Ecco le new entry del 2011 nela Hall Of Fame

Poche ore fa, prima che si svolgesse la Finale del torneo NCAA tra le università di Butler e di Connecticut, sono stati annunciati i nomi delle 10 persone che entreranno a far parte della Naismith Hall of Fame, nel prossimo mese di