Dopo la prima parte, continua la nostra panoramica sulle domande e risposte di maggiore interesse riguardanti il lockout NBA.

Se avete dubbi o domande da fare, non esitate a scriverle qui sotto nei commenti!

9.     Ma è vero che le franchigie NBA sono in perdita?

I proprietari NBA, nel momento in cui hanno scelto di esercitare l’opzione per uscire dal CBA ed iniziare il lockout, hanno dichiarato una perdita globale, delle franchigie nel loro complesso, di 340 milioni di dollari nella sola ultima stagione.

I giocatori hanno contestato queste cifre, ritenendo che nel computo dei costi “variabili” di cui sopra siano state  inserite anche voci che non hanno nulla a che fare con le perdite della franchigia, ma semmai della sua proprietà (ad esempio gli ammortamenti e gli interessi collegati alla costruzione o riallestimento di uno stadio): secondo l’associazione dei giocatori una cifra più sensata delle perdite subite dovrebbe essere individuata in circa 100 milioni all’anno.

In realtà il calcolo esatto di questo disavanzo è al di fuori della portata di noi comuni mortali, e può essere effettuato soltanto da professionisti di alto livello che mettano mano ad una quantità mastodontica di documenti contabili, quindi non ha senso stare troppo a preoccuparsene dalla nostra posizione.

Quello che è importante sottolineare è che i due stessi contendenti  non stanno litigando sul fatto che la lega nel suo complesso sia in perdita, ma solo su quanto sia in perdita.

10.       Ma io ho letto un articolo secondo cui…

Nelle ultime settimane sono uscite parecchie voci, anche autorevoli, secondo cui in realtà l’NBA godrebbe di una situazione finanziaria migliore di quella che lamenta: un articolo di Deadspin ha sostenuto che in realtà le squadre NBA fanno dei “giochetti” contabili che permettono loro di gonfiare le perdita, e un successivo articolo di un blogger del NY Times ha annunciato che Forbes avrebbe fatto le pulci alle franchigie NBA, e sarebbe emerso che in realtà sono in attivo di decine di milioni di dollari.

Andiamo con ordine.

–         L’ articolo su Deadspin ha spulciato conti dei Nets di alcuni anni fa, e ha ritenuto di aver scoperto qualche “furbata” (perfettamente legale, beninteso) che permetteva alle franchigie NBA di mostrare più perdite di quelle che accusano realmente. Quell’articolo però presentava alcune inesattezze metodologiche abbastanza gravi , e sono stati i suoi stessi autori a far uscire poco dopo una correzione con le proprie scuse.
Il problema principale di quell’analisi, a prescindere dagli errori di conteggio, sta nel fatto di non rendersi conto che quegli artifizi contabili sono utilizzati dagli owner per ammorbidire le loro personali dichiarazioni dei redditi, non i conti delle loro franchigie: la differenza è sottile, perché normalmente il tifoso identifica la proprietà con la squadra, e viceversa, ma ovviamente c’è una enorme differenza tra le perdite, e i conti economici, di una squadra, e quelli del suo owner, due mondi totalmente differenti e senza una vera corrispondenza biunivoca.
E’ ovvio, infatti, che il fatto che una franchigia sia in perdita non può essere bilanciato dal fatto che il suo owner sia finanziariamente in forma smagliante (anche se le sue fortune sono collegate anche alla notorietà garantita dal possedere una squadra NBA, o dalle agevolazioni fiscali che questo gli può concedere): il sistema dev’essere in grado di sostenersi da solo, e quindi di essere profittevole a prescindere dal fatto che ci sia un “ricco scemo”, come si dice da questa parte dell’oceano, che tappa i buchi mettendoci del suo;

–          Per quanto riguarda le critiche del blog del NY Times, molto più tecniche e dettagliate, va detto che le sue osservazioni sono state già validamente confutate non solo dalla NBA stessa, ma soprattutto da un altro blogger proprio di Forbes, che ha sottolineato un elemento fondamentale: le cifre mostrate dal NY Times presentano enormi flussi positivi per il semplice fatto che non prendono in considerazione ammortamenti, deprezzamento, interessi passivi (attenzione: non dello stadio, ma della squadra vera e propria): tutte voci che magari possono apparire “formalità burocratiche”, ma in realtà rappresentano flussi di vero denaro che esce dalle casse delle squadre, e quindi non possono essere semplicemente ignorate;
la voce relativa agli interessi passivi, in particolare, è molto spesso sottovalutata: quasi tutte le squadre NBA sono pesantemente indebitate, avendo preso in prestito decine e decine di milioni di dollari dalle banche (fino al 2003) e dalla struttura appositamente creata dalla NBA stessa nel 2003 per fornire prestiti alle franchigie a tassi di favore; però, per quanto un tasso sia favorevole, ogni prestito prima o poi va restituito, con gli interessi.

