se si vuole pensare di aggiungere degli anelli ai due vinti con Olajuwon negli anni novanta, non si può pensare di accendere e spegnere anche nel corso della stessa azione, a prescindere dalle mosse estive della dirigenza.

L’anno scorso McHale (che dovrebbe, salvo sorprese, essere confermato) aveva esordito sperimentando uno schieramento con Asik e Howard, dovendo però arrendersi all’impossibilità di attaccare in modo efficace con le Torri Gemelle in campo.

Posto che il contratto di Asik è poco appetibile, è un peccato che non si riesca a mettere più minuti a disposizione del turco, perché la presenza contemporanea di Omer e Dwight assicurerebbe il controllo dei tabelloni e chiuderebbe l’area alle penetrazioni, nascondendo in parte i limiti degli esterni; tutti questi vantaggi sarebbero però poi vanificati dalla pochezza offensiva di Asik, che, unita ai noti limiti di Howard, ingolferebbe l’attacco di Houston. Se McHale dovesse trovare l’alchimia giusta per tenerli in campo assieme, Houston potrebbe davvero cambiare marcia.

Morey si è messo nella posizione scomoda, ma al contempo ideale, di poter/dover scegliere: che fare di Chandler Parsons? E di Kevin McHale? Inseguire Carmelo o un paio di giocatori di sistema? O forse occorrerà un intervento più vasto per cambiare parte del personale a disposizione?

Il GM nativo del Wisconsin fino ad ora non ha sbagliato (quasi) nulla, ma la scelta più importante da prendere (quella che spesso si sbaglia facendosi prendere dall’ansia o assumendo un atteggiamento troppo conservativo) verrà presa nei prossimi tre mesi, e contribuirà a indirizzare questa giovane squadra verso un’aurea mediocritas oppure, chissà, verso il titolo NBA.

 

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