jkuid3453La storia di Jason Kidd è una lezione di pazienza, la prova che le cose buone arrivano veramente a chi sa aspettare.

Jason ha incarnato le qualità di un Hall of Famer per tutta la durata della sua carriera. Estremamente competitivo, si è dedicato perfettamente ad ogni aspetto del suo gioco e, prima di tutto, a quello dei compagni.

Meticolosamente professionale in tutto quello che ha fatto in campo. Ogni squadra per cui ha giocato è sempre arrivata al successo o lo ha comunque sfiorato, ed è clamorosamente decaduta una volta che Kidd ha deciso di migrare altrove.

Ma per ben 16 anni, passati a sudare e a guadagnarsi il rispetto sui campi da basket, J-Kidd è rimasto senza l’agognato premio finale: il titolo NBA. I tentativi non gli sono mancati, questo è poco, ma sicuro. Jason ha portato il suo team per 14 volte ai playoff nelle suddette 16 stagioni. Ha portato per ben due volte consecutive i Nets alle Finals, ma al massimo è arrivato a due gare da vincere l’anello.

Nella sua vita, J-Kidd ha imparato tante cose da suo padre, Steve Kidd, che lo ha sempre spronato a non mollare e a rimanere fedele alla strada che stava seguendo, perché prima o poi ce l’avrebbe fatta.

“With my dad, (winning a championship) was the number 1 thing. Talking with him when I was younger, or seeing him on the road while playing in the NBA, I always told him we were going to win a championship here soon. I think he agreed. I also think he was willing to be honest about the fact that there are some better teams out there than you. But to take this long, I think he would probably tell me, ‘The thing I’ve always told you was you have to be patient. It doesn’t always happen when you think it will. He always told me it doesn’t happen when you want it to happen, but it will.”

Nel 2011 è finalmente accaduto ciò in cui lui credeva e sperava. Numero 2 sulla schiena e i Mavericks mettono in pratica una delle più belle cavalcate playoff nella storia della lega.

Dallas fatica a liberarsi dei Blazers, poi spazza via i campioni in carica dei Lakers, proiettandosi, infine, in un duello che staglia ben al di sotto delle aspettative contro i Thunder di Durant e soci. Le Finals contro gli Heat dei Big Three sono qualcosa di irripetibile. Tutto il duro lavoro degli anni precedenti ripaga Jason la sera del 12 giugno, quando può finalmente sollevare il Larry O’Brien Trophy, l’ultimo pezzo di una scintillante carriera.

Certo, ora che è finita, questi 19 anni di cammino sono un esempio di pazienza e duro lavoro, di leadership e dignità, valori che a Jason non sono mai mancati. Ma al di là dei suoi attributi, al di là di tutte le cose intangibili che ha mostrato durante i migliaia di giorni in cui ha fatto parte di questo scellerato mondo, stiamo parlando di un atleta dal talento sopraffino, un giocatore apparentemente normale, dotato di una visione di gioco davvero extrasensoriale.

Fin dalla giovinezza ad oggi, Jason ha lasciato allenatori, compagni di squadra e semplici appassionati, completamente impressionati, compiendo mirabolanti prodezze degne del suo idolo d’infanzia, un certo Magic Johnson per cui iniziò ad indossare il numero 32.

Gioventù

Nato a San Francisco, California, il 23 marzo del 1973, da Steve e Anne, Jason Frederick Kidd ha giocato a calcio – non a basket – fino alla seconda elementare. Solo poco dopo ha iniziato a giocare a pallacanestro, ipnotizzando di già gli avversari con le sue giocate.

Il suo coach alla scuola superiore, Frank LaPorte, lo vide esibirsi proprio durante un torneo giovanile, immagazzinando l’idea, dentro di sé, di aver di fronte uno dei giocatori più forti che abbia mai visto. D’altronde, uno degli ammiratori di Jason era niente di meno che Gary Payton. Più grande di cinque anni rispetto a lui, Payton proveniva dallo stesso quartiere di Oakland e ha sempre tenuto il giovane Kidd sotto la sua ala protettrice.