11.       Ma se le franchigie sono in perdita, perché vengono vendute a peso d’oro?

Alcune squadre NBA sono state recentemente compravendute a prezzi considerevoli, e la domanda sorge spontanea: se è un così brutto affare possedere una franchigia, perché si trovano sempre degli acquirenti? Le cifre record spese ad esempio dai nuovi acquirenti di Warriors e Wizards per acquistare le rispettive franchigie rappresentano un argomento apparentemente molto forte per i sostenitori del buono stato finanziario della lega.

In realtà, analizzando la situazione più nel dettaglio, il quadro che emerge è ben diverso: innanzitutto va detto che storicamente, ogni volta che una franchigia NBA è finita “sul mercato” gli acquirenti non sono mai mancati; in questo momento, invece, l’NBA ha svariate franchigie in vendita che non trovano alcun offerente.

I Pistons, tanto per fare un esempio, sono sportivamente in pessime acque, e vivono in un contesto economico tra i più depressi e colpiti dalla crisi di tutti gli States, ma rappresentano comunque una franchigia storica, per di più interamente proprietaria del proprio palazzetto, e in un mercato avido di basket e densamente popolato. Eppure la vedova Davidson, che ha ereditato la squadra dopo la morte del marito e storico padre-padrone dei Pistons nel 2009, non riesce a vendere.

Gli Hornets, arrivati ad un passo dall’insolvenza, sono stati “salvati” dalla NBA stessa, caso più unico che raro nel panorama dello sport americano e non, perché non si riusciva a trovare un acquirente disposto ad accollarsene gli ingenti debiti.

Alcune franchigie passate di mano, come Nets e Wizard, sono state effettivamente compravendute a cifre considerevoli, ma va sottolineato che tali affari prevedevano anche una corposa quota collegata all’acquisto dell’arena (presente, per i Wizards, e futura, per quanto riguarda il Barclays Center di Brooklyn, che sarà la nuova casa dei Nets dal 2012), e soprattutto che nel prezzo di acquisto una parte consistente è rappresentata da debiti che i nuovi compratori si sono accollati: MJ ha acquistato i Bobcats pagando solo 25 milioni di dollari a Bob Johnson, e per il resto si è “limitato” ad accollarsi 150 milioni di debiti gravanti sulla franchigia, cifra analoga al totale dell’indebitamento dei Warriors, che adesso grava sui nuovi proprietari Lacob e Gruber, mentre Leonsis si è preso in carico ben 248 milioni di debiti per rilevare le quote dei Wizards e del Verizon Center appartenute ai Pollin.

In sostanza, gli owner che hanno venduto le loro franchigie nell’ultimo anno (ben cinque) non hanno fatto un affare o incassato grandi plusvalenze, limitandosi a liberarsi di una “patata bollente” che non volevano più tenere tra le mani: una scelta che molti altri owner sarebbero disposti a replicare.

Il tutto senza dimenticare che dietro all’acquisto di una franchigia NBA spesso si nascondono altri interessi: Prokhorov non ha acquistato i Nets perché gli piacevano i colori sociali, ma per “sdoganarsi” ulteriormente sul mercato americano e soprattutto per entrare nella enorme operazione immobiliare che il suo nuovo socio Bruce Ratner sta preparando a Brooklyn, di cui il Barclays Center rappresenta solo una parte; Lacob e Gruber non hanno speso centinaia di milioni di dollari sui Warriors perché tifosi di Monta Ellis, ma perché hanno in mente, prima o poi, di entrare nel progetto (accennato da decenni, ma mai concretizzatosi) di un moderno palazzetto a San Francisco, che diventerebbe una immediata miniera d’oro non solo per il basket.

