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“Ogni abitudine rende la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno” (Friedrich Nietzsche)

Chissà se nel 1993 Seth Berger, Jay Coen Gilbert e Tom Austin studenti della University of Pennsylvania’s Wharton School son stati illuminati dalla citazione di Nietzsche… Chi sono questi 3 giovani? I papà delle AND1 shoes.

Fino a quel momento il percorso divulgativo delle calzature da gioco si è basato su un’intensa campagna promozionale, affidata a geni del marketing, associato al viso di una o più icone della “spicchia arancione”. Ad Aliso Viejo, California (primo quartier generale delle AND1) non la pensano così tanto da prendere una decisione completamente discordante: basta showbiz, basta milioni di dollari spesi per commercial, promoter e testimonial.

Si parte dalla streetball e dal trashtalk, ovvero dai campetti dove ogni giorno milioni di anonimi americani si affrontano a suon di highlights che non finiranno mai su Sportscenter e di insulti gratuiti per innervosire l’avversario di turno, coltivando un sogno chiamato NBA. Nessun diffusione mediatica dunque, ma un passaparola (la miglior pubblicità) intenso e veritiero.

La AND1 forte del successo popolare conia i primi slogan ovviamente basati sul trashtalk:

“My game is like rice, one minute and you’re done,”

“They call me the mayor, cause I do all of my work from downtown,”

“When a dunk is worth three points I’ll start doing it,”

Molti NBA players sono attratti da questa confortevole calzatura, in particolare fa breccia nel cuore di quei professionisti con un pedigree e uno stile di gioco formatosi in strada: Desmond Mason, Ben Wallace, Latrell Sprewell, Kevin Garnett, Shawn Marion, Vince Carter persino Kobe Bryant nell’intervallo tra Adidas e Nike ne ha calzate un paio.

Il capostipite di questa “divulgazione professionistica” non può che essere Stephon Marbury fenomeno proveniente dal ghetto di Coney Island, riconosciuto come streetballer per eccellenza, nel 1996 inizia la stagione da rookie per i Minnesota Timberwolves “gommato” proprio AND1 . A seguire si sono aggiunti altri playmaker con l’arte del crossover nel DNA: Rafael Alston e Jason Williams su tutti.

L’apice di popolarità AND1 arriva nel 2000, galeotto è l’ennesima Slam dunk competition, questa volta non uno dei tanti scialbi spettacoli messi in scena nelle ultime edizioni, bensi la più bella gara di schiacciate di sempre, vinta a mani bassissime da uno strepitoso Vince Carter, con ai piedi un paio di Tai chi, il miglior paio di scarpe prodotto da “mamma AND1”.

 

Nonostante la popolarità abbia raggiunto vette inimmaginabili, a Paoli Pennsylvania (nuova sede AND1) non si dimenticano delle umili origini, anzi, grazie ad un intuizione di Marquise Kelly, coach della Benjamin Cardozo High school (ovviamente Queens, New York) viene girato un videotape con tutte le giocate più belle degli streetballer della zona, un plebiscito di consensi accompagna il video e la diffusione diventa virale.

 

Milioni di mixtape arrivano in Pennsylvania dove, ovviamente, non si lasciano sfuggire la nuova occasione, creando pubblicità ad hoc e dando vita ad un team di funamboli da campetto, da portare perennemente in tour per gli USA a dar spettacolo.

Dal 2000 in poi le And1 hanno ceduto il passo, in parte per una potenzialità economica ridotta rispetto ai colossi del settore e in parte alla delicatezza del prodotto proposto, la scarpa infatti dura al massimo una stagione, finendo logora e malconcia dentro all’immondizia. A rendere onore a questa “pantofola da parquet” ci ha pensato quel “cavallo pazzo” di Lance Stephenson, indossandole durante i playoff 2013.

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D. Rose 4.0

Eccoci alla fine di questo lungo ed intenso percorso. Ad accompagnarci “nell’ultimo miglio” è ancora una volta Adidas egregiamente rappresentata dal suo testimonial per eccellenza: Derrick Rose, playmaker dei Chicago Bulls.