Jason grew up just playing on the basketball courts, but he didn’t know nothing about going to playgrounds, where a lot of guys are going to talk to trash him, challenge his manhood and things like that. We started going to places where people are really rough and play physical basketball and talk a lot of smack. He didn’t ever know nothing about that. He was always in a gym where the guys didn’t come from streets or anything like that. As soon as he started playing that way and starting changing his game, he started getting a lot of heart and a lot of courage.”

Queste sono le parole usate da The Glove per spiegare quale fosse il loro rapporto. Un mentore, proprio come lo è stato Magic Johnson, altro idolo, ma più che altro televisivo. Emulando questi due grandissimi giocatori, la leggenda del Giasone inizia a crescere.

Raggiungendo la St. Joseph High School di Alameda solo nel suo anno da Junior, Jason la guida a due titoli statali, diventando una vera e propria stella nazionale. Vince il Naismith Award per il miglior giocatore liceale del Paese, collezionando medie di 25 punti, 10 assist, 7 rimbalzi e 7 rubate. Ogni college prestigioso d’America vuole Jason, che a 18 anni era alto 193 cm per 90 chili.

JASON KIDD CALDopo una’acuta riflessione, l’indecisione rimane su due campus: quello di Kansas e dell’Università della California, Berkeley, quindi vicino casa. E’ proprio questo uno dei motivi per cui sceglie di indossare la maglia dei Golden Bears.

I tifosi di Cal non possono che essere più felici di così. La stagione passata l’avevano chiusa con un eloquente 10-18 che li ha condotti al nono posto nella Pac-10. Alla fine del suo primo anno, Kidd aveva collaborato a raddoppiare il numero di vittorie rispetto all’anno precedente, vincendo anche il premio di Freshman of the Year.

La squadra approda al torneo NCAA per la seconda volta negli ultimi 30 anni, raggiungendo le sweet sixteen grazie a due canestri vincenti proprio di Kidd – il primo contro LSU nel round di apertura e il secondo contro i due volte campioni di Duke – ma la corsa si ferma lì.

Un anno dopo, nel suo secondo e ultimo anno al college, Jason guida Cal di nuovo al torneo NCAA – al tempo, il primo back-to-back dalle stagioni 1958-59. In quell’anno, Jason diventa il primo sophomore nella storia della Pac-10 ad essere nominato Player of the Year, spezzando il record di Kevin Johnson per numero di assist e palle rubate – accumulati in quattro anni passati a California – in sole due stagioni.

Benvenuto in NBA

Jason viene scelto dai Dallas Mavericks con la seconda chiamata assoluta al draft del 1994, scelto dopo Glenn Robinson, proveniente da Purdue, e prima dell’ex Duke, Grant Hill.

hillkidd95-1Il suo impatto fu immediato. Dallas aveva chiuso la stagione precedente al suo arrivo con un imbarazzante 13-69; un anno dopo, i Mavs chiudono 36-46. La lega, i tifosi e i media prendono nota. Alla fine della stagione Jason viene proclamato rookie dell’anno insieme proprio a Hill. Ora, vincendo il premio più prestigioso che un giocatore dei Mavericks abbia mai conseguito, Kidd è in procinto di diventare la stella assoluta della squadra.

Ma Jason rimarrà solo un’altra stagione e mezzo in Texas, formando il cosiddetto “Trio delle J” insieme a Jamal Mashburn e Jim Jackson, strabiliando i fans della squadra con i suoi mirabolanti passaggi e la sua instancabile attitudine al lavoro, motivo per cui era stato scelto e motivo per cui viene convocato all’All-Star Game, alla sua seconda stagione nella lega, partendo nel quintetto dell’Ovest.

Il 26 dicembre del 1996, però, con una mossa spiazzante, viene spedito a Phoenix. Con lui partono anche Tony Dumas e Loren Meyer, mentre giungono a Dallas: Sam Cassell, Michael Finley e A.C. Green.

