gervkd2Due pistoleri di stanza nel Midwest, diversi per epoca ma imparentati da un talento realizzativo e da uno stile elegantissimi, quasi eterei, certamente inarrivabili nei rispettivi periodi. Accomunati anche dai continui guanti di sfida lanciati alle altre potenze della Lega, tutte apparentemente molto più mediatiche e “under the spotlights” di loro.

Questi sono George Gervin e Kevin Durant, professione migliori realizzatori NBA nel loro prime.

Molti, con i dovuti distinguo (Durant è ovviamente figlio della maggior verticalità del gioco odierno ed è molto più alto, almeno 2.06×105 contro 2.01×84), hanno paragonato il loro modus operandi sui 28 metri, anzi sui 14, quelli dove la si butta dentro, essendo entrambi fisici longilinei, a detta dei più sottopeso (Durant arrivò ultimo alle valutazioni atletiche pre-Draft perché non sollevava nemmeno un pacchetto vuoto di fazzoletti…), ed attaccanti dal repertorio variegato ai limiti del pensabile.

E proprio per le suddette caratteristiche fisico-tecniche (e per i costanti dejà-vu che generano nei fan NBA di lungo corso) KD35 viene spesso identificato come il vecchio che torna d’attualità, unico e ultimo connubio fra scuole di pensiero ritenute ormai cremate con tutti gli incensi ed il progresso atletico del gioco.

Al contrario, Gervin non era una mosca bianca di tale portata, se non, come detto, negli apparenti limiti muscolari; infatti l’esterno realizzatore puro NBA è un fenomeno anni ’80 come pochi: sostanzialmente solo il neo-liberismo, la Mano de Dios, Blade Runner, Rambo, Thriller e The Joshua Tree potrebbero competere in un’ideale hit parade.

Da questa decade passò alla storia del gioco una pletora di cannonieri: da Alex English (primo per punti totali nel periodo 79-89) ad Adrian Dantley (due volte miglior marcatore in maglia Jazz), da Dominique Wilkins (il miglior Hawk di sempre dopo il trasferimento in Georgia) al profeta in patria Bernard King (re nell’85 e padrone in casa Knicks prima dell’avvento di Ewing e degli infortuni), passando per Mark Aguirre, primo vero uomo-franchigia a Dallas, per il panamense Rolando Blackman, per Kiki Vandeweghe, il meno right way mai allenato da Larry Brown, e per il compianto Mike Mitchell, prima del soggiorno in Italia il secondo miglior realizzatore dei San Antonio Spurs.

Ma fu proprio il miglior marcatore di quegli Spurs il vero primus inter pares dell’ondata degli slashers d’eccezione, ovvero, appunto, il figlio della Motown George Gervin, “the Iceman”.

Così soprannominato per l’algido distacco con cui percorreva il campo, e unico del gruppone ad aver vinto più di due allori realizzativi (quattro per la precisione, 78, 79, 80 e 82), nonché a 26.2 a partita quello con la media in carriera più alta, Gervin (Hall-of-Famer dal 1996, uno dei 50 Grandi di Cleveland l’anno successivo, e ABA-All-Timer) è sopravvissuto nelle memorie soprattutto per exploit individuali, uno su tutti la leggendaria sfida all’ultimo punto con David Thompson nel 1978, quando vinse il suo primo titolo realizzativo per sette centesimi di punto su Skywalker, grazie ai 63 segnati nell’ultima partita (33 nel solo secondo quarto, 53 nel primo tempo) dopo i 73 scritti dal rivale qualche ora prima.

Gli è invece sempre mancata la competitività per il titolo, indispensabile per essere annoverati nell’Olimpo più rarefatto (ma in quel periodo contro i Lakers nella Western c’era poco da mercanteggiare), sia per l’oggettiva superiorità degli avversari sia per limiti interni in buona parte determinati, come vedremo, dal proprio leader, e perciò la massima vicinanza all’anello per quegli Spurs fu gara-6 delle Conference Finals dell’83,.

