A 38 anni, finalmente il meritato anello per Jason Kidd, uno dei giocatori più intelligenti della storia della NBA

La bellezza dello sport professionistico americano basa buona parte del proprio fascino sull’evoluzione delle cosiddette storylines, ovvero sceneggiature che dopo l’accadimento naturale degli eventi portano alla ricostruzione di ciò che è successo, ponendo in relazione l’evento stesso ed i fatti o le coincidenze che hanno portato al suo compimento.

Ogni campionato vinto ha i suoi diversi protagonisti: capita di veder realizzato il sogno di un giocatore che ha sempre vestito la stessa maglia per una carriera intera, può regalare il premio finale per chi ha cambiato maglia più di una volta decidendo di provare il tutto per tutto in aggregazione ad altri campioni, può dare immensa soddisfazione a protagonisti di seconda fascia, i cosiddetti role players, che riescono a dimostrare una volta di più l’indiscutibile importanza rivestita dal perfetto funzionamento di ogni singolo ingranaggio che fa girare una squadra intera, creando quella semi-perfezione che conduce alla vittoria finale.

La storia di Jason Kidd è invece del tutto particolare, simile in alcuni dettagli a quanto abbiamo già esposto, ma contemporaneamente molto differente dal momento che si è trovato ad essere un Maverick originale che un bel giorno è tornato all’ovile per concludervi la carriera sognando di poter archiviare il discorso titolo, riconoscimento che prima della scorsa domenica aveva solo sognato, pur andandoci molto vicino in due distinte occasioni.

Dallas l’aveva scelto nel giugno del 1994 per dare un nuovo corso alla franchigia, solo per scambiarlo qualche anno più tardi una volta capito che quella squadra non rappresentava ciò che serviva per arrivare in alto. Ironia della sorte, diciassette lunghi anni dopo la sua selezione al numero due assoluto da parte dei texani, Kidd ha assunto per la franchigia proprio quel significato per cui era stato preso in uscita dall’università della California, ed ha contribuito al compimento della stessa missione di quel tempo così lontano: far vincere ai Mavericks il loro primo titolo della storia.

Jason Kidd ha sempre avuto molti tifosi, anche tra le squadre avversarie rispetto a quelle in cui ha trascorso la sua irripetibile carriera, che ancora oggi è tutt’altro che chiusa. Era difficile, per chi ama il gioco, non stare dalla parte di un giocatore che ha riscritto la storia del playmaking con uno stile tutto suo accostando il proprio nome a quello dei protagonisti storici più creativi che avessero calcato un parquet professionistico, il cui ultimo ostacolo verso una nomina nella Hall Of Fame (luogo dove sarebbe probabilmente finito comunque – ndr) era esattamente quell’anello che Dallas ha ottenuto pochi giorni fa.

E’ sempre stato uno di quegli interpreti del gioco in grado di dominare pensando agli altri prima che a se stesso, facendo dell’arte del passaggio una sua priorità costante, disponendo di un apparato visivo comunemente non in dotazione ad altri esseri umani, comprendendo con un secondo o due d’anticipo la disposizione offensiva dei propri compagni, regalando loro un tiro comodo dietro l’altro, ritrovandosi contemporaneamente ad essere una delle migliori guardie rimbalziste in assoluto. Grazie al suo istinto sotto i tabelloni, difatti, di contropiedi ne ha iniziati un’infinità. Molti altri li ha conclusi personalmente, con quel dolce appoggio a canestro che ad ogni tocco faceva intuire la dolcezza delle sue mani, nonché le nobili proprietà di gestione del controllo del pallone che ne hanno sempre contraddistinto la carriera.

Tali qualità erano già abbondantemente conosciute fin dalle sue partite di high school, in uscita dalla quale Kidd era stato conteso da una miriade di università di primo livello, scegliendo poi di rimanere vicino a casa privilegiando California, ma anche sui vari playgrounds di Oakland che avevano avuto l’onore di essere calcati dalle sue scarpe, dove aveva imparato ad essere duro, svezzato da un maestro del trash talking come Gary Payton, suo concittadino.

