San Antonio è tornata a vincere grazie alle scorribande di Tony Parker

SAN ANTONIO “INSIDE OUT”

La giocata decisiva che ha permesso agli Spurs di tenere a bada i tignosi Grizzlies in gara 2 riassume efficacemente cosa è cambiato rispetto alla loro inopinata sconfitta di gara 1.

Un caposaldo dell’attacco degli Speroni è infatti rappresentato dall’insistenza nell’attaccare aggressivamente il pitturato con i propri esterni, non solo e non tanto per prendere un tiro da sotto ad ogni costo (specialità in cui peraltro Parker e Ginobili sono a livelli di eccellenza), quanto in vista di uno scarico all’ultimo momento utile a favore di uno dei giocatori appostati dietro l’arco del tiro da tre, generando una comoda tripla dalla lunga distanza direttamente sullo scarico o eventualmente dopo un rapido “giro-palla” sul perimetro.

httpv://www.youtube.com/watch?v=nHsmQ6n7mY4

Il segreto del funzionamento di questo meccanismo, che i ragazzi di Pop hanno elevato a vera e propria arte, sta nella freddezza e lucidità del penetratore, che deve ritardare lo scarico fino all’ultimo momento utile, quando il maggior numero possibile di avversari è ormai concentrato e “obbligato” (“committed“, come dicono gli amerregani) esclusivamente a difendere il ferro dall’assalto del penetratore, dando le spalle al proprio uomo sul perimetro e quindi rendendo di fatto impraticabile un recupero sul medesimo in tempi brevi.

Nel video di cui sopra è evidente come ben tre giocatori dei Grizzlies (Battier, Mayo e il rientrante Gasol) siano concentrati esclusivamente su Tony Parker attendendosi una sua conclusione in prima persona, dando le spalle a Jefferson e quindi consentendogli il più comodo dei piazzati.

La giocata, come detto, è emblematica, non tanto per il fatto che sia riuscita perfettamente (gli Spurs hanno costruito decine e decine di azioni del genere nel corso di questa eccellente stagione), quanto per il fatto che in gara 1, al contrario e sorprendentemente, non era riuscita quasi mai: i difensori dei Grizzlies in quell’occasione si erano mostrati molto attenti e preparati a non “regalare” uno scarico al penetratore, ma soprattutto gli attaccanti degli Spurs non avevano quasi mai mostrato la pazienza e la lucidità imprescindibili per questo tipo di giocata, mostrando una inusitata tendenza ad affrettare la conclusione (con esiti prevedibilmente scarsi, anche considerando la potente frontline di Memphis).

Probabilmente non è un caso che questa ritrovata compostezza coincida con il rientro di Ginobili, vero e proprio cuore pulsante della squadra ma soprattutto maestro assoluto di questo tipo di giocata, grazie al suo palleggio sincopato che non lascia mai intuire all’avversario le sue intenzioni.

LE “KILLAH BEES” ABBATTONO GLI HORNETS

Nella seconda sfida tra L.A. e New Orleans ha giocato un ruolo determinante, contro i “calabroni” della Louisiana, la prestazione delle “api” californiane, vale a dire (in ossequio ad un agghiacciante gioco di parole coniato da Matt Barnes), il terzetto di riserve composto dalle tre “B” Blake-Brown-Barnes.

Un gruppo di esterni che in tutta la stagione ha rappresentato la classica croce e delizia per i tifosi losangelini, alternando valide prestazioni ad amnesie incomprensibili, e che in gara 2 ha fatto la differenza grazie ad un’arma tattica alquanto indigesta per gli Hornets: i ritmi alti.

Si sa che la squadra di New Orleans ama giocare a passo lento e trova molto più difficile affrontare avversari che tengono il piede sull’acceleratore: per loro fortuna, la strutturazione classica dei Lakers non è incline ai ritmi alti, un po’ per la presenza di numerosi trentenni ed ultratrentenni, un po’ per la padronanza del triangolo e del gioco a metà campo, che si adatta meglio alle loro caratteristiche tecniche; il secondo quintetto con le tre B sugli esterni e l’istintivo Odom in ala grande è invece molto più a suo agio con la corsa e il contropiede che con l’attacco ragionato a metà campo, e in gara 2, per una volta, ha sfruttato al meglio questa caratteristica, correndo a tutto spiano non appena se ne presentava l’opportunità.

Qualche numero può rendere l’idea meglio di mille parole: in tutta la partita i Lakers hanno avuto a loro disposizione 83 possessi, sintomatici di una gara giocata a ritmo complessivamente molto basso (la media in questi playoffs si aggira attorno ai 90 a partita, e solo la prima sfida tra Portland e Dallas, fino a questa sfida, era stata giocata ad un ritmo altrettanto letargico).

In realtà, quando le “killer bees” sono scese in campo, hanno sfruttato ben 18 di quei possessi negli 8 minuti giocati a cavallo tra  il primo e il secondo quarto, e altri 8 possessi nei cinque minuti iniziali del quarto periodo.

Complessivamente, quindi, i quintetti “tradizionali” guidati dal lentopede Fisher hanno viaggiato ad un ritmo lentissimo di 1.3 possessi al minuto (che, tradotto su una intera partita, equivarrebbe ad una cifra clamorosamente bassa di soli 62 possessi), mentre il quintetto da corsa guidato (egregiamente) da Blake ha viaggiato al ritmo di 2 possessi al minuto, equivalente a 96 possessi a partita (vale a dire il ritmo della squadra più “attiva” di questi playoffs, i Denver Nuggets).

Il tutto piazzando due parziali rispettivamente di 9-1 a fine primo quarto e 9-0 all’inizio della quarta frazione che hanno prima riportato i Lakers in parità e poi chiuso definitivamente la gara.

Il fatto che le riserve dei Lakers vincano una partita, anziché sprecare miseramente un vantaggio acquisito dai titolari, è una novità e una rarità: resta da vedere se la si debba considerare una aberrazione temporanea o se siano in grado di riprodurre questo “esperimento” anche in altre occasioni, anche in trasferta, senza il “carburante” del pubblico amico.

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