Al contrario, Durantula difficilmente si lascerà scappare l’anello; infatti l’impressione è che i tre titoli di miglior marcatore e i quattro All-NBA First Teams gli vadano sempre più stretti, se non sostenuti da risultati collettivi importanti conseguiti con i suoi Thunder, e non solo con Team USA, di cui è, manco a dirlo, nettamente il miglior marcatore degli ultimi tre anni.

Ma passiamo ad esaminare in cosa i due fuoriclasse si somigliano e dove differiscono maggiormente sul parquet, imbastendo una sorta di confronto tecnico:

a) Tiro da fuori

Complessivamente non c’è partita: Kevin ha una mano indescrivibile praticamente da ogni punto del campo, e l’appartenenza al club 50-40-90 (che sembra qualche classifica dedicata a Marilyn) lo dimostra.

Va però fatto un distinguo: Iceman era parte di una generazione ancora abituata a segnare 2 punti a canestro da qualunque posizione, ed era conseguentemente abituato a segnare in avvicinamento, ignorando di fatto la possibilità di aggiungere il tiro da 3 al già ben provvisto arsenale (infatti solo in una stagione tentò più di 100 triple); detto questo, il confronto sarebbe impari comunque.

Se invece si passa ad analizzare esclusivamente il mid-range game, si ravvisa probabilmente il maggior numero di somiglianze: mentre altri tendevano ad avere un leggero sbilanciamento in avanti nell’esecuzione del jumper in arresto, Gervin (già più alto di ogni altra guardia) riusciva il più delle volte a riguadagnare compostezza e a rilasciare il tiro al massimo della spinta verticale in un’esecuzione di rara bellezza, e l’enorme forza digitale di cui era provvisto (fatto che ritornerà più avanti) gli consentiva di imprimere effetti tali da poter utilizzare il tabellone a proprio completo piacimento.

Lo stesso può essere detto per il nativo di D.C.; dotato di molti più centimetri di praticamente ogni altro esterno, e di una velocità di rilascio da addestratore circense, KD35 è instoppabile quando in equilibrio completo, e anche quando deve ricorrere allo step-back non se la cava affatto male. È insomma una sorta di Federer-Sampras di categoria, con il più giovane in vantaggio (in entrambi gli sport).

b) Post basso

Fate pure un’altra vittoria per distacco, come nel 3-point range.

Solo che stavolta è l’old schooler a portarla a casa: infatti quando si parla di gioco vicino a canestro per Gervin bisogna tirare fuori l’arma impropria con cui il nativo di Detroit buggerò per una decade qualunque lungo gli si parasse d’innanzi nel pitturato, e cioè il finger roll.

Il movimento, che consiste nell’imprimere rotazione al pallone con la punta delle dita, permise ad Iceman di aggirare qualunque tentativo di stoppata, un po’ per la grande velocità di esecuzione, un po’ perché lo spin in avanti permette di aumentare la parabola rendendo vana l’impresa anche per i mostri sacri del “not in my house”, da Jabbar a Eaton a Parish al suo compagno Artis Gilmore.

Era tale la sicurezza nel finger roll da spingerlo ad affermare che avrebbe potuto regolarmente infilarlo dalla lunetta. Inoltre il gesto “chamberlainiano” non arrivava da solo, ma bensì supportato da uno spin move scaligero, eseguito e in penetrazione e appena ricevuta la sfera spalle a canestro, e l’insieme dei fattori giustifica un 51% dal campo in carriera irreale per un tweener.

Durant, au contraire, non ha ancora sviluppato un affidabile gioco in pivot basso; la maggior parte dei suoi post-up avvengono raramente schiena a canestro, ma piuttosto di fronte all’altezza del libero o al gomito, e si concludono o con un arresto e tiro o con una penetrazione.

Ma d’altronde verrebbe da dire, se oggi il gioco sul perno non viene insegnato ai lunghi puri, perché dovrebbe padroneggiarlo uno che è stato cresciuto come guardia, e che fra l’altro è incontenibile in pressoché qualunque altro fondamentale?

c) Atletismo, forza e velocità

Se paragoniamo un attacco a canestro dei nostri due gladiatori, vedremo che quasi sempre Gervin chiudeva con il già citato finger roll, a braccio esteso e raggiungendo una notevole altezza in spinta; noteremo anche che fino a un paio d’anni fa Mr. Thunder arrivava spesso a conclusioni simili nel traffico. E poi? Avrà forse disimparato il lay-up? Non direi, no.