Dallas lo prese come ultimo tassello di un grande progetto vincente, dopo che i ricordi sbiaditi della finale di Conference del 1988 persa contro i Lakers avevano lasciato spazio ad una squadra diventata la barzelletta della lega, ad un certo punto in corsa per battere il record negativo di vittorie in passato conseguito dai 76ers.

Kidd era l’ultimo dei tres amigos, le tre J che avrebbero dovuto rendere i Mavs una perenne contender da playoffs: per primo era arrivato Jim Jackson, nel 1992, quindi Jamal Mashburn nell’annata successiva, ed infine il cervello della squadra, il playmaker, il ruolo più importante del basket. Sembrava la classica ciliegina sulla torta.

Durò tutto il tempo di due stagioni e mezza, dove si accumularono sconfitte, malumori ed infortuni gravi (Mashburn – ndr), fatti che portarono ad un tanto frettoloso quanto inevitabile disfacimento della squadra, ed al trasferimento di Jason a Phoenix, dove giocò cinque stagioni dove accumulò un paio di campionati in doppia doppia di media disputando anche i primi playoffs di carriera, portando peraltro i Suns a cinque qualificazioni consecutive.

Nel 2001 arrivò il trasferimento ai Nets, i quali avevano compreso oramai perfettamente che l’egocentrismo di Stephon Marbury non li avrebbe mai risollevati dalla mediocrità perenne nella quale si erano ingabbiati da tempo immemore. Kidd aveva danneggiato la sua immagine nel deserto per via del negativo episodio domestico che l’aveva visto inveire con violenza nei confronti della moglie Joumana, che avrebbe poi lui lasciato sei anni più tardi.
In una situazione che era parsa a tutti una punizione infernale, aveva dovuto accettare il trasferimento delle paludi costantemente perdenti del New Jersey, anche se l’ultimo a ridere nonostante l’assenza di titoli vinti, sarebbe stato proprio lui.

Se i Nets sono riusciti a diventare una squadra dapprima rispettabile, già questo di per sé un’impresa, e quindi addirittura vincente, lo devono soprattutto a lui.

I primi due anni con Jason al timone fruttarono nientemeno che due Finali Nba consecutive, conquistate attraverso l’espressione di un gioco spumeggiante in contropiede e di un ritmo spesso troppo elevato per gli avversari. Kenyon Martin e Richard Jefferson, le altre due stelle della squadra, con lui componevano il noto Flying Circus fatto di tanti contropiedi terminati con violente schiacciate al volo, che per due campionati consecutivi misero da parte la concorrenza di tutte le squadre della Eastern Conference.

I Lakers di Shaq e Kobe, e gli Spurs sempre vincenti in anni dispari di Duncan, Parker e Popovich, furono due ostacoli troppo grandi da superare. Ma la rivoluzione cestistico/culturale che avrebbe travolto positivamente i Nets, l’ha iniziata esattamente Jason.

Nel Meadowlands Kidd avrebbe fatto altre quattro edizioni di playoffs consecutive in aggiunta al traguardo storico già raggiunto, ma gli anni migliori della carriera stavano cominciando a passare inesorabilmente, ed i presupposti di ricostruzione dei Nets di tre anni fa non collimavano per nulla con il forte desiderio di giocare ancora per il titolo prima che fosse troppo tardi per quelle gambe, che così tante miglia Nba avevano oramai già percorso.

Dallas, in seguito alla sconfitta in Finale contro Miami nel 2006 ed a troppe uscite premature dai playoffs (67 vittorie ed upset clamoroso contro i Warriors nel 2007 – ndr), decise di riaccoglierlo a braccia aperte, pensando che la sua esperienza, la fama di playmaker di altissimo quoziente intellettivo, e la capacità straordinaria di vedere dove gli altri non arrivavano, fossero le caratteristiche ideali da abbinare alla solitudine di Dirk Nowitzki, quel Tedescone che con lui sperava di raggiungere quel traguardo in precedenza sognato con l’amico Steve Nash, e poi sfiorato con un dito nell’harakiri del 2006 contro Miami dopo un vantaggio di 2 partite completamente gettato al vento.

