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Non ho mai creduto nell’amore a prima vista, ma quando Kevin Durant sbarcò sul pianeta NBA, persi completamente la testa per quel ragazzo magrolino, ma dotato di un talento offensivo fuori dal comune.

Sono ormai passati sette anni e quel ragazzo di strada ne ha fatta, così come i suoi Thunder che lui ha visto nascere e crescere, insieme all’altro colpo di fulmine, Russell Westbrook.

Oklahoma City li ha accolti come se fossero dei figli, elevandoli allo status di beniamini assoluti e diventando i patriarca di quella che oggi è la Thunder Nation, pittoresca euforia che ha coinvolto uno stato intero, fino al 2008 abituato solo alle scorribande dei Sooners, membri della locale università.

Loro hanno ricambiato questo amore conducendo la franchigia alle Finals 2012, coadiuvati dal miglior sesto uomo di quella stagione, cioè James Harden. Finals che perderanno contro i Caldi della Florida, guidati da un certo LeBron Raymone James, ma fu quella la stagione della definitiva consacrazione di una squadra che sarà destinata a far parlare di sé negli anni a venire.

Dopo una scorsa annata segnata dalla partenza di Harden verso il Texas e dall’infortunio occorso proprio a Westbrook, che lo ha tenuto fuori per tutta la durata dei playoff, OKC è tornata a sognare in grande, grazie soprattutto alle prestazioni di quel ragazzo magrolino di cui parlavo prima.

Durant si è ufficialmente iscritto al libro dei più grandi di sempre, riuscendo finalmente a scalzare dal trono il succitato “Re”, come dimostrano le recenti prestazioni, avvenute senza l’ausilio del playmaker con il numero 0, fermato ancora dai problemi al ginocchio.

Dodici partite di fila con almeno trenta punti (compresi i 54 contro i Warriors) che lo hanno portato dritto in testa alla classifica dei marcatori con 31.1 di media ad allacciata di scarpe.

Di queste dodici gare, i Thunder ne hanno vinte ben nove, ma non tanto per la vena realizzativa della loro stella, quanto per la determinazione che hanno messo in campo ogni sera, raccogliendo dieci successi consecutivi che li hanno portati in vetta alla Western Conference, sbaragliando la concorrenza di Spurs e Blazers.

KD è stato “soltanto” il trascinatore, il messiah, colui che apre la strada ai compagni e vi posso assicurare che in queste partite lo ha fatto, eccome. In passato è stato criticato per essere un giocatore prettamente egoista, troppo propenso alla conclusione personale, piuttosto che coinvolgere il suo entourage.

Una tendenza che ha prontamente regolato, arrivando, anche grazie all’assenza di Westbrook, a portare palla e a diventare il naturale regista della squadra. Il risultato di tale virata lo si può notare nelle statistiche alla voce assist. Kevin sta servendo ben 5.3 palloni di media che sono il suo massimo in carriera, così come il 25.3 di AST%.

Questa sua dimensione più altruista e questa sua maggiore fiducia nei compagni lo stanno aiutando a diventare un leader più maturo e responsabile e ad esporsi maggiormente ai rischi del mestiere, come dimostrano le 11 palle perse contro gli Spurs.

Un leader silenzioso, come è sempre stato. Durant fa parlare il campo e le chiacchiere da spogliatoio sono, per lui, appunto, soltanto chiacchiere. C’è chi ancora lo critica per la freddezza con cui esegue le interviste o con cui reagisce alle vittorie, rafforzando ancora di più il paragone con un grande del passato, come George Gervin.

Ma questo suo carattere gelido ha fatto, finora, la sua fortuna, impedendo la trasformazione in un fenomeno mediatico e non facendogli sentire la pressione che spesso sembra piombargli addosso, specialmente quando le cose non vanno o in caso di un eliminazione prematura dai playoff, come accaduto l’anno scorso.

Ma i Thunder non sono solo Durant. Sono l’alchimia di una squadra costruita praticamente in casa, usando l’intelletto di Sam Presti, ex allievo di un genio del management come R.C. Buford, che ha inculcato in lui la cosiddetta Spurs Culture, sapendo che un giorno l’avrebbe diffusa ovunque sarebbe andato, come una sorta di religione.

Religione che Presti sta professando alquanto egregiamente e lo dimostrano le varie scelte dirigenziali operate negli ultimi anni, preferendo puntare sui giovani “allevati” tra le proprie mura, commettendo anche qualche errore di valutazione (trade Perkins-Green, per fare un esempio), questo sì, ma riuscendo sempre a trovare una scappatoia che riuscisse a tappare le falle e le lacune che la squadra mostrava, anche grazie ad un minimo di fattore c, ereditato proprio dal mentore di cui prima.

