Le palle perse: un aspetto da migliorare del gioco dei Mavs

Lasciamo sedimentare le emozioni di una delle più grand rimonte della storia del gioco, e proviamo ad analizzare a mente fredda alcuni degli aspetti tattici che hanno contraddistinto questa gara dai due volti, tenendo ben separati i primi 42 minuti di gioco, la partita vera e propria, dagli ultimi sei minuti di vera e propria follia agonistica, nel bene e nel male, da una parte e dall’altra.

I CANESTRI IN TRANSIZIONE DI MIAMI

Come ripetutamente sottolineato da Tranquillo e Buffa in telecronaca, il tema tattico della gara si può tranquillamente riassumere con una sola voce statistica: le palle perse di Dallas.

In sede di presentazione della serie si era da più parti sottolineato come i Mavs, molto portati a perdere il pallone a causa del loro sistema di gioco che impone meccanismi oliati ed esecuzioni perfette, dovessero assolutamente limitare i turnover contro una squadra come Miami, che si nutre, tecnicamente ed emotivamente, dei devastanti contropiede di James e Wade.

Detto fatto, per i primi tre quarti e mezzo di Gara 2 Dallas non ha fatto altro che regalare palloni su palloni ai padroni di casa, sanguinando di fronte agli squali con i numeri tre e sei, e finendo per farsi sbranare: 20 palle perse di squadra  (di cui 15 cosiddette “live ball“, in cui cioè il pal

lone passa direttamente nelle mani degli avversari, e non a gioco fermo, scatenandone ovviamente il contropiede), 16 opportunità di transizione per Miami da cui sono scaturiti 18 punti facili, all’interno dei due tremendi parziali di 7-0 e 13-0 che sembravano aver chiuso la gara a cavallo tra la fine del terzo e l’inizio del quarto periodo.

LE DIFFICOLTA’ DI DALLAS

I Mavs sapevano di dover fare qualcosa di differente rispetto a Gara 1, e Carlisle effettivamente ha presentato qualche novità significativa: innanzitutto la rinuncia alla difesa a zona, schierata soltanto per 4-5 occasioni in tutta la partita, e poi un utilizzo meno assiduo del pick and roll, per evitare l’asfissiante difesa in trap di Spoelstra, preferendo affidarsi più spesso a blocchi e tagli lontani dalla palla, per prendere alle spalle la difesa degli Heat in perenne movimento.

Tentativi che però non hanno portato ai risultati sperati, visto che la difesa di Miami ha stretto ulteriormente le proprie maglie, negando tiri facili in situazioni di spot up e gestendo con attenzione i taglianti, costringendoli a numerose palle perse.

Anche la difesa di Dallas si è mostrata meno efficace piuttosto che in Gara1, facendosi spesso “bucare” centralmente anche a difesa schierata, oltre alle già citate ed inevitabili schiacciate in contropiede.

Altra nota dolente, gravemente dolente per Dallas, è rappresentata dalle prestazioni balistiche della second unit.

Il terzetto Terry-Barea-Stojakovic, che aveva messo letteralmente a ferro e fuoco Lakers e Thunder, ha risposto al 4/21 dal campo e 3/10 da tre di Gara 1 con un insipido 7/18 (0/3 dalla lunga).

Il problema in Gara 2 non è stato solo quello di non segnare i tiri, ma addirittura quello di non riuscire nemmeno a prenderli: la difesa di Miami ha fatto uno straordinario lavoro nel “chasing” dei tiratori, spingendoli al di fuori delle loro zone di sicurezza.

Stojakovic, in particolare, è sembrato un vero e proprio pesce fuor d’acqua, un corpo estraneo che in 6′ di gioco non ha trovato nemmeno lo spazio per prendersi un tiro, facendosi peraltro martirizzare dall’altra parte con 6 punti concessi in un amen (tra cui il clamoroso rimbalzo offensivo con urlo belluino di Lebron e una irridente linea di fondo di Bosh): l’ottimo Peja non è noto per essere un cuor di leone, e quindi una sua resurrezione in Gara 3 è imprescindibile; se non riesce a rialzarsi subito, c’è il rischio che il suo contributo in questa serie sia sostanzialmente finito qui, e questa rappresenterebbe una grande vittoria per gli Heat.