Il Kidd texano versione seconda, per ovvi motivi anagrafici, si è ripresentato ai suoi tifosi come un giocatore cambiato, ma sempre determinante. I Mavericks hanno dato una virata decisa ad un sistema che prevedeva guardie realizzatrici prima che passatrici, inserendo con pazienza un playmaker completo sotto ogni punto di vista in grado di togliere la sensazione di stantìo da un attacco troppo incentrato sulla contonua cessione di responsabilità verso Nowitzki, e trovando nel contempo un giocatore cestisticamente più saggio, maggiormente votato alla difesa e preciso come mai lo era stato in precedenza da oltre l’arco dei tre punti.

Nessuno aveva scommesso un centesimo sui Dallas Mavericks campioni Nba 2011, perché l’esito del campionato sembrava segnato da un’estate che aveva portato in quel di Miami tre talenti di non poco conto, ed il ruolino post-season della squadra di Mark Cuban creava inoltre parecchio scetticismo. La finale contro gli Heat, oltre che una rivincita di quella clamorosa debacle di 5 anni fa, ci ha raccontato di un Kidd ancora capace di migliorare i compagni, di passaggi come sempre smarcanti tanto da creare immense comodità ai tiratori, di realizzazioni da tre punti pesantissime messe in situazioni cruciali di almeno due delle sei gare finali, ma soprattutto di una difesa fisica e sorprendentemente efficace contro LeBron James, accoppiamento sul quale le previsioni tattiche degli esperti avevano dato indubbia ragione al più massiccio Chosen One, contro il quale Jason ed i suoi 38 anni hanno resistito con ammirevole e stoica volontà.

Poteva essere l’ultima vera occasione per andare fino in fondo, e Jason Kidd l’ha sfruttata fino in fondo per fregiarsi finalmente del titolo di campione Nba, ed aggiungere il trofeo più importante di tutti a statistiche leggendarie come gli oltre 16.000 punti, 11.000 assist ed 8.000 rimbalzi fatti registrare, cifre-record che nessuna guardia nella storia è mai riuscita ad ottenere, senza poi contare le 1.795 triple piazzate in questi 17 anni, terza miglior statistica di sempre dietro ai soli Ray Allen e Reggie Miller.

E parliamo di un giocatore che non è mai stato conosciuto quale specialista esemplare nella disciplina tutta particolare chiamata tiro da dietro l’arco.

Le Finali 2011 sono quindi da leggere anche così, come un’altra storia tutta americana dal lieto fine sofferto, nella quale gli Dei del basket hanno deciso di premiare un giocatore di grande longevità atletica, da sempre dotato di quel qualcosa in più che differenzia i grandi giocatori dai campioni che nascono solo una volta ogni tanto. Un lieto fine più che meritato per un cestista all’avanguardia come Kidd, che il ruolo di point guard l’ha stravolto, reinventato, ed interpretato come mai nessuno aveva saputo fare.

6 thoughts on “Jason Kidd: non è mai troppo tardi per vincere

  1. Bell’articolo Dave, dedicato ad uno dei personaggi più carismatici di questi ultimi 15 anni di NBA…tra l’altro impressionante il suo curriculum con la nazionale americana, con la quale ha disputato mi sembra oltre 100 partite senza perderne mai una…giù il cappello di fronte ad un giocatore così.

  2. l’unico errore che vale la pena di sottolineare: ad ottobre, l’anello 2011 era già dato ai lakers che per i più non avrebbero avuto alcun ostacolo per un comodo repeat. Non agli heats di cui tutti sottolineavano la difficoltà di amalgama e la necessità di tempo

  3. Xandro

    Mi sembra che il record di Kidd con la nazionale sia di 34-0, con 2 ori olimpici nel 2000 e nel 2008, più le vittorie nei pre-olimipici

  4. Il maggior merito di Kidd è il duro lavoro che ha sempre svolto per migliorare i propri difetti.
    Ricordo un articolo su di lui di parecchi anni fa in cui si parlava di un’estate passata a tirare mille triple al giorno per costruirsi quel tiro da 3 che non aveva come altri tiratori naturali e che alla fine è risultato decisivo.
    E’ la conferma migliore del fatto che “se lavori duro il mondo ti premierà”

  5. Difficile fare un brutto articolo se parli di Jason Kidd!
    Uno dei miei primi poster NBA nei Mavs 1.0…Un Grande!

    Complimenti comunque!

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