Nel 2008 (anno da rookie) il talento di Englewood, malfamato sobborgo di Chicago southside, accetta le milionarie avances di Adidas, pronta a tutto pur di farne il suo frontman. Un talento così i tifosi dello United Center non lo vedono dai tempi di Michael Jordan…

Già, proprio sua maestà: vi ricordate le scelte innovative fatte da Nike per “His Airness?” Bene la casa di Herzogenaurach (ok ho dovuto fare copia e incolla) “ha imparato l’arte e l’ha messa da parte”…

Le D.Rose 4.0 sono le prime sneakers “psicologiche”. Detto così può suonare male, eppure, l’intento di Adidas è proprio quello di esaltare l’aspetto comportamentale della point guard, completamente differente dentro e fuori dal parquet.

Il tallone è costituito da materiali estremi e tecnologie innovative, scelta fatta per esaltare l’esplosivo stile di gioco e la furia agonistica di Rose. La parte frontale è formata da materiali pregiati a corredo di un design pulito teso a sottolineare lo stile di vita rilassato di Derrick fuori dal campo. Il design della silhouette è caratterizzato da un linea di demarcazione verticale (che parte dalla caviglia) creata appositamente per dividere in maniera decisa back e front della calzatura.

La fiducia della multinazionale tedesca è notevole, tanto da mettere il proprio trademark in secondo piano (sul tallone per l’esattezza) per lasciare spazio al marchio creato dal fenomeno dei Bulls. La personalizzazione della scarpa affonda le radici anche nel famoso logo D.Rose: tre petali girano intorno alla lattera ‘D’ e al numero ‘1’ posizionati al centro.

Come per i fiori, ogni petalo è unico e rappresenta la velocità e l’energia creativa, affinata sui playground di Murray Park a Chicago. Il logo rende anche omaggio alla sua famiglia che lo ha guidato dal quartiere d’origine alle arene della NBA: addirittura nella parte posteriore della linguetta è presente un’illustrazione dell’albero genealogico di Rose e i landmark dei quartieri di Chicago in cui è cresciuto. Non si tratta di una scarpa come tante, ma di una carta d’identità…

Per festeggiare il rientro di Rose sui campi da gioco e per presentare la sua nuova scarpa, Adidas ha confezionato una raccolta di commercial dove il “testimonial principe”, racconta le difficoltà,la sofferenza il lavoro duro e la rinascita post infortunio.

 

Purtroppo ( notizia di questi giorni) Derrick Rose si è infortunato seriamente nella partita contro i Blazers riportando la lesione del menisco mediale destro, l’ex Mvp dovrà subire un’operazione e saltare l’ennesima stagione …

Finalmente siamo giunti al traguardo di questa storia lunga quasi cent’anni. Avrei voluto parlarvi di tantissime altre scarpe: le sobrie Pony del “brevilineo” Spud Webb(168 cm capaci volare sul gradino più alto del podio dello slam dunk contest) le insane Kamikaze di Shawn Kemp, le teatrali Air Max Uptempo di Scottie Pippen, le affascinanti Nike Air Penny di Anfernee Hardaway, le mirabolanti Nike Air Zoom Flight di Gary Payton … una lista talmente vasta da stomacare anche l’appassionato più incallito.

Ognuno di noi in cuor suo conserva un ricordo legato a queste sneakers, quante volte da ragazzini vi siete ritrovati davanti ad una vetrina ad ammirare in totale estasi queste scarpe, bramando l’acquisto salvo poi rinsavire grazie o per colpa di una voce famigliare: “costano troppo e al massimo le usi una stagione poi ti cresce il piede…”

mcf1Il tempo passa, molti modelli affascinanti tornano di moda riproposti dalle grandi catene d’abbigliamento e puntualmente si ripropongono anche i miei sogni d’acquisto.

Ora il piede ha smesso di crescere (ahimè anche il portafogli) e il 21/10/2015 si avvicina sempre più, devo solo risparmiare qualche spicciolo e aspettare l’uscita delle mie scarpe preferite all time:

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Nike Air ” Mag” Marty Mc Fly (2015)

 

One thought on “Sneaker Stories: dal 2000 ad oggi

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