Che la Nuova Zelanda non fosse solo la patria degli All Blacks lo avevamo già capito noi italiani ai mondiali calcistici di quattro anni fa.

Ma che la Kiwi’s Nation riuscisse addirittura a sfornare talenti nella pallacanestro era qualcosa di impensabile, almeno fino a quando Steven Adams non è sbarcato in NBA, più precisamente ad Oklahoma City.

Certo, prima di lui c’era già stato Sean Marks, il quale ha vestito le maglie di Raptors, Heat, Spurs, Suns, Hornets e Blazers, prima di ritirarsi nel 2011 e conseguire la carriera di assistant coach di Gregg Popovich.

Ma il cammino di Marks è stato alquanto anonimo negli oltre dieci anni di permanenza in terra americana. Buon gregario, ma nulla più. Dotato di centimetri e fisico da mettere a disposizione della squadra, specialmente per spendere qualche fallo e garantire presenza sotto canestro.

Di certo questo non si può dire di Adams che, a soli 20 anni e alla prima stagione da professionista, ha già assaporato il quintetto base in venti partite per una media di 14.8 minuti nelle 81 gare disputate in regular season.

Il prodotto di UPitt (scelto con la dodicesima chiamata assoluta), ha guadagnato di settimana in settimana la fiducia di coach Scott Brooks che lo ha gradualmente inserito nella rotazione della squadra, responsabilizzandolo maggiormente quando ce n’è stato bisogno (vedi assenza di Perkins) e facendogli tirare il fiato nel momento in cui si vedeva maggiormente che era solo una matricola ancora acerba.

Steven, però, ha lavorato costantemente con un’etica da veterano, non lasciandosi frenare dalla sua inesperienza e provando a dare sempre il massimo quando chiamato in causa, come dimostrano i suoi 3.3 punti e 4.1 rimbalzi che, rapportati ai 36 minuti di impiego, lo proietterebbero ad un 8+10 niente male.

Ma quello che gli dà più credito è il fatto che tutto ciò lo ha ottenuto in una contender come i Thunder e non in una squadra da lotteria che il massimo che può fare è lottare per una migliore posizione al draft.

Adams ha sgomitato e si è fatto spazio in un team che è arrivato secondo ad Ovest, pur avendo dovuto fare a meno del suo secondo violino per lungo tempo, quel Russell Westbrook rimasto fermo ai box per varie operazioni al ginocchio.

I playoffs stanno vedendo Steven occupare sempre il suo solito ruolo, con il medesimo minutaggio, ma con un impatto che sembra essere addirittura maggiore, anche se non evidente in termini di cifre.

Ha fatto vedere ottime cose contro Zach Randolph e Marc Gasol nella serie con i Grizzlies e le ha dimostrate anche in quella contro i Clips dove si è trovato di fronte due colossi come Blake Griffin e DeAndre Jordan.

Ma in coppia con Serge Ibaka, Adams è stato spesso implacabile, garantendo personalità e professionalità, diventando un fattore in termini di intimidazione, con il suo instancabile lavoro nel pitturato e le sue stoppate.

Ora che, però, il congolese con passaporto spagnolo dovrà stare fermo per tutto il resto della post-season a causa di un infortunio al polpaccio, le responsabilità di Steven si innalzeranno notevolmente, diventando potenzialmente un punto di riferimento sotto canestro.

Un compito assai provante, ma che rispetterà con la massima serietà, provando a mettere in guai seri il front court degli Spurs, in cui presiede l’intramontabile Tim Duncan.

Ma la domanda che si fanno un po’ tutti, e non solo dalle parti dell’Oklahoma, è la seguente: quanto potrà ancora crescere?

Tanto, almeno secondo a quanto (poco) abbiamo potuto ammirare in questi mesi. Dal prossimo anno potrà già essere titolare fisso per la buona amalgama – specialmente difensiva – che ha mostrato con Ibaka, ma non solo.

Adams ha la possibilità di smentire chi si ostina a dire che il ruolo di centro è ormai finito e che la pallacanestro sta andando verso una nuova era, fatta di gioco in transizione, meno centimetri e più atleticità. Invece e per fortuna, ci sono ancora quei giocatori in grado di farti riassaporare la “vecchia” pallacanestro, fatta non di atletismo e verticalità ma di muscoli, ingombro volumetrico, grinta e sudore, tutte caratteristiche per le quali il neozelandese è secondo a pochi, anche in NBA.

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