Ritornando tra le mura amiche, più in generale, tutta la panchina di Dallas deve dimostrare di poter contribuire in modo determinante, punendo le rotazioni della difesa di Miami con continuità, altrimenti, nonostante l’inerzia emotiva della rimonta di Gara 1, gli Heat continueranno a tenere saldamente in mano il pallino di questa sfida.

I PROBLEMI DI MIAMI

I 42 minuti iniziali di Miami luccicavano parecchio, ma non potevano essere considerati, come insegna il proverbio, “tutto oro”.

Gli Heat hanno infatti abbandonato la grinta a rimbalzo che aveva contraddistinto la prima partita, permettendo a Dallas di ribaltare gli esiti di Gara 1 sotto i tabelloni: solo 16% di rimbalzi offensivi per gli Heat a fronte del 31% dei texani, in cui l’hanno fatta da padroni Marion e Chandler (sette in tutto in palloni catturati sotto il ferro altrui).

Inoltre, se abbiamo detto che i Mavs hanno mostrato una morbida difesa interiore, va detto che gli Heat non sempre sono riusciti a capitalizzare, sbagliando molto anche su tiri non particolarmente contestati: a fine gara il tabellino dice 15/22 al ferro, per un eccellente 68%, ma se togliamo a questo totale i 5 canestri segnati in contropiede, tra schiacciate e layup, le cifre si abbassano di dieci punti percentuali, con un mediocre 57%.

Il principale responsabile non può che essere individuato in Chris Bosh, che continua a litigare con il tabellone benché Dallas lo “battezzi” sostanzialmente ad ogni azione, lasciandolo libero di tirare dalla media e lunga distanza e non onorandolo mai con un raddoppio, nemmeno quando gli si presentano clamorosi mismatch in post basso con le marcature di Stojakovic e Kidd.

Il suo ruolino di marcia nelle Finals presenta un agghiacciante 5/21 complessivo nei tiri entro i tre metri dal ferro, un risultato semplicemente inaccettabile per un giocatore che ha la fisicità, il talento e soprattutto le opportunità per punire i Mavs ad ogni gara, e si distingue invece per esitazioni ed imprecisioni.

GLI ULTIMI MINUTI

Dopo la tripla di Wade per il +15, Dallas ha segnato 22 punti con 9-12 dal campo e 2-2 dalla lunga distanza, mentre gli Heat hanno messo assieme 5 punti con 1-11 dal campo e 1-7 da tre.

Da cosa sono stati determinati questi sei minuti e mezzo di nirvana offensivo da una parte e inferno dantesco dall’altra?

Iniziamo dall’inferno degli Heat, perché la spiegazione è estremamente semplice, e anche piuttosto comune: troppo spesso, infatti, le squadre NBA che godono di un comodo cuscinetto di vantaggio sul finire della partita abbandonano qualsiasi schema ragionato, pensando più a far correre i secondi piuttosto che la palla.

In questo modo, però, il cronometro che vorrebbero utilizzare come prezioso alleato diventa il loro peggior nemico, perché nessun attacco del mondo è in grado di costruire un buon tiro, partendo da fermo, in soli 7-8 secondi di gioco, e si finisce inevitabilmente per prendere un tiro dalla lunga distanza, che ha poche possibilità di entrare e molte di generare un rimbalzo lungo, che a sua volta invoglia al contropiede e restituisce energia e ritmo alla squadra rimontante.

E’ una situazione che l’anno scorso è costata un titolo ai Celtics in Gara 7, saldamente sotto controllo dopo i primi tre quarti, ma poi scivolata lentamente dalle loro mani con una pletora di long jumpers presi senza muovere minimamente la difesa, e si è ripresentata tale e quale c

on Wade e (soprattutto) LeBron che palleggiavano senza costrutto per 10-15 secondi, per poi inevitabilmente trovarsi a dover sparacchiare un tiro pressoché disperato.

Per quanto riguarda l’attacco dei Mavs, la risposta all’improvvisa esplosione offensiva va ricercata innanzitutto nei canestri facili in contropiede nati dagli errori di cui sopra, ma non si può non parlare dell’intuizione di Carlisle di utilizzare un doppio blocco o “stagger screen” per disinnescare l’asfissiante difesa di Miami sui giochi a due.