Queste considerazioni, però, non possono spostare l’attenzione dai concetti già esposti in precedenza: una franchigia NBA dev’essere in grado di sostenersi finanziariamente da sola: se per renderla allettante si devono tirare in ballo interessi ulteriori, il sistema non può funzionare, perché questo significa incentivare la tendenza ad abbandonare città prive di opportunità del genere (Seattle, Sacramento, Indiana) a favore di quelle in cui se ne possono trovare (Anaheim, Las Vegas).

12.       Ma le squadre non avranno qualche “tesoretto” nascosto?

Tutto può essere, ma è decisamente improbabile, per questioni meramente legali.

Gli owner NFL hanno scelto di attivare la loro serrata perché, in buona sostanza, l’NFL è un affare che va a gonfie vele, i suoi profitti sono in aumento nonostante la crisi, quindi i proprietari ne vogliono una fetta più consistente, senza mostrare i loro libri contabili: la diatriba tra i footballari è sostanzialmente tra due parti che vogliono una porzione più grande di una torta succulenta.

Gli owner NBA, invece, sono entrati in lockout dichiarando formalmente di non essere più in grado di far fronte alle proprie spese, di essere a rischio di insolvenza: di conseguenza, in base alle leggi lavoristiche americane, sono state obbligate a mostrare i propri libri contabili ai giocatori e all’NLRB, l’onnipotente National Labor Relations Board, un’agenzia federale che sostanzialmente gode, a livello più elevato, dei poteri che qui da noi vengono svolti dagli Ispettorati del Lavoro e dalle Direzioni (provinciali e regionali) del Lavoro.

I funzionari dell’NLRB hanno da tempo preso in mano i libri, li hanno mostrati ai giocatori e hanno richiesto e ricevuto le loro osservazioni: ora stanno studiando il materiale, ma se dalla loro analisi dovesse venire fuori che gli owner hanno mentito, le conseguenze sarebbero terribili, perché negli Usa non si scherza su queste cose; in quel caso sarebbe l’NLRB stessa a trascinare direttamente l’NBA in Tribunale, senza nemmeno bisogno di chiederlo ai giocatori, e il tutto si trasformerebbe in un clamoroso bagno si sangue per Stern e i suoi.

Il tutto senza dimenticare che l’NBA non si fa i conti in casa, come un macellaio o un pizzicagnolo: la contabilità dell’NBA è tenuta da  società esterne e terze, profumatamente pagate; se saltasse fuori qualche magagna, queste ultime verrebbero letteralmente mangiate vive dall’IRS e dalle altre agenzie federali di controllo.

Insomma, si ritorna a bomba: le perdite ci sono, il sistema in questo momento non è profittevole per l’NBA nel suo complesso, e questo lo si può considerare un dato di fatto: c’è solo da capire e discutere l’entità di questo disavanzo.

13.       Come sono distribuite le perdite all’interno della lega? E’ vero che alcune squadre sono in perdita e altre guadagnano fior di soldoni?

E’ verissimo, e la spiegazione è molto semplice: a differenza di quanto accade nell’MLB e, soprattutto, nell’NFL, l’NBA non ha un efficace sistema di redistribuzione interna degli introiti (revenue sharing): i proventi gestiti collettivamente, come i diritti televisivi nazionali ed internazionali, vengono redistribuiti collettivamente, ma gli introiti locali restano quasi interamente nelle mani della franchigia che li genera: nell’NFL, ad esempio, tutti gli incassi derivanti dall’afflusso allo stadio per una partita, dai biglietti alla ristorazione, dai parcheggi ai gadget, vengono attribuiti al 60% in favore della squadra di casa e al 40% a quella in trasferta; persino nel calcio nostrano, che pure non è noto per essere particolarmente equo e solidale, il 15% del totale degli incassi di ogni gara va alla squadra ospite.

Nell’NBA questa redistribuzione interna tra le franchigie è limitatissima: solo il 6% dell’incasso (e limitatamente al solo biglietto di ingresso) viene redistribuito, mentre tutto il resto rimane nelle tasche della squadra di casa: questo determina un clamoroso sbilanciamento a favore delle squadre che militano nelle grandi aree metropolitane, preferibilmente potendo sfruttare uno stadio moderno e ben fornito di suites e posti di lusso.

Basta fare un paio di esempi per rendersi conto della situazione.