I Mavs chiuderanno quella stagione 24-58. Phoenix risponderà con un 40-42 che le permette di raggiungere i playoff. Just say.

I giorni a Phoenix

Un anno dopo essere approdato ai Suns, Jason stava facendo ciò che aveva fatto per qualsiasi altra squadra avesse giocato prima – riportarla in auge.

Phoenix chiude la stagione 1997-98 con un record di 56-26, il migliore negli ultimi tre anni. Ma è solo l’inizio. Difatti, Jason guiderà i Suns ai playoff in ognuna delle cinque stagioni in cui rimane in Arizona, raggiungendo anche le Conference Finals del 2000, poi perse 4-1 contro i futuri campioni dei Lakers.

Quella stagione – nella quale Jason ha guidato l’NBA per assist – è stata, fino ad allora, la sua migliore in carriera, viziata anche dalla sciagurata perdita del padre, stroncato da un attacco di cuore all’età di 61 anni.

“My dad’s death made me value things more, knowing God can take things away from you, just like that.”

Allo stesso tempo, Jason continua ad accumulare riconoscimenti individuali, venendo selezionato per l’All-Star Team per la seconda e terza volta in carriera (1998, 2000) e venendo nominato per il miglior quintetto difensivo ogni anno. Inoltre, durante la sua permanenza a Phoenix, è sempre presente nella Top 10 NBA di ladri di palloni.

Durante l’estate del 2000, Jason partecipa alle Olimpiadi di Sydney con Team USA, aiutando l’America a vincere la sua ultima medaglia d’oro nel basket, prima di quella conquistata a Pechino nel 2008. Uno dei tre capitani della squadra, Jason chiude la rassegna con 6 punti e 5 rimbalzi di media, tirando con il 51.6% dal campo e il 50% da oltre l’arco, e guidando i suoi per assist (4.4) e rubate (1.1).

Una casa in New Jersey

jason-kiddNonostante tutto il suo successo sia in NBA che come olimpionico, per la seconda volta nella sua carriera, Jason viene scambiato. Durante l’estate del 2001, viene spedito ai New Jersey Nets in cambio di Stephon Marbury. Nel piccolo stato del Nord Est è subito tanta l’esaltazione, soprattutto del presidente Rod Thorn che definisce il nostro protagonista come il giocatore ideale per migliorare le sorti della squadra.

Jason, a riguardo, fa subito una previsione, dicendo che avrebbe portato i Nets ad almeno quaranta vittorie stagionali, a discapito delle 26 dell’annata precedente.

La sua premonizione si rivela addirittura alquanto riduttiva, perché NJ arriva a vincere la bellezza di 52 partite, trionfando nell’Atlantic Division per la prima volta nella sua storia.

Insieme a Richard Jefferson e Kenyon Martin dà vita al mirabolante Flying Circus che il suo idolo Gary Payton aveva già adottato ai tempi di Seattle. Un gioco veloce e frizzante, diretto dal miglior orchestrante in circolazione. Kidd conclude la stagione di debutto con la nuova maglia come indiscusso leader della lega per numero di palle rubate, quarto nella media assist e secondo nella corsa al titolo di MVP, dietro a Tim Duncan.

Il cammino dei Nets nei playoff è davvero straordinario. Liberandosi, nell’ordine, di Pacers, Hornets e Celtics, la squadra guidata da Byron Scott accede alle prime Finals nella storia della franchigia. Purtroppo per loro, però, di fronte ci sono i fantastici Lakers bi-campioni dell’accoppiata Bryant-O’Neal. Sarà una disfatta, ma la stella di Jason è entrata definitivamente nel firmamento NBA, se non lo era già prima.

La conferma la si ha un anno dopo, quando i Nets tornano all’atto conclusivo, questa volta contro gli Spurs. Jason e compagni appaiono più determinati rispetto allo sweep del giugno prima, ma cadono contro le Twin Towers di San Antonio, per 4-2.

