aaatf353“Gara 7 di una finale Nba, c’e’ qualcosa di meglio?”
Il mio pensiero e’ rivolto a questo mentre mi siedo su una panchina alla fermata del bus.
All’incrocio tra la Lincoln e Alton Rd.

In pieno centro a Miami Beach, ultimo avamposto che divide e allo stesso tempo mescola la cultura nordamericana con quella latina. O per meglio dire la cultura latina con quella nordamericana, perche’ qui, da quando Fidel ha deciso di ribaltare la repubblica cubana, di americano c’e’ solamente il dollaro.

Alle mie spalle, tre blocchi indietro, ho le Venetian Islands, una serie di isole artificiali riempite di alberi e abitazioni per famiglie disponibili a separarsi facilmente dall’unica cosa rimasta americana in tutta Miami.

Davanti a me, sporgendomi verso l’incrocio e approfittando della struttura perpendicolare delle strade dei grandi centri urbani americani, volgendo lo sguardo all’orizzonte riesco ad immaginarmi, dietro ad una selvaggia chioma di palme, l’Oceano Atlantico.

Appena seduto, noto con sorpresa che, a differenza della mia Milano, alle fermate dei mezzi pubblici, oltre alla tabella degli orari cartacea solitamente bugiarda, non esiste alcuna indicazione elettronica.

Rinunciando a sapere quando sarebbe arrivato il mio bus, il 119, mi riappoggio allo schienale e chiudendo gli occhi, il mio pensiero esegue un involontario rewind del nastro della stagione NBA che volge maledettamente al termine.

Il trasferimento dei Nets a Brooklyn, le trade di Joe Johnson, Howard e Harden, gli spostamenti della free agency, la personale grandissima attesa per Anthony Davis, l’opening week, la caduta dei nuovi Lakers alla prima in casa contro i Mavs, la magia allo scadere di Parker contro Oklahoma City, la partenza lanciatissima – assolutamente inaspettata e infatti terminata subito – dei Bobcats, l’esplosione di Vucevic, Paul George, Lillard, Irving, Green, Parsons e Thompson, il “nickel” lasciato da Steph Curry in the City, le giocate non ortodosse di CP3 e Ricky Rubio, il cuore biancoverde dopo l’infortunio di Rondo, le schiacciate di Barnes e di DeAndre Jordan, il quarto quarto di Robinson in gara 4 contro i Nets, la rincorsa finale dei Lakers, la stagione del Gallo e i playoff del Beli, la striscia vincente degli Heat, i passaggi di prima di Gasol II e Diaw, la stagione di LeBron, i buzzer beater di Jennings, Monta, J.r., Aldridge, Collison e Korver, i liberi di Kobe su una gamba sola, la stoppata di Griffin su Deron e di Hibbert su Melo, l’alleyopp-crossover per aria di Jamal Crawford, gara 7 dei Bulls al Barclays Center, la mirage and one dei Rockets contro Durant, le difese di Leonard, Bradley, Nick Collison, Lance Stephenson e Tony Allen, la scomparsa del dottor Jerry Buss, il mese di Aprile di Melo, l’addio di Hill e Kidd.

Il rumore dei freni, non esattamente appena cambiati, del tanto agognato bus 119 mi risveglia dallo stato di trance che la sequenza di immagini e ricordi dell’ultima annata mi aveva provocato.

Per la prima volta il sapore fresco dell’aria marittima che si univa ai profumi dolci e densi della frutta presente nei long drink e a quelli piu’ pungenti e vivaci che uscivano dalle cucine dei ristoranti latini veniva sovrastato dall’ a me piu’ noto odore di olio del motore e di fumo proveniente dal mio mezzo di trasporto.

Dopo essere salito in testa – come solito nei paesi di cultura anglosassone – per pagare direttamente al conducente il costo del viaggio e aver ricevuto conferma sul tempo necessario per giungere a destinazione, un quarto d’ora circa, decido di tirare fuori gli appunti presi durante le prime sei gare per cercare di capirci qualcosa di questa serie perche’ al momento penso di non averci capito niente.
L’unica cosa che le accomuna tutte e’ che nessuna partita e’ simile all’altra ma il particolare piu’ interessante che emerge subito e’ che alcuni elementi all’interno della serie sono cosi’ uguali che finiscono per elidersi vicendevolmente.

La tripla di Allen allo scadere di gara 6 ricorda per il suo fattore di casualita’ nel come l’azione si e’ generata la giocata di Parker che decide l’esordio della serie.

I piu’ discussi delle due coppie di Big Three, Wade e Ginobili, hanno sostanzialmente deciso da soli, gara 4 e gara 5.