Ha semplicemente acquisito una capacità ascensionale imbarazzante, che lo porta a concludere i propri uno contro uno molto “above the rim”, come le varie top 10 delle migliori giocate della notte possono testimoniare su base molto frequente.

L’ulteriore progresso atletico del fenomeno da Texas non è spiegabile semplicemente facendo riferimento all’andamento generale del gioco, ma anche (se non soprattutto) alla padronanza del corpo che ha acquisito nelle ultime stagioni, qualcosa che nella storia del gioco (e del genere umano) non si era mai vista: un controllo simile a velocità da Millennium Falcon nell’iperspazio di un fisico di quasi 2.10 (e 2.20 di apertura alare, ricordiamo) non poteva essere previsto da nessuno, se non forse da William Gibson o un qualsivoglia autore di sci-fi; perciò, anche a parità di preparazione, KD è decisamente un atleta più dotato.

Sotto l’aspetto della forza, invece, il discorso è un po’ diverso: dobbiamo infatti ricordare come l’Uomo di Ghiaccio giocasse quasi sempre nei pressi del pitturato in un periodo in cui le battaglie sotto le plance erano un filino più fisiche, e non avrebbe potuto dominare il tabellino dei marcatori da quella posizione se non fosse stato dotato di una semi-gargantuesca fisicità, nonostante la magrezza, oltre che di braccia lunghe e mani grandi, come ricordava Kobe nel numero di luglio 2007 della Rivista Ufficiale NBA.

Sulla velocità opterei per un pareggio con goal, entrambi dispongono di una grande facilità di corsa e di una copiosa velocità d’esecuzione  (“deceptively fast” come sintetizza perfettamente Vandeweghe nel video mostrato sopra).

d) Difesa

Il fatto veramente strano, per un difensore saggiamente ritenuto pacifista come Gervin, è che le sue statistiche farebbero pensare ad un autentico stopper difensivo: infatti, non solo ha sempre avuto un discreto numero di recuperi, ma al momento del ritiro era la miglior guardia stoppatrice di sempre!

È una contraddizione di termini che potrebbe confondere un amante dei numeri più o meno come il terremoto di Lisbona fece con gli Illuministi, e che è spiegabile con il maggior romanticismo del basket di ieri: possiamo dire che Gervin (e molti altri suoi “coetanei”) fosse come un Menelao o un Agamennone dell’Iliade, provvisto di un esercito di cui non si parla mai, e più che mai desideroso di conquistarsi la gloria eterna (le statistiche); da qui i numeri gonfiati (e ora anche molto retoricizzati).

La controparte odierna, Durantula, era un altro abbastanza portato per lo sciopero difensivo, ma nell’ultima stagione è arrivato addirittura settimo nella Lega per Defensive Win Shares, segno di una più matura padronanza del gioco in tutti i suoi aspetti, e non è difficile pronosticargli un futuro difensivo alla MJ o alla Kobe, soft per tre quarti e mezzo e focalizzato al massimo nei finali tirati.

e) Playmaking skills (ball-handling e capacità passatorie)

L’innegabile superiorità del contemporaneo nel facilitare il gioco va valutata in termini aristotelici: o Durant è superiore solo in atto, ovvero perché lui effettivamente vuole coinvolgere i compagni, cosa che Gervin non ha mai fatto per tutto l’arco della carriera, o lo è anche in potenza, cioè perché è un creatore di gioco effettivamente superiore; andrei con la seconda, per un semplice dato statistico: nell’anno in cui George diede più assist ai compagni (302 nel 77-78) il suo computo di turnovers fu di…306, vale a dire un saldo negativo, seppur leggermente, e ciò denota qualche grosso difetto nel coinvolgimento dei propri commilitoni.