Gli Heat, come ormai è sin troppo noto, tendono ad “aggredire” il portatore di palla con l’uomo del bloccante, per impedirgli di “girare l’angolo” e costringerlo a palleggiare in arretramento e ad allontanarsi dal ferro, confidando nella sovrannaturale velocità di James e/o Wade sul lato debole e sulle impeccabili rotazioni difensive della squadra per non concedere un tiro facile.

 

 

 

Un rebus che si è rivelato irrisolvibile per i giochi a due di Boston, Chicago e della stessa Dallas in Gara 1, e quindi Carlisle ha deciso di introdurre lo “stagger”: oltre al classico blocco di Nowitzki, anche il secondo lungo porta un blocco al portatore di palla, mandando in cortocircuito i meccanismi difensivi dei padroni di casa: diventa infatti più complicato intuire, al volo, quale dei due lunghi Heat debba uscire sul portatore di palla, se quello del primo bloccante, quello del secondo, o entrambi, e soprattutto diventa ancora più improbo il compito dei due giocatori lontani dalla palla, visto che se difendere un quarto di campo in tre contro quattro è già molto complicato, farlo in due contro tre diventa quasi impossibile.

Per una analisi video di queste situazioni vi rimando al solito NBA playbook di Sebastian Pruiti, che le viviseziona in modo ineguagliabile.

IL TIRO DECISIVO

Ed eccoci al canestro conclusivo di Nowitzki: un mix di pura e semplice maestria del tedesco, inefficace difesa da pare di Chris Bosh, ma anche lucido, razionale, elegante playcalling da parte di Carlisle.

Nel disegnare quest’ultima azione, l’allenatore dei texani aveva bene in mente il fatto che nel momento decisivo della partita Spoelstra avrebbe affidato la marcatura di Terry a LeBron James, per togliere il Jet dall’equazione… e la contromossa di Carlisle è stata quella di utilizzare Terry non come protagonista, ma come “specchietto per le allodole” in modo da togliere, a sua volta, James dall’equazione, rendendolo uno spettatore del gioco anziché un protagonista.

La giocata si riduce essenzialmente ad un semplice blocco “pin-down” di Terry per Nowitzki, vale a dire un blocco che permette ad un giocatore che si trova sulla linea di fondo di “uscire” verso l’esterno.

In questo modo Terry disturba il movimento di Bosh, permettendo a Nowitzki una ricezione comoda, e quindi si allarga fino a toccare la linea laterale: a questo punto James è sotto scacco, perché non può più aiutare su Nowitzki a pena di concedere un facile tiro sullo scarico al suo uomo, ed è costretto ad assistere impotente: il tedesco va via a Bosh con un movimento di eleganza sopraffina, e chiude i conti con la mano sinistra infortunata.

httpv://www.youtube.com/watch?v=OUEE-IfNYBM

Riguardando il movimento da vicino, si può ammirare la purezza stilistica della giocata in “hesitation” del tedesco.

Palleggio di destro, spin move, palleggio di sinistro: è questo il momento decisivo, perché Nowitzki sposta gamba e spalla sinistra lontano dal ferro, come per uno dei suoi classici fadeaway, ma il suo compasso di gambe lo lascia ancora perfettamente centrato con il baricentro.

 

Bosh invece abbocca alla finta, spostando il peso del corpo e l’intero baricentro sul piede sinistro (più vicino a Nowitzki), per essere pronto a saltare e contestargli il tiro, proprio nel momento in cui il 41 riparte in palleggio e gli scivola via inesorabilmente.

httpv://www.youtube.com/watch?v=uv5UUuCBpN0

Un filmato da riguardare più e più volte, possibilmente godendoselo al rallentatore, frame per frame: gioco di gambe, equilibrio, proprietà in palleggio con entrambe le mani, il tutto condito dalla evidente credibilità del suo famigerato jumper buttandosi indietro sulla gamba destra, che parrebbe essere scientificamente immarcabile anche da un ipotetico mostro con i centimetri di Yao Ming e l’elevazione di Derrick Rose (guardare per credere).