In una serie di puro small-ball, le difese dei lunghi sui piccoli, piu’ o meno tali, hanno orientato le partite. Nell’ultima in Texas l’ingresso di Diaw per difendere tutto campo su LeBron ha mandato completamente fuori ritmo la fase offensiva degli Heat.
In gara 6 ma anche in tutti gli altri episodi della serie vinti da Miami, la difesa di Chris Bosh e’ risultata sorprendentemente decisiva essendo l’unico in grado di limitare, per quanto sia possibile, i danni causati dalle penetrazioni di Parker e dai pick&roll centrali dello stesso francese in coppia con Tim Duncan.

Offensivamente entrambe non sono riuscite ad esprimere la stessa fluidita’ di gioco manifestata durante il corso dell’intera stagione, ma alla 100esima partita non ci si puo’ stupire piu’ di tanto.

Gli Spurs hanno avuto paradossalmente troppo da Danny Green, il quale , salvandoli, in diverse situazioni ha cambiato la sensazione dei loro attacchi. Se non funziona il “cross screen” – taglio del lungo da un lato all’altro del campo – blizzato continuativamente dal backcourt di Miami o il “drag” – pick and roll in transizione – San Antonio non ha la brillantezza mentale e fisica per attaccare una difesa mobile come quella degli Heat. Finche’ si tira col 60% da tre si vince sempre, ma alcune statistiche sembrano destinate a calare.

Per Spoelstra il vero problema e’ la gestione di Dwyane Wade.
Se gioca al suo livello, come gara 5, non c’e’ squadra nel globo terrestre che li possa fermare.
Se non entra in ritmo nei primi minuti della partita, essendo sfidato regolarmente al tiro, la sua presenza in campo e’ un regalo per la difesa degli Spurs. In questo caso, appena esce per rifiatare, e si gioca come il 6 desidera, cioe’ lui piu’ un lungo e tre tiratori puri, il campo si allarga sensibilmente e la distanza dei close-out da percorrere per i difensori e’ insostenibile.

Un altro fattore offensivamente determinante per gli Heat e’ quanto Bosh la metta per terra dopo averla ricevuta. Se utilizzato solamente come giocatore perimetrale l’attacco di Miami diventa troppo prevedibile.

Occupato dalla lettura ma soprattutto dall’interpretazione dei miei scritti, presi ad un orario non esattamente consono e percio’ non sempre chiarissimi, mi accorgo con grande ritardo di essere sopra al Macarthur Causeway, una strada che si trasforma in ponte a sei corsie, che collega South Beach a Miami Downtown.

Dalle indicazioni chieste appena salito sul bus al conducente ho inteso che una volta terminato il ponte sarei arrivato a destinazione.

In tutta fretta cerco accartocciandoli di rimettere in ordine i miei appunti, con il risultato di rendere illeggibile cio’ che gia’ prima era di difficile interpretazione.

Temendo di perdere la mia fermata mi stabilisco davanti alla porta e mentre attendo con agitazione la fine del ponte il mio pensiero ancora una volta involontariamente ritorna a gara 6.

Partendo dal presupposto che la sconfitta di San Antonio nasca da una serie di casi assolutamente irripetibili, l’immagine che mi e’ rimasta piu’ impressa e’ la rimessa Spurs sul +2, a venti secondi dalla fine consegnata a Kawhi Leonard. Per quanto l’ex San Diego State sia stato un fattore nelle corso delle Finals e sembri non provare alcuna emozione, mai, opinione personale, una palla del genere deve essere affidata ad un ragazzo alla prima esperienza in situazioni del genere.

Come successo tra la Lincoln e Alton Rd. mentre attendevo sulla panchina, i miei pensieri racchiusi nei soliti 28×15 metri e rivolti questa volta ad un senso di amarezza dovuta al fatto che una delle due squadre sia destinata a perdere, la scossa causata dalla fermata del bus mi permette di riprendere contatto con la realta’.

Mi accorgo, grazie ad una svolta a sinistra effettuata dal bus appena arrivati a Downtown, di cui al momento non mi ero assolutamente reso conto, di poter godere di una meravigliosa vista del ponte appena percorso e di tutta South Beach alle sue spalle.

Sceso dall’autobus, mi guardo immediatamente intorno con aria frenetica per individuare se la destinazione fosse quella tanto sognata. Dando un veloce sguardo panoramico non trovo l’obiettivo della mia ricerca ma senza neanche avere il tempo di esprimere i miei dubbi al conducente sento il bus ripartire.

Seguendo con lo sguardo fisso la figura del bus muoversi, vedo comparirgli dietro un enorme struttura grigia chiusa da una vetrata e una scritta: American Airlines Arena. Destinazione raggiunta.

Il bus 119 prosegue la sua corsa sulla Biscayne Boulevard, io e l’NBA arriviamo al nostro capolinea.
Gara 7. Finali NBA. Benvenuti.

2 thoughts on “Game 7: The end it’s here

  1. prendi lo skytrain o come si chiama che ha anche il wifi… bus miami abbastanza male… ;)

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.