Kidd guiderà i Nets alla post-season in ogni stagione ventura, raggiungendo anche tre volte le semifinali di conference. Inoltre, verrà inserito nel primo o nel secondo quintetto difensivo per sei volte di fila.

Il cerchio si chiude

Nel febbraio del 2008, Jason e Malik Allen vengono scambiati con i Dallas Mavericks per Devin Harris, Trenton Hassell, Keith Van Horn, DeSagana Diop e Maurice Ager. Diversamente dalle partenze dalle due precedenti franchigie – una furono proprio i Mavs – Jason lascia il New Jersey in termini amichevoli, con entrambe le parti consapevoli che era ora di cambiare.

Il suo ritorno a Dallas crea un’altra opportunità per Jason di vincere il titolo, mentre la sua carriera procede verso un inesorabile fine. Così, Kidd aggiunge la sua esperienza ad un team già collaudato, in cui è presente il perenne All-Star Dirk Nowitzki.

Fino ad allora, i Mavericks, erano stati una squadra incapace a concludere ciò che avevano compiuto durante la regular season. Una dimostrazione palese e scottante furono le Finals del 2006, in cui si mangiarono un vantaggio di due partite contro i Miami Heat. Oppure nel 2007, quando chiusero con 67 vittorie, per poi essere eliminati clamorosamente dai Warriors al primo round. Un cammino tortuoso, quindi, che può finire nel giro di breve tempo.

Nel 2008 vengono sconfitti immediatamente dagli Hornets per 4-1. L’anno dopo si assicurano il passaggio del turno contro gli acerrimi rivali dei San Antonio Spurs. Ma nel secondo round si piegano di fronte ai Denver Nuggets. Dallas cerca di rimanere comunque sulla strada giusta e di non abbattersi, così come il proprietario Mark Cuban prova a migliorare il suo giocattolino di anno in anno.

Nel frattempo, Jason aggiunge qualcosa di nuovo al suo gioco. Durante gli ultimi tempi in New Jersey, Kidd aveva iniziato ad allenarsi con uno shooting coach per provare ad ottenere un tiro da tre efficace ed incrementare il suo repertorio. I primi effetti di questo speciale allenamento si iniziano a notare proprio in quel di Dallas.

Nella sua prima mezza stagione in Texas (29 partite), J-Kidd tira con il 46% da oltre l’arco. L’anno seguente segna il 40% delle sue triple, raggiungendo il suo career high solo nella stagione 2009-10, con il 42.5%. Nel 2011, Jason supera Dale Ellis e Peja Stojakovic – tra l’altro suo compagno di squadra – nella lista dei migliori tiratori da tre ogni epoca, piazzandosi al terzo posto dietro ai mostri sacri Ray Allen e Reggie Miller.

Nel 2011, i Mavs collezionano ancora una stagione da 50 vittorie, raggiungendo il terzo posto ad Ovest. Alcuni addetti ai lavori predicono un’altra uscita al primo turno, ma Jason, dall’inizio dell’anno, sente l’aura attorno alla squadra è differente.

Al primo round si presentano di fronte i Portland Trail Blazers. Dallas va subito avanti 2-0 nella serie, per poi arrendersi nelle due partite giocate in Oregon, con Kidd e compagni che sprecano un vantaggio di ben 24 punti in gara-4. Ma Jason non si scompone e cerca di mantenere la squadra unita. Risultato? Successo nelle altre due partite e passaggio del turno garantito.

La prossima sfida sono i Lakers campioni in carica. Ma nemmeno qui i Mavs si scoraggiano, nonostante l’avversario abbia i favori del pronostico. Jason rispolvera la sua indole difensiva e si occupa di Kobe Bryant come un mastino sta alle calcagna di un ricercato speciale.