Giù il cappello di fronte ad un grande della storia di questo gioco.

GLI AGGIUSTAMENTI

Gli Heat hanno ceduto la loro prima partita casalinga proprio nel momento e nel modo peggiore, e tocca a Spoelstra trovare gli aggiustamenti necessari per risalire la china e strappare subito il servizio ai Mavs nella  statisticamente decisiva Gara 3.

Così come alcuni degli aggiustamenti richiesti ai Mavs (il tiro da fuori dei suoi panchinari) non dipendono da Carlisle, la principale necessità di Spoelstra non dipende da lui: i suoi lunghi devono prendere più rimbalzi.

In Gara 2 Haslem ha catturato due rimbalzi difensivi, il 9% di quelli a disposizione (in carriera viaggia ben oltre il 20%, e nelle ultime due stagioni si è assestato su un eccellente 25%, che lo identifica come uno dei primi 30 rimbalzisti difensivi della lega), mentre Anthony ne ha portato a casa uno solo (che gli vale un miserrimo 5%, a fronte di una media in carriera dell’11-12%).

Si può dare di più, si deve dare di più, perché non si può concedere ad una squadra notoriamente anemica in questo settore di gioco il 31% dei palloni vaganti sotto al proprio tabellone, e non sempre l’atletismo degli esterni può sopperire alle mancanze dei lunghi, soprattutto contro una squadra così abile ad allargare il campo e quindi ad allontanare dal ferro ottimi rimbalzisti come James, Wade e Mike Miller.

Per quanto riguarda gli aspetti più propriamente tattici, Spoelstra dovrà innanzitutto individuare le contromosse al doppio blocco che abbiamo visto in precedenza, e che ha cambiato la partita per Carlisle.

Dovrà inoltre fare in modo che il suo attacco non si trovi nuovamente in situazioni statiche e asfittiche nei momenti cruciali della gara, ma qui ci sarebbe da aprire un discorso molto più ampio, che coinvolge principalmente LeBron James e la sua gestione di questo tipo di situazione: è veramente solo colpa degli allenatori se il Prescelto si trova spesso a giocare in 1vs5 nei momenti cruciali di una gara, o forse c’è anche il suo zampino nel rompere o rifiutare i giochi disegnati sulla carta?

In passato abbiamo visto molto spesso, soprattutto ai tempi di Mike Brown, giochi disegnati per generare una ricezione in movimento di LeBron in cui lui, anziché proseguire il movimento, si metteva a palleggiare fermando il gioco e trasformandolo, forzatamente, in un isolamento; anche in Gara 2, in effetti, abbiamo visto più volte in quei dolorosi ultimi possessi un abbozzo di movimento lontano dalla palla di alcuni suoi compagni “cancellato” da James che imponeva loro un posizionamento diverso.

Per il resto la situazione tattica generale continua ad essere favorevole a Spoelstra: la difesa degli Heat conferma di essere in grado di mettere molta pressione sui portatori di palla altrui, costringendoli a molti errori anche apparentemente non forzati, ma in realtà determinati dalla necessità di pensare molto più velocemente del solito contro una difesa che si muove molto più velocemente delle altre; l’attacco di Miami, per parte sua, continua a generare buoni tiri, che per ora Bosh non sta mettendo, ma la situazione potrebbe e dovrebbe cambiare presto, quantomeno per la classica “regression to the mean” statistica.

Forse sarebbe il momento di provare qualche quintetto a sorpresa, ed in particolare lo “small ball” con James in ala grande, che fino ad ora si è visto soltanto per due minuti nel secondo quarto di Gara 1 (peraltro regalando un parziale secco di +5), e per il resto non è mai stato riproposto.

12 thoughts on “Le Finals alla lavagna: Gara 2

  1. Concordo, la situazione tattica generale continua ad essere favorevole a Miami, più che altro perchè l’ attacco di Dallas è, direttamente o indirettamente, dipendente dalle mani di Dirk.
    Al contrario gli Heat possono contare su più soluzioni offensive (teoriche date dai numerosi miss match di Wade e LBJ) ma che non vediamo espresse ancora al massimo nel parquet.
    Io credo che la maturità per questa squadra si rivelerà il prossimo anno, con nuove soluzioni e schemi più oliati.