Durantula cresce di anno in anno sotto questo profilo, passando da rapporti assist/TOs leggermente negativi ad uno nettamente a segno più nel 2013 (4.6/3.5); i nei ancora limabili sono alcune forzature di troppo (aspetto magnificato dall’infortunio di Westbrook, che l’ha costretto ad iniziare praticamente ogni azione offensiva) e qualche palleggio che ogni tanto gli sfugge di mano, probabilmente perché la spinta con le braccia (molto superiori alla sua altezza) crea un rimbalzo superiore a quello preventivato se non controllato bene.

f) Leadership

Come già evidenziato negli ultimi paragrafi, Iceman non era proprio your ordinary (nor ideal) franchise-player, e questo si è riflesso sulle sue capacità di leader e sulle chance di successo degli Spurs (in certi posti non cambia mai niente, ma in altri… si erigono templi pagani per Pop e TD).

Sì, perché quella versione dei texani era in fondo fatta a immagine del suo miglior marcatore, divertente e sulla carta pronta a sfidare lo Showtime parte prima, ma non disposta ai compromessi necessari per puntare al bersaglio grosso (basti pensare che solo nel 1982, quando ormai le dinastie Lakers e Celtics si erano già assicurate il futuro della Lega e la finestra Spurs si era serrata, fu preso un vero lungo da titolo come Artis Gilmore, peraltro pure lui quasi alla canna del gas), tanto che alla fine quella San Antonio non viene nemmeno ricordata come un’autentica incompiuta, titolo attribuibile molto di più ai Bucks di Nelson, solo per rimanere in quell’arco temporale.

Destino che non sembra appartenere a questi Oklahoma City Thunder, pur con tutti i dubbi sollevati dalle ultime mosse di Sam Presti, semplicemente perché KD non lo lascerà succedere.

La sua leadership si tocca con mano: dall’innumerevole quantità di clutch plays, al, pur vano, tentativo di reggere il peso della squadra da solo negli ultimi Playoff, alla difesa molto energica di Sefolosha dalle critiche di Westrbrook, e così via, tutte queste circostanze mostrano la sua identità di deus-ex-machina e di giocatore totalmente conscio della caducità delle affermazioni individuali di fronte alle vittorie della squadra.

Perciò almeno sotto questo aspetto sono evidentemente agli antipodi; qualcuno ne preferisce uno, qualcuno l’altro, ma normalmente la Storia del gioco ne privilegia uno solo.

g) Valutazione finale

Come giudicare, in definitiva, questi due autentici fuoriclasse di epoche diametralmente opposte come l’NBA di prima esposizione mediatica e quella ultra-globalizzata di oggi?

Come visto, le somiglianze su un piano puramente tecnico sono tante, e anche l’inquadratura di realizzatori principi della propria generazione li appaia indissolubilmente; le differenze, semmai, vanno cercate nel quadro più ampio, in aspetti meno tangibili ad una misurazione, quali l’intensità, lo spirito di sacrificio e il carisma trasmesso ai compagni.

Sotto tutti questi aspetti Durant, pur senza essere ancora entrato nel prime della carriera, è probabilmente già superiore a Gervin, che nella sua grandezza non è mai riuscito a scrollarsi di dosso l’immagine di romantico perdente, e forse non ha mai nemmeno voluto provarci con tutto sé stesso; Iceman è Iceman, nel bene e nel male.

Per provare la tesi bisogna ritornare al già citato “Shootout sulla Main” del 1978 fra Gervin e Thompson, e confrontarlo con il remake del 2013, KD vs. Melo: per non perdere Iceman arrivò a sciorinarne 53 in un tempo in una partita inutile, rischiando di stancarsi in ottica post-season (e infatti nella serie, persa, con i Bullets, ebbe una media di 37 a partita nelle prime 4 e “solo” 25 nelle ultime due, segno di una riserva agli sgoccioli).

E il 35 che ha fatto? Non ha giocato, scusandosi prima su Twitter per la propria decisione di risparmiarsi per gara-1 con i Rockets.

Se poi piccoli esempi di questo tipo non bastano (giustamente), per risolvere il confronto è meglio affidarsi alle parole di uno che dovrebbe saperne parecchio:

 

3 thoughts on “Le sfide impossibili: George Gervin vs Kevin Durant

  1. davvero articolo stupendo,complimenti.Ottima accuratezza nel lessico e anche ottimi paragoni,bravo.

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