bennetLa prima (vera) partita di Anthony Bennett si svolge a Cleveland, città conosciuta anche come Mistake on the Lake per le sue scarse attrazioni turistiche.

Cleveland è anche la città che ha deciso di puntare su Anthony Bennett: potendo scegliere per prima al Draft e scegliendo lui. Il debutto è contro quei Nets che di lì a poche partite si sarebbero rivelati come una delle sorprese in negativo della stagione.

Il cronometro segna quattro e quaranta alla fine della prima frazione nel momento in cui Tristan Thompson lascia il parquet per la prima scelta assoluta. Passeranno appena venti secondi e Blatche, diretto marcatore di Bennett, meglio conosciuto per le sue abilità offensive piuttosto che per quelle difensive, gli lascia spazio sull’arco dopo un pick&pop ben fatto. Bennett ne approfitta: una ottima scelta di tiro e un buon errore, ma da quel momento in poi si aprirà una sequenza inaspettata di tiri sbagliati.

Passano i giorni e lo zero su quindici dal campo arriva a diventare un’ossessione, quasi come qualcosa da esorcizzare al più presto. A Milwaukee, altra città dal discutibile appeal, segna il suo primo canestro su azione, chiudendo con una valutazione pari a -5.

E’ un inizio di carriera timido quello di Bennett, che affronta i primi mesi della sua avventura da pro con lo stesso spirito di un bambino che si nasconde sotto le coperte perché ha paura che qualcuno esca dall’armadio. L’impressione è che finché il numero quindici non aprirà le ante e scoprirà che dentro non c’è nulla di cui aver paura, le sue reali qualità stenteranno a venir fuori.

L’emblema del suo momento negativo, coincidente forse con il suo picco più basso, è l’ottava partita della stagione, quella contro i Wolves del bianco più forte della lega. Fino a quella partita è “uno su ventuno dal campo”.

Movimenti goffi e un’andatura lenta contraddistinguono la sagoma del rookie canadese, appesantita dalla mole di ogni tiro sbagliato, che come un enorme macigno si posa sulle spalle del ventenne. In campo, in quel momento, Love e Bennett sono due estremi di una linea attraverso la quale nasce e muore il basket.

Non c’è qualità in nessuno dei suoi atti, dal tiro ai blocchi portati, dai tagliafuori alla difesa. E’ solo un soggetto (troppo) pensante che vaga per il campo. La naturalezza del gesto tecnico o atletico soggiace alla paura e questo fenomeno testimonia ancora una volta la diabolica dannosità dell’inesperienza che sposa il terrore di sbagliare.

Dov’è quel ragazzo che con la maglia dell’Università del Nevada metteva insieme sedici punti e otto rimbalzi a partita? In NBA, si pensava, l’essere undersize per il ruolo di ala-grande poteva trovare compensazione nella forza animalesca che Bennet aveva dimostrato al college e ancor prima in highschool.

Le lacune tecniche, forse un pochino troppe per meritarsi una prima scelta assoluta (ma col senno del poi siamo tutti scout), sarebbero state oscurate dall’energia e dall’intensità che metteva in campo. Ora questi due aspetti sono fagocitati da qualcosa che spetterà ai Cavs, ma soprattutto al ragazzo, identificare e sconfiggere.

Già, perché Cleveland non è, allo stato degli atti, un ambiente favorevole per un rookie “timido” come Bennett. Tra le lamentele di Irving per lo scarso impegno dei compagni, i rumors che lo vogliono lontano dall’Ohio, la mancanza di disciplina che sembra aleggiare negli spogliatoi e i cattivi risultati raccolti, chi ne paga le conseguenze, tra tutti, è anche la prima scelta del duemilatredici.

Dopo insistenti voci di una parcheggio in D-League (smentite prontamente dalla franchigia), Bennett è stato utilizzato da coach Brown sempre più raramente, sovente rimanendo a sedere per tutto il corso della gara. Nessun accenno di miglioramento, se non quei quindici punti e otto rimbalzi messi a referto nella brutta sconfitta contro New Orleans.

Un fotomontaggio maligno ed efficace ritraeva la celeberrima foto di Chamberlain dopo la famosa partita dei cento punti. Al posto della cifra mai eguagliata è stato inserito il numero quindici, suo attuale massimo in carriera.

L’NBA può essere davvero un brutto posto, dove i migliori del mondo a fare una cosa sono concentrati nella stessa competizione. Sopravvivere è, prima di tutto, credere nei propri mezzi. C’è chi ha parlato di un problema legato alla bassa autostima del ragazzo, problema grave ovunque, figurarsi dall’altra parte dell’oceano, dove i giovani futuri prospetti vengono sottoposti anche a test psicologici per valutarne le attitudini.

La considerazione che un giocatore NBA ha di se stesso è di solito molto alta, e per questo rappresenta un coefficiente medio da cui partire. Per chi non conosce l’ambiente americano una recente dichiarazione di Arturo Vidal potrebbe aiutare a farsi un’idea.

Bennett dovrebbe stampare quella foto che lo ritrae in bianco e in nero, fissarla a lungo e attaccarla sul proprio armadietto. E’ il momento di partire da questa motivazione per lavorare duro e soprattutto per non diventare il secondo “mistake” sul lago Erie.

2 thoughts on “Anthony Bennett: l’errore nell’errore?

  1. Bel pezzo… Il problema non è mai il fisico, la storia della NBA è piena di gente con fisici “normali” che è entrata nella Hall of Fame, o anche di persone che a logica non dovevano durare due giorni che hanno fatto carriere anche più che dignitose… ma se non sei un vincente prima di tutto nella tua testa, non vai da nessuna parte. Penso ad esempio a Charles Barkley, perennemente sovrappeso ma giocatore iper carismatico e leader naturale

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