  2. Dico anche che è patetico vedere la pochezza di schemi disegnati per Bosh, l’ unico lungo di Miami co punti nelle mani, che si ritrova di fatto a prendersi tiri sugli scarichi o al massimo giocare qualche P&R con Wade.

    • è vero che non ci sono molte soluzioni pensate specificamente per Bosh nell’attacco di Miami, ma va anche detto che prima di poter pretendere chiamate ad hoc dovrebbe iniziare a mettere con continuità i tiri FACILI a sua disposizione e che sta sbagliando con allarmante frequenza.

      aiutati che il ciel t’aiuta, insomma

  3. Gustosa l’idea di Carlisle per neutralizzare l’ “hedge”degli Heat; ricorda molto quegli “stagger screen” fra Howard e Lewis con cui i Magic arrivarono in finale (chiedere a Mike Brown per dolorosa conferma), in cui era Lewis ad allargarsi sul perimetro dopo aver bloccato, spiazzando la difesa. Offensivamente, la gestione della coppia Lewis-Howard da parte di Van Gundy, potrebbe dare più d’uno spunto ai Mavs per sfruttare dinamicamente Dirk-Tyson…

    Sull’ultimo possesso chiave dei Mavs, è degna di nota anche l’azzardata difesa di LeBron (troppo preoccupato di frenare l’uscita di Dirk con un “bump”): riguardando la sua marcatura su Terry, considerando la situazione di punteggio in parità ed il fatto che la palla era in mano ad un certo Kidd, sarebbe riuscito a tenere “il Jet” se questi avesse “slippato” il blocco tagliando verso il ferro? Anche quando Dirk riceve, James si gira troppo con i piedi verso la palla, “offrendo” per un attimo il back-door a Terry (che probabilmente non lo sfrutta per restare fedele al copione previsto da Carlisle, ma se avesse improvvisato un taglio al ferro…).

    L’affondo di Dirk (come l’eventuale back-door di Terry), ha messo in evidenza la debolezza della difesa Heat quando gioca con Haslem centro: tanto “hustle”, tanto “mestiere”, ma poca verticalità ed intimidazione nel chiudere sulle penetrazioni, specialmente se perpetrate da un sette piedi (un Dampier o un Magloire, solo in questi casi, possono valere oro…).

    E se sul campo di Dallas si riaffacciasse anche un certo Butler…?

    P.S. Concordo con aledionigi: comunque vada a finire quest’anno, gli Heat hanno calibrato bene soprattutto la difesa, ma se in off-season continuano a smussare l’attacco (si, anche coinvolgendo Bosh oltre a rimasugli in “catch n’ shot”), la prossima stagione saranno spietatamente competitivi, ai limiti dell’ “illegale”…

  4. ohhhhh finalmente un articolo “colto”, ricco, interessante, mai banale e soprattutto scritto con stile… mi sono dovuto consolare leggendo gli altri articoli nel corso di questi 2 giorni, ma sono stato abbondantemente ripagato per l’attesa.

    continua così, BRAVO!

  5. Infatti Fletcher questo è l’ unico problema irrisolvibile… o meglio ora irrisolvibile.
    Mi spiego meglio: Bosh è si è rivelato un corpo estraneo a queste finals, sbagliando tiri troppo facili, risultando a volte imbarazzante.
    Tuttora Miami può solo sperare che sbagli il meno possibile… ma cosa poteva fare Miami in preparazione delle Finals per evitare una alienazione di Bosh?
    Ecco secondo me doveva dargli più strumenti in mano, oltre a punire i raddoppi… da giocatore di dico che (purtroppo) mi è capitato di viverlo in prima persona, sia errori miei che dei miei compagni.
    Quando non ti mettono in ritmo con le tue soluzioni finisci poi per sbagliare anche quelle più banali (succede anche il contrario: quante volte un giocatore entra “in the zone” e fa cose che non appartengono al suo bagaglio cestistico?) ecco Bosh per colpa sua e non solo ora si trova completely Out of the zone; vedremo se riuscirà a cambiare questo trend.

