pacbenc464Fino a qualche tempo fa la trovavi sempre in legno, con la caratteristica forma allungata. Oggi soprattutto in NBA può essere sostituita da una fila di sedie, in genere di plastica, probabilmente provviste di un soffice rivestimento in ecopelle con sopra stampato il logo della squadra o qualche altra scritta stile “NBA cares”.

Forse proprio per la materia di cui originariamente si componeva – il legno di pino – la panchina nel basket è stata chiamata in gergo anche “pino”. Può essere che grazie ad una tipica figura retorica, la metonimia, le sia stato affibbiato tale simpatico nomignolo, col significato che magicamente si trasferisce dalla parola panchina al materiale di cui è costituita, per finire al solitario “pino”, chè la semplicità è merce assai rara ma sempre apprezzata.

Immagino che a introdurla nell’immaginario collettivo di noi affetti da “The Disease” sia stato il maestro Buffa, oppure il suo compare Flavio Tranquillo, fatto sta che a loro due si deve sicuramente la consuetudine del suo utilizzo [NDR: a loro volta ispirati dal comune maestro, l’indimenticato Aldo Giordani, unico e inimitabile nella sua abilità di creare termini originali e immediatamente riconoscibili per tanti piccoli e grandi aspetti dell’universo baskettaro].

Tornando a ciò che ci interessa più da vicino, la panchina è anche il luogo dal quale si alzano le cosiddette riserve, per entrare in campo a partita in corso. E il ruolo dei sostituti col passare degli anni ha assunto sempre maggiore rilevanza all’interno dell’economia di una partita.

Forse mai come oggi il contributo offerto da una buona batteria di giocatori in grado di dare fiato agli starters ha avuto un tale peso specifico, sia per mantenere lo stesso livello – alto – di gioco che, soprattutto, per fornire l’eventuale cambio di passo e spezzare l’equilibrio regnante (e stagnante) nella sfida fino a quel momento.

Il cosiddetto sesto uomo ricopre ai giorni nostri un’importanza strategica che può essere considerata solo impercettibilmente inferiore, se non del tutto paritaria, a quella delle stelle. Il Barba-Thunder insegna. Mettersi al lavoro quando gli altri sono stanchi oppure gli avversari migliori sono stati riposti nel congelatore ha un certo impatto sull’andamento della gara e sulla possibilità di mettere a tabellone parziali di rilievo, difficili poi da rattoppare.

Dopo cotanto cappello quindi, andiamo a testare la reale, o forse è meglio dire presunta, consistenza delle seconde unità delle franchigie NBA dato che le squadre hanno già tolto il velo alle loro rinnovate carrozzerie, tirate a lucido per la nuova stagione.

Si procede rigorosamente in un crescendo di rossiniana memoria. Si parte dall’undicesima e si arriva alla prima, quella che considero la migliore in assoluto fra le second unit.

11. Indiana Pacers (*)

L’asterisco sta a significare che l’undicesima posizione è variabile. O meglio, sarebbe potuta variare (verso l’alto) se Danny Granger non avesse deciso di cominciare saltando le prime tre settimane di regular season, facendo affiorare i primi dubbi sulla sua reale possibilità di recupero dal brutto infortunio.

Con lui nel roster, la panchina dei Pacers beneficerebbe della gradita presenza di Lance Stephenson che, poichè va dicendo in giro di essere “Nato Pronto”, sarà sicuramente in grado di non farsi trovare impreparato alla chiamata in campo di Vogel e di fornire il suo contributo in termini di.. un po’ di tutto, ma soprattutto attributi.

Il backcourt di scorta è completato dall’esperienza nel ruolo di C.J. Watson – già cambio di D-Will e D-Rose. Con lui i Pacers hanno cercato di colmare, ovviamente in piccolissima parte, due delle lacune più visibili della scorsa stagione: la panchina (forse la peggiore dopo i Blazers) e la regia. Ha doti di ball-handling uniche nel roster e il suo stile di gioco ben si adatta al tipo di attacco dei Pacers orientato al post.