I frutti del suo lavoro dirigenziale sono visibili tuttora, come coach Scott Brooks, arrivato ad OKC nel 2008 e subito in grado di mostrare tutta la sua intelligenza cestistica, riuscendo a prendere in mano una squadra di giovani promesse e trasformarla in una seria contender.

Una squadra formata da due stelle e da ottimi comprimari che riescono anche a togliere le castagne dal fuoco, quando serve. Basti pensare a Serge Ibaka, terminale difensivo dei Thunder, ma anche capace di partite sopra i 20 punti, come dimostra la gara vinta contro i Celtics, il 24 gennaio.

Il giocatore congolese è, in effetti, migliorato dal punto di vista offensivo, aggiungendo al suo carnet, non solo conclusioni ad alta percentuale (ha il 54.9% in carriera), ma anche un discreto ed affidabile tiro dalla media, segno di un lavoro estivo determinante che ha pure progredito la sua percentuale ai liberi.

Dall’altra parte, però, ha visto diminuire leggermente le sue cifre difensive, specialmente in stoppate e defensive rating, anche se i Thunder rimangono comunque tra le prime dieci franchigie per punti concessi nel pitturato.

Un’altra scelta azzeccata si è sicuramente rivelata Reggie Jackson, diventato un fattore durante l’assenza di Westbrook. Sta viaggiando a 13.3 punti a gara con 4.1 assist e 3.8 rimbalzi. Non sarà di certo un All-Star e nemmeno un portento dal punto di vista fisico, ma è veloce e scattante, ciò che serve nei numerosi contropiedi che OKC si trova ad affrontare in ogni partita.

L’altro elemento del quintetto è Thabo Sefolosha, specialista difensivo a cui coach Brooks si affida per tenere a bada i go-to-guy avversari. Lo svizzero, pur non collezionando grandi cifre, è un diligente ed instancabile lavoratore, rappresentando un esempio per i compagni più giovani.

Chi non sta contribuendo, come dovrebbe, alla causa è, invece, Kendrick Perkins e il suo minutaggio si sta, di conseguenza, abbassando notevolmente. L’ex Celtic sarebbe potuto essere il perfetto complemento, difensivamente parlando, di Ibaka, ma non è mai riuscito ad entrare negli schemi della squadra e nelle grazie dello staff tecnico. Per questo si è parlato più e più volte di una trade che lo coinvolgesse.

Trade che potrebbe rivelarsi necessaria per migliorare una panchina che rappresenta il vero punto debole della squadra. I vari Jeremy Lamb, Steven Adams e Perry Jones sono ancora troppo giovani ed inesperti, nonostante Brooks li faccia giocare con frequenza.

Gli unici veterani presenti sono Derek Fisher e Nick Collison che non potranno bastare, in un contesto di playoff, per riempire le rotazioni e contribuire nella corsa al titolo. Per questo, almeno secondo le ultime indiscrezioni, si starebbe pensando alla cessione di Westbrook.

Un sacrificio che, se commesso, avrebbe parecchi pro e contro. L’interesse di Presti è sicuramente quello di migliorare le condizioni generali della squadra, ma non è detto che ciò si debba fare privandosi di un giocatore che, come ricordato, ha partecipato alla nascita di questa franchigia ed è stato protagonista della sua maturazione.

E’ anche vero che, in queste settimane, i Thunder se la sono cavata benissimo senza di lui, specialmente grazie alla crescita esponenziale di Jackson. Ma, d’altro canto, non si può nemmeno diventare ciechi e sordi di fronte al fatto che con lui in campo, ci sarebbero certamente molte più possibilità di salire sul Monte Olimpo e di sollevare il tanto agognato trofeo e questo, ad OKC, lo sanno bene.

5 thoughts on “OKC e la vita senza Westbrook

  1. scusa ma dove hai letto che si starebbe pensando alla cessione di west ?

    Io ho letto che è più volte stato dichiarato incedibile, anche perchè non si cede un top 8 del gioco, e presti per foruna lo sa bene.

    La panca poi nelle ultime uscite è stata, uno dei punti di forza della squadra, specie lamb

  2. L’ho letto su Bleacher Report, ma è solo una voce di corridoio, a cui nemmeno io credo
    Per il fatto della panchina, Brooks sta dando parecchia fiducia ai giovani che lo stanno ricambiando in maniera egregia, specialmente Lamb, come ricordi tu. Il mio dubbio sorge in ottica playoff, quando il gioco muta il proprio aspetto e dove l’esperienza dei singoli diventa rilevante. Poi possono accadere casi eccezionali come gli Spurs dello scorso anno, in cui giocatori giovani ed inesperti come Danny Green e Kawhi Leonard ti risolvono le partite, ma sono, appunto, casi eccezionali.

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