La sua cura ripaga e Dallas spazza via i giallo-viola in quattro partite, sancendo anche l’addio definitivo di Phil Jackson. I Mavs accedono, così, alle Conference Finals per la prima volta proprio da quel famoso 2006.

dal_g_dmavts_600Di fronte si trovano gli Oklahoma City Thunder, squadra rivelazione dell’anno, ma assai inesperta. Difatti, dopo essersi spartiti le prime due gare, i Mavs vincono le altre tre necessarie per conquistare il titolo di conference e per approdare alle Finals. Jason ha aumentato il proprio ritmo proprio quando necessitava farlo, soprattutto in gara-3 e 4, quando ha anche realizzato la tripla decisiva nel tempo supplementare.

Ed ecco che, riconducendoci a quel 2006, il destino gioca loro un bello scherzo. Sono i Miami Heat dei nuovi Big Three a presentarsi in quella che si appresta ad essere una vera e propria rivincita.

L’inizio, però, non è dei migliori per gli uomini di Rick Carlisle che perdono gara-1 e rischiano di fare lo stesso nella seconda partita, quando guidano di 15 punti nell’ultimo quarto. Ma come già hanno fatto vedere durante questi playoff, i Mavs rinascono e rimontano una gara che sembrava ormai persa, segnando tutto il resto della serie. Dallas vince due delle successive tre e si appresta a giocare gara-6 in Florida con la possibilità di portare a casa il titolo. Così succede e Jason può finalmente alzare il tanto agognato trofeo per la prima volta in carriera, liberando una gioia infinita.

“This is what I put the uniform on for is to try to win a championship. You start in October and the journey will take you up-and-down and sometimes it’ll make yourself question what I am still doing playing? Cause I don’t think it’s going to happen, but that’s the time you have to dig deeper and work harder and that’s what I did this season.”

Dopo la folle corsa al titolo, Jason fa sapere di non avere nessuna intenzione di appendere le scarpe al chiodo e di volersi giocare un’altra chance per arrivare fino in fondo. Ormai ci ha preso gusto il Giasone, ma le altre squadre non sono dello stesso avviso, compresi i Thunder che fermano la corsa dei campioni già al primo round.

Un morso di Big Apple

Dopo la stagione 2011-12, J-Kidd deve decidere se rimanere a Dallas, e quindi chiudervi la carriera, o decidere di tentare un ultimo assalto al titolo, altrove. I Mavs provano a fargli un’offerta, ma Jason intuisce che qualcosa nella squadra non va più. La sua decisione, perciò, di accasarsi ai Knicks, viene presa con stupore dal mondo degli appassionati di basket, ma Jason non aveva nessuna intenzione di farsi scivolare addosso l’opportunità di aiutare la squadra di New York a lottare per l’anello.

Nel suo unico anno ai Knicks, Jason collabora a far raggiungere alla franchigia una nuova dimensione, influenzando i compagni con la sua leadesrhip. Con J-Kidd che fa la spola dalla panchina al quintetto titolare, New York raggiunge le 50 vittorie per la prima volta dal 1999-00 e vince il primo titolo divisionale dalla stagione 1993-94.

Ma ci sarà sempre un momento memorabile per Jason in questa stagione. In una stretta contesa con i Brooklyn Nets, Jason, che aveva saltato il primo incontro tra le due squadre – vinto dai Nets – per colpa di un infortunio, sigla una tripla a 24 secondi dalla fine, portando i suoi avanti 100-97 e guidandoli verso un successo importantissimo ai fini della classifica.

Nella post-season, i Knicks vinceranno la prima serie dal 2000, battendo i Boston Celtics in sei partite. Ma nel turno successivo, gli Indiana Pacers si presentano come un ostacolo insormontabile e New York riesce a vincere solo due partite. Jason si prende qualche settimana, dopo l’eliminazione, per riflettere sul suo futuro. Ha ancora un anno di contratto, ma a 40 anni, dopo 19 anni passati tra i professionisti e ben 1549 partite giocate, è arrivato il momento di dire basta.