I Lakers hanno appena concluso un accordo per i diritti televisivi locali di 3 miliardi di dollari per 20 anni, vale a dire 150 milioni di dollari all’anno; i Celtics, che attualmente si devono “accontentare” di 20-30 milioni all’anno, stanno per concludere un contratto molto simile a quello degli odiati gialloviola; molte squadre al di fuori delle grandi metropoli, invece, ricevono meno di un decimo di quelle cifre (gli Hornets prendono 9 milioni all’anno, i Grizzlies poco di più, i Blazers circa 12; ).

Passando agli incassi direttamente collegati alle partite,  per ogni gara interna lo Staples Center genera mediamente 1,9 milioni di dollari di incasso per i Lakers, e un milione abbondante, talvolta anche un milione e mezzo, persino ai derelitti Clippers; squadre come Grizzlies, Wolves e Bucks, a causa di palazzetti antiquati e contratti meno favorevoli, incassano la miseria di 320, 650 e 410 mila dollari a gara: in tre, messe assieme, non arrivano nemmeno vicine ai numeri dei gialloviola.

Un’altra notevole discrepanza è rappresentata proprio dalle arene: ci sono franchigie che giocano in un palazzetto privato, di proprietà dello stesso owner della squadra, o quantomeno socio della stessa; altre franchigie giocano  in un palazzetto pubblico, ma comunque moderno e con contratti di locazione estremamente favorevoli (è il caso ad esempio dei Rockets e dei Magic, con l’avveniristico Amway Center inaugurato quest’anno ed interamente pagato con i soldi dei contribuenti): altre franchigie, invece, sono legate a strutture obsolete, che i proprietari pubblici non hanno alcuna intenzione di rinnovare o sostituire, e con ricavi ovviamente molto minori, con alcuni casi veramente eclatanti: il contratto dei Bucks con il Bradley Center, ad esempio, permette loro di tenere solo il 13% del ricavato dalla vendita di cibo e bevande, mentre i Timberwolves, costretti a giocare nel Target Center, non solo non hanno alcuna prospettiva di vedersi costruire una nuova arena o ristrutturare quella esistente, ma non viene loro concesso nemmeno di trasferirsi di pochi chilometri nel ben più moderno e remunerativo Xcel Center di St. Paul costruito per i Minnesota Wild.

In questo contesto è evidente la necessità di una più equa revenue sharing: c’è bisogno che la lega introduca un sistema di parziale redistribuzione delle entrate “locali”, altrimenti qualunque modifica della spartizione del BRI e  qualunque ipotesi di salary cap non riusciranno a tenere a galla i cosiddetti “small market”.

I giocatori hanno colto la palla al balzo, chiedendo che ogni decisione relativa alla spartizione del BRI sia accompagnata da una parallela modifica della spartizione degli introiti tra le franchigie: l’NBA, ovviamente, nicchia, e afferma che un diverso sistema di revenue sharing è allo studio, ma si tratta di un problema distinto e separato rispetto a quello dei costi complessivi, e verrà affrontato soltanto dopo che si sarà risolto il lockout.

E’ evidente che le due parti cerchino rispettivamente di sottolineare e minimizzare questo aspetto, perché quando si parla di revenue sharing il confronto non è più tra giocatori e squadre, ma diventa una lotta intestina tra le singole franchigie: il che potrebbe rappresentare la principale spaccatura interna al sindacato dei giocatori, a tutto vantaggio dei giocatori.

14.       Quanto “pesa” nelle trattative la scelta del salary cap?

In realtà abbastanza poco: la scelta del destino del salary cap, sia esso soft, hard o flex, delle singole eccezioni, della luxury tax, è e sarà importante a livello sportivo, a livello di competitività, ma sono tutti discorsi che attualmente passano in secondo piano.

Il vero bandolo della matassa è rappresentato dalla distribuzione del BRI da un lato e dalla revenue sharing dall’altro: quando le parti troveranno un accordo su questi punti, tutto il resto verrà di conseguenza, e potrà essere risolto in tempi brevi.

15.       Alla fine della fiera, di chi è la colpa di questa situazione?

Non è “colpa” di nessuno, nessuna delle due parti sta facendo niente di illegale ma nemmeno di immorale: semplicemente i giocatori sono i protagonisti che rendono possibile un gioco che smuove quattro miliardi di dollari all’anno, e quindi hanno tutto il diritto, legale e morale, di chiedere una fetta più grande possibile di quella torta; gli owner, dall’altra parte, non sono lì per fare beneficenza, e hanno a loro volta tutto il diritto di chiedere la garanzia che il sistema sia profittevole e riesca  a stare in piedi da solo.