  6. Vero che Bosh si stia rivelando a tratti imbarazzante per scelte e tiri sbagliati.
    Il discorso secondo me interessante è che questa situazione si è venuta a creare, oltre che per errori del giocatore, per errori di tutta la squadra compreso lo staff tecnico per quanto detto sopra.
    Ora vorrei sollevare una domanda: secondo voi cosa dovrebbe fare ora Miami?
    Provare a cambiare stile di gioco con qualche isolamento in più per Bosh è più un rischio che altro, per due motivi:

    – gli isolamenti abbiamo visto che sono il male peggiore di questa squadra quindi aggiungerne altri è sbagliato
    – se Bosh non risponde bene a questo tipo di sollecitazioni è la volta buona che sparisce ancora di più

    Quindi che fare? sperare che prima o poi li metta? :-P
    E’ qui che bisognerebbe chiamare in causa Wade, LBJ o un play (se ce l’ avessero) e non chiamarli in causa per situazioni che si vengono a creare dove loro non ne sono la colpa ma fanno semplicemente parte del gioco (tipo gli ultimi 5 minuti di gara 2)

  7. …secondo me non cè un favorito per gara 3…vincerà chi avrà più contributo dalle due variabili negative che si sono viste nelle prime due gare… pochi punti dalla panca dei Mavs, Bosh pressochè spettatore per gli Heat…

  8. Fletcher, non deludi mai: bell’articolo per intenditori che vogliono disintossicarsi da altre discussioni animate da un approccio campanilistico a questo magnifico sport.
    Geniale mossa da scacchista di Carlisle che con il suo reiterato doppio blocco ha smantellato le difese Heat aggiudicandosi prodigiosamente gara2.
    Spolestra ed il suo staff staranno sviluppando contromosse adeguate, quindi dubito che il giochino possa riuscire in maniera così devastante anche nei momenti decisivi di gara3.
    Altra partita, altre strategie. Vediamo cosa cosa ci regaleranno i prossimi atti di questa affascinante serie…

  9. Bisogna però tenere conto che per essere cecchini bisogna anche essere messi “in ritmo” (vedi lo stesso Bosh contro Boston).

    Guardatevi le statistiche di tiri tentati da Bosh,
    – con Wade e LeBron in campo
    e
    – con la second unit

    Con tutti i tre schierati, difficilmente supera i due tentativi a quarto, questo la dice mooolto lunga:
    è la terza opzione in una squadra che ne contempla solo due…

  10. mamma mia che articolo stupendo e interessante… continua così!!! (mi son andato a rileggere i vecchi articoli pubblicati da quanto mi hai fatto un’ottima impressione!)

  11. Gira una frase che recita che gli attacchi vendono i biglietti e le difese vincono i titoli.
    A mio avviso servono entrambi in egual misura e importanza.
    Tolto questo appunto, perdere una partita come hanno fatto gli Heat nell’ultimo quarto avvalora la tesi che senza attacco non vendi nè i biglietti ne tantomeno vinci le partite.
    Non credo che Dallas, con tutti i suoi meriti, sia riuscita ad alzare una difesa talmente “invalicabile” da non poter permettere a Miami di non riuscir a mettere punti negli ultimi 7 minuti invece di “scegliere” soluzioni estemporanee accompagnate da tiri da 3 avvenuti su possessi prolungati.
    Non un gioco ragionato, non uno schema, nessun passaggio, nessuna rotazione per cercare un tiro piazzato.
    Come buttare una partita.

    “Iniziamo dall’inferno degli Heat, perché la spiegazione è estremamente semplice, e anche piuttosto comune: troppo spesso, infatti, le squadre NBA che godono di un comodo cuscinetto di vantaggio sul finire della partita abbandonano qualsiasi schema ragionato, pensando più a far correre i secondi piuttosto che la palla”.
    Per un verso ci può stare. Per l’altro verso sembrerebbe riduttivo per quello che si è visto.

    Brava Dallas a non demordere e “ritrovare” nel momento importante la sua stella, un gran Marion e un “importante” Terry.

    “Giù il cappello di fronte ad un grande della storia di questo gioco”. :-)

    Complimenti per l’articolo.

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