Il vero fiore all’occhiello del pino dei giallo-blu è però Luis Scola. Il lungo argentino porta nell’Indiana il suo laboratorio chimico di gioco dal gomito, con tanto di imbuti, provette e distillatori. Buono per giocare il pick&roll o per occupare il mezzo angolo, verrà utile a coach Vogel per variare un po’ l’attacco o far riposare David West, senza abbassare il livello di pressione esercitato sulla difesa avversaria.

Accanto a lui Ian Mahinmi è chiamato a confermare la solidità di gioco mostrata durante la scorsa stagione (regolare, sia chiaro.. nei playoff si è liquefatto come un ghiacciolo).

Nel reparto ali, Chris Copeland è in grado di aprire l’area col tiro dall’arco, che peraltro non manca di prendere con buona continuità e forse eccessiva confidenza. Il rookie Solomon Hill rappresenta indubbiamente un buon prospetto ma per ora è giocatore quasi del tutto da farsi. Qualche scampolo di partita potrebbero giocarlo l’esperto Rasual Butler e il sophmore Orlando Johnson, dal momento che Granger dovrebbe essere impegnato in una serie di pellegrinaggi a Lourdes per farsi benedire.

10. San Antonio Spurs

Beh, sugli Spurs c’è veramente poco da dire, a meno che tu non ti chiami DeJuan Blair e sia mosso da spirito di rivalsa o tu abbia conosciuto da mezz’ora il sergente Popovich.

Guai a fidarsi del buon Gregg, meno che mai delle sue rotazioni in pre-season, quell’entusiasmante momento dell’anno durante il quale risponde ancor più sibillino alle incalzanti domande di tutti i Craig Sager del mondo. Anzi a tratti proprio non risponde.

Se la graduatoria in questione riguardasse il sesto uomo, San Antonio potrebbe benissimo accomodarsi al primo posto. Chi può dire di avere un Manu Ginobili dalla panchina? Rettifico la domanda: chi ha mai avuto uno come Manu dalla panchina?? Sicuramente in pochi.

Vincente unico, giocatore sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro, non necessita certo di presentazioni. Se una cosa si può dire – non me ne voglia il nativo di Bahìa Blanca – è che imprime il suo graffio indelebile sulle partite con sempre meno frequenza. D’altronde anche per un Dio come lui iniziano a contare le tante primavere (36) che si è messo alle spalle. Ma quando si arriva a maggio, El Narigòn non tradisce quasi mai.

Quest’anno poi sembra gradire la vicinanza del nostro Belinelli. Ha un nuovo compagno di merenda con cui conversare amabilmente in italiano. In Texas sono convinti di aver preso con Marco una specie di reincarnazione del Nasone. Non è proprio così ma il Beli oggi è giocatore NBA vero. Il tiro l’ha sempre avuto, le “palle” uguale – altrimenti non sarebbe lì – ora per di più è fresco reduce da una Laurea in Scienze della Difesa alla corte dell’esimio Professor Tom Thibodeau, con cattedra a Chicago, e lo attende un Master accelerato in Spursologia e Argenteria NBA all’ombra dell’Alamo. Buona fortuna!

Al loro fianco il solito, vecchio, diabolico Boris Diaw continua a rappresentare imperterrito il prototipo del giocatore all-around. Comincia a pesare anche per lui l’età, però è francese e, come il vino, più invecchia più diventa… Boris.

Finite le certezze, non oso addentrarmi in valutazioni che risulterebbero sicuramente pretenziose e contrarie al pensiero di Pop. Mi limito a constatare che nelle partite di ottobre hanno visto il campo con buona continuità l’ex-Pacers Jeff Ayres e il secondo anno Aron Baynes, impiegati sotto le plance con le vecchie conoscenze Cory Joseph, Patty Mills e Nando de Colo ad evoluire sul perimetro.