“My time in professional basketball has been an incredible journey, but one that must come to an end after 19 years. As I reflect on my time with the four teams I represented in the NBA, I look back fondly at every season and thank each and every one of my teammates and coaches that joined me on the court.”

Così finisce una straordinaria carriera. Sesto all-time per partite giocate in regular season (1391), secondo in assist (12091) e palle rubate (2684), terzo per triple segnate (1988). Tra tutti i riconoscimenti che ha ricevuto, Jason è stato 10 volte All-Star, cinque volte primo quintetto NBA e quattro volte è stato inserito in quello difensivo.

Una nuova sfida

Anche se i suoi giorni da giocatore sono già alle spalle, Jason non ha perso quel lieto prurito che prende il nome di pallacanestro e dopo aver annunciato il ritiro, il suo agente Jeff Schwartz gli ha chiesto cosa sarebbe successo dopo.

I due hanno discusso sulle possibilità che si sarebbero potute presentare di fronte. Dirigente? Assistente allenatore? Oppure Kidd avrebbe potuto godersi la “pensione” occupandosi della sua fondazione e intanto insegnare il virtuoso giuoco del basket ai più piccoli. Ma quando l’opportunità di allenare una squadra NBA gli è capitata tra le mani, non ha potuto dire di no. Anche perché la squadra in questione sono i Brooklyn Nets.

Perciò, solo nove giorni dopo il suo ufficiale ritiro, Jason decide di sedersi in panchina e con il ruolo più importante di tutti. Lui sa che saltare improvvisamente in una nuova realtà come questa è rischioso, soprattutto per la mancanza di esperienza e per le pressioni che una città come New York esercita sui propri coach.

“I’m a rookie, I go from being one of the oldest guys in the league to being a rookie coach. I’m very excited about this challenge.”

Dopo essere tornati ai playoff per la prima volta dai tempi in cui Kidd giocava ancora per loro, i Nets hanno visto innalzarsi le loro aspettative grazie ad una trade che ha portato a Brooklyn nientepopodimeno che Paul Pierce, Jason Terry e Kevin Garnett, tre veterani che uniti a Joe Johnson, Deron Williams e Brook Lopez potranno formare un team in grado di affrontare qualsiasi altra squadra.

Non sarà, quindi, per niente facile per Jason guidare questi giocatori verso l’obiettivo comune, il titolo NBA. Ma lui crede che aver preso in mano questa squadra in un momento cruciale come questo non sia solo merito del destino, ma anche e soprattutto per i suoi innumerevole stima che si è guadagnato da giocatore. La reputazione di un uomo a cui piacciono le sfide impossibili e questa ha il sapore di esserlo.

 

 

3 thoughts on “Focus: La leggenda del Giasone

  1. Un buon articolo che ripercorre le gesta di questo grandissimo del basket. Per me uno dei più grandi di tutti i tempi. Lo so che nella NBA contano molto i titoli e JK ne può vantare solo uno, ma leggete la sua carriera: ovunque è andato ha rivoltato la squadra facendola diventare più forte, più competitiva e più vincente. 3 finali NBA: una contro i Lakers di Kobe&O’Neil= in pratica uno dei più forti attaccanti dei tutti i tempi e il centro più dominante dopo Wilt…..impossibile vincere; poi gli Spurs forse la migliore organizzazione di tutto lo sport americano….insomma due montagne troppo alte da scalare, tenendo conto che Jason era quasi da solo in quella squadra: Richardson e Martin= sì, buoni a fare scena, ma giocatori nella media, senza Jason poi hanno fatto virgola o quasi….A Dallas le cose cambiano quantomeno ha dei compagni che sono forti: Dirk, il miglior europeo a calcare la NBA e Terry, un centro con le palle quadrate come Tyson Chendler, JJ Barea che ha più fegato di tanti falsi duri che circolano nella Lega, vari specialisti e tanta voglia di vincere. Una delle più belle cavalcate playoff di sempre e uno dei titoli NBA più meritati.
    Grande Jason Kidd è stato un vero piacere vederlo giocare!

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