In questo momento il sistema non funziona, è troppo sbilanciato: sbilanciato a favore dei giocatori, che godono, come detto, di una “fetta” garantita che non ha più senso, sbilanciato a favore degli owner che godono di un grande mercato e di una arena moderna ed invitante, magari gentilmente regalata dalla collettività all’interno di un contesto economico differente.

Questi fattori devono cambiare, qualcuno (i giocatori e i proprietari  delle squadre che si trovano nei “big market”) dovrà cedere qualcosa: resta solo da accordarsi su quanto cedere, e da capire quanto ci vorrà.

16.       Qual è lo stato attuale delle trattative?

Facendo una breve cronistoria dei negoziati, i primi ad aprire le danze sono stati i proprietari: poco più di un anno fa hanno formulato una prima proposta che prevedeva un letterale ribaltamento dei criteri di spartizione, assegnandosi il 57% e lasciando il 43% ai giocatori, con un hard cap attorno ai 44 milioni.

L’NBPA ha risposto offrendo una riduzione di 100 milioni di dollari all’anno per cinque anni (decurtazione che quindi li porterebbe a guadagnare circa il 54% del BRI rispetto al 57% attuale), lasciando intatto l’attuale soft cap, eliminando la luxury tax ed introducendo una seconda mid-level exception, oltre ad attenuare il principio della “base year compensation” per rendere più agevoli le sign and trade.

Queste prime due proposte sono state reciprocamente ritenute impraticabili e poco meno che offensive: gli owner hanno successivamente formulato una nuova controproposta, che prevede di attribuire ai giocatori, anziché ,una percentuale del BRI,  la cifra fissa di 2 miliardi di dollari all’anno per 10 anni, con un “flex cap” fissato a 62 milioni: proposta ritenuta inaccettabile dai giocatori, visto che tutte le previsioni suggeriscono una crescita delle entrate della lega del 3-5% ogni anno, e quindi accettare una “fetta di torta” fissa e non in percentuale per 10 anni significherebbe in buona sostanza disporre una decurtazione al termine del decennio nell’ordine del 30-50%, tanto più se si considera che nel 2016 scade il contratto NBA per i diritti televisivi nazionali, ed il nuovo contratto si prospetta nettamente più remunerativo.

Alla reiezione di questa seconda proposta non sono seguite e non stanno seguendo, al momento, nuove controproposte da parte dei giocatori.

5 thoughts on “NBA Lockout: domande e risposte (2/3)

  1. Ancora complimenti per l’articolo.
    volendo dire la mia idea al riguardo io credo che, essendo l’imprenditore che si accolla il rischo di impresa, la % sia troppo sbilanciata vs i giocatori. i quali d’altra parte hanno ragione a chidere un contratto di 5 anni fino alla rinegoziazione dei diritti TV…

  2. Appena mi laureo in economia ti dico se mi è piaciuto l’articolo….. (non prendo in mano un libro da 10 anni).
    Bell’articolo che spiega in modo comprensibile un argomento davvero complicato.
    Bravo.

  3. Ma se il BRI si compone dell’indotto di tutte le franchigie perchè quelle con più indotto non aiutano le altre a fatturare di più? Se certi stadi sono vecchi e poco capienti i lakers potrebbero “investire” sui palazzetti di squadre meno benestanti (o no?)
    Poi io sono sempre dell’idea che lo sport debba chiudere l’anno fiscale in pareggio mai in perdita, e i giocatori devono adeguarsi! Guadagnare 500 mila dollari l’anno in meno non la vedo una tragedia per chi ne guadagna 5 milioni. Solo così si può andare avanti, altrimenti diventa come il calcio: UNA TRAGEDIA!

    • “Ma se il BRI si compone dell’indotto di tutte le franchigie perchè quelle con più indotto non aiutano le altre a fatturare di più?”

      perché quelle con più indotto se ne fregano altamente. a meno che non si trovi il sistema di obbligarle, in automatico, a condividere un po’ dei loro profitti (la famosa revenue sharing) è impensabile che lo facciano di loro spontanea volontà, per pura e semplice generosità.

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