Ecco.. potrebbero tornare buoni alla prima occasione in cui Popovich decide che l’organizzazione del calendario delle partite è stata troppo severa nei confronti dei texani. Ah già c’è anche Matt Bonner.. conosciuto anche come The Red Rocket o The Red Mamba che dir si voglia.

9. Chicago Bulls

Così come gli Spurs, i Tori non hanno forse una panchina così lunga. Ciò che la rende interessante è infatti la qualità, più che la quantità, degli uomini a disposizione di coach Thibodeau. Nell’ottica di una rotazione a 8 tuttavia, non è affatto male poter contare su tre elementi del calibro di Kirk Hinrich, Mike Dunleavy e Taj Gibson.

Del play da Kansas sappiamo praticamente tutto. E’ uno tosto da schierare in quintetto, figuriamoci a farlo alzare dalla panchina! A questo punto della sua carriera però è più che accettabile il declassamento a regista della seconda unità, in una squadra che punta senza mezzi termini al bersaglio grosso – la conquista dell’anello di campioni NBA.

Senza considerare che “il capitano Kirk” è adesso a tutti gli effetti un veterano NBA con i pregi e i difetti del caso. Non è più atletico nè veloce negli spostamenti. Forse a dirla tutta non lo è mai stato. E’ sempre stato invece il classico giocatore nella media, da un punto di vista fisico e atletico. Ma nel sistema difensivo dei Bulls male non ci sta.

In attacco il suo tiro rappresenta comunque una minaccia sia in situazioni di spot-up che direttamente dal palleggio. Gioca con intelligenza il pick&roll, anche se non è più in grado di penetrare le difese avversarie. La statistica degli assist è incrementata durante la scorsa stagione (da 2.8 a 5.2 a partita), complice forse l’impiego nello starting five. Risulterà utile anche al fianco di Rose.

Dopo aver perso Nate Robinson e Beli, Chicago necessitava di almeno un innesto nel reparto esterni per puntellare l’organico. Così John Paxson e Gar Forman sono andati a pescare Mike Dunleavy, che dalla regione dei Grandi Laghi si è trasferito di circa 80 miglia a sud.

Anch’egli veterano NBA con 11 stagioni alle spalle, conferisce ai Bulls una dimensione esterna che altrimenti i rosso-neri farebbero fatica a trovare (43% da 3 punti con 299 tentativi l’anno scorso ai Bucks).

Last but not least.. Taj Gibson. L’ala forte da Southern California è data in gran spolvero ai nastri di partenza. Averlo dalla panchina è un lusso enorme. Non tutte le squadre infatti possono vantare fra le proprie fila lunghi che corrono il campo come fa lui e liberano spazio per i giocatori perimetrali con la superiore capacità nel portare i blocchi al compagno.

Non dobbiamo fermarci ai suoi numeri in attacco. Potrebbe fare di meglio, questo è certo. E’ nella metà campo difensiva però che Taj da il meglio di sè. Nella particolare statistica che è in grado di descrivere l’impatto di un singolo giocatore (quando è sul parquet) sulla percentuale reale dal campo concessa agli avversari, Gibson è dietro solo a Sanders e Noah e si mette alle spalle gente come Asik, Marc Gasol, Hibbert, Garnett, Duncan, Howard, Ibaka, Bogut e Chandler… in pratica l’elite difensiva dei lunghi NBA.

Accanto a questi tre alfieri si alzano dalla panchina l’espertissimo Nazi Mohammed e il sophmore Marquis Teague, chiamato quest’anno a una comparsata più dignitosa rispetto al recente passato che parla di ben 8 minutoni di media in campo per sera. Per quanto riguarda i due rookie Tony Snell e Erik Murphy, il primo ha certamente un potenziale intrigante fatto di atletismo, stazza ed eccellente tiro da fuori, il secondo pare il figlioccio di Matt Bonner.

8. Dallas Mavericks

Entra in classifica di prepotenza ed anzi meriterebbe anche qualcosina in più se ci si fermasse ai primissimi Mavs che si alzano dalla panchina. Poche altre squadre infatti possono vantare fra le riserve due assoluti protagonisti come Vince Carter e Brandan Wright.

Il primo dopo una carriera sfolgorante da solista si è da qualche tempo calato perfettamente nei panni di uomo-squadra. Alzi la mano chi vedendo le singolar tenzoni che era solito ingaggiare in Canada o nel New Jersey avrebbe mai pensato di ammirarlo in una veste così corale e funzionale al bene supremo del gruppo.

Quando entra, porta in dote un incremento della pericolosità nel tiro dall’arco. Forse più che di pericolosità si dovrebbe parlare di precisione, visto che il titolare del ruolo è Ellis che ha già fatto sapere di continuare a preferire il Monta-ball al tradizionale basketball. Continua così Vince, che forse un posticino per te nella Hall of Fame si può anche trovare!

Wright invece ha cominciato a produrre cifre sostanziose dopo il break per lo scorso All-Star Game e non si è più fermato (11 punti e 5.5 rimbalzi in 24 minuti di utilizzo). Per la verità la sua corsa è stata quantomeno rallentata da un infortunio alla spalla sinistra, occorsogli in pre-season. Ma il suo rientro in carreggiata non è da mettere in dubbio.

Con la preferita mano mancina, con cui in estate ha siglato un contratto da 10 milioni in 2 anni, è pronto a dare l’assalto al canestro. Aggiunge dinamicità, atletismo e una buona dose di blocchi. Le sue skill offensive completano adeguatamente le carenze del titolare del ruolo Dalembert.

Il reparto lunghi è completato da DeJuan Blair che ha finalmente la possibilità di dimostrare il suo valore, se è vero, come ha recentemente affermato, che l’organizzazione Spurs non gli ha dato niente.. Contento lui. Comunque sia, l’arcigno ma sotto-dimensionato ex-sperone è un concentrato di punti e rimbalzi.

Per gli esterni, si registra il ritorno del figliol prodigo Devin Harris, che non ha mancato di mettere in valigia la proverbiale fragilità del proprio fisico. Dato in calo dagli osservatori più attenti, è stato scavalcato da Teague nell’ultimo anno in Georgia. Deve oggi guardarsi dalla concorrenza della coppia di esordienti Larkin e Mekel. No, forse no.. è più probabile che gli soffi il posto Monta quando si stanca di giocare a Monta-ball.

A completare la panchina ci sono anche l’intensità e il buon apporto in termini di intangibles da parte dell’ottimo Jae Crowder e l’imprevedibilità di Devin Ebanks (nel senso che è difficile prevedere cosa sarà in grado di combinare). Nota a margine per l’altro rookie Ricky Ledo: forse quest’anno non farà la squadra, perchè impegnato nella D-League, ma qualcuno ha avuto l’ardire di accostare il suo nome a quello di Penny Hardaway. Sacrilegio?! Forse. Restiamo sintonizzati.

7. Cleveland Cavaliers

A Cleveland quest’anno a forza di scelte dal draft e di scambi – questa volta – oculati hanno messo su una squadra interessante. Il roster è profondo e ricco di talento ed esuberanza, dettata soprattutto dalla giovane età media. Di conseguenza è buona pure la panchina. Anche se non è così automatico riuscire a individuare chi, durante l’anno, sarà in campo alla palla a due iniziale e chi, invece, dovrà aspettare qualche minuto prima di esibirsi di fronte al pubblico della Quicken Loans.

Ipotizzando un quintetto con Irving-Waiters-Gee-Thompson-Bynum, resta fuori una quantità di talento debordante. Purtroppo come testimonia la presenza di Bynum fra gli starters si tratta di un puro esercizio di fantasia, un po’ come parlare di elfi, nani e maghi. Di sicuro c’è che il buon Andrew, qualora ci facesse il piacere di farsi rivedere sul parquet senza troppi grilli per la testa, non partirebbe certamente dalla panchina. Non lo accetterebbe. Non si addice ad uno del suo lignaggio – e con le improbabili acconciature che porta in giro – una così ridotta visibilità.

Il suo cambio, nell’eventualità di un suo impiego reale, sarebbe Anderson Varejao. Provate a fare meglio se ci riuscite! Il brasiliano di Santa Teresa è infatti un lungo di comprovate qualità e quantità. Fa dell’attività sul parquet la sua cifra cestistica. Porta in campo energia sotto forma di rimbalzi e corsa. Da buon verde-oro mostra anche una certa velocità di piedi e denuncia all’ufficio immigrazione mani educate. Unica contro-indicazione: non si può dire che sia una polizza assicurativa contro gli infortuni (sono 3 anni che alla data dell’All-Star Weekend lui è già sulla spiaggia di Copacabana a sorseggiare birra ghiacciata, 81 partite giocate in totale) – e dovendo coprire le spalle a Andrew Bynum c’è da stare tranquilli…

I Cavs però possono sorridere perchè, se la sorte non volterà loro completamente le spalle costringendoli a una sessantina di partite di Tyler Zeller da titolare, hanno una panchina lunga e variegata. D’altronde quando la tua prima scelta – la numero 1 assoluta – nella fattispecie Anthony Bennett, non compare fra i primi 5 enunciati dallo speaker puoi essere ottimista.

Il canadese è una gemma ancora abbastanza grezza, nel senso che il suo potenziale è talmente elevato che ancora possiamo scorgerlo solo in lontananza. E’ un’ala dotata di grande atletismo e spiccata esplosività nel salto. Costituisce una presenza in tutte le zone del campo. Ha spalle larghe, braccia lunghe e mani grosse, che fanno di lui un ottimo rimbalzista. Contribuirà alla causa dei cavalieri con dosi massicce di intensità e movimento, nell’attesa di affinare le proprie armi offensive, anche se – va detto – in attacco è migliorato tantissimo negli ultimi tempi.

Dal draft è arrivato anche il tiratore micidiale Sergey Karasev, 20 anni appena compiuti. Se le prime avvisaglie lanciate in pre-season saranno confermate, il 6’7″ da San Pietroburgo può dire la sua all’interno della rotazione di Mike Brown. Carrick Felix invece, l’ultimo rookie scelto alla n.33, non dovrebbe essere ancora pronto per il piano superiore anche se pare uno di quei giocatori che tornano utili in molteplici modi.

Chi non ha niente da dimostrare nel ruolo di backup degli esterni che andrà a ricoprire è sicuramente Jarrett Jack. A Golden State, nonostante i proclami trionfali con cui si affacciano su questa stagione, lo rimpiangeranno a lungo. Difficile trovarne un altro in quella posizione così affidabile e produttivo.

Così come ai Warriors affiancava Curry, qui può benissimo battagliare al fianco di Irving, permettendo all’astro nascente dei Cavs di giocarsi alcuni minuti di qualità nello spot di guardia, alleggerito da obblighi di playmaking. Come se non bastasse, a dare il cambio alle guardie – e all’occorrenza anche al 3, ci penserà anche il positivo C.J. Miles, capace l’anno scorso di chiudere con 11.2 punti di media in 21 minuti di utilizzo.

Per finire, in estate Cleveland si è regalata anche le prestazioni di Earl Clark, l’unica nota positiva della passata stagione dei Lakers. E’ riuscito ad emergere nel contesto caotico e travagliato di L.A. nel secondo capitolo di quella grottesca trilogia chiamata “The Dwightmare Saga”. Potrebbe non dover faticare così tanto perchè le multiformi qualità che ha lasciato intravedere al pubblico lacustre si specchino anche nelle acque del Lago Erie.

One thought on “Dimmi chi ti esce dal pino e ti dirò chi sei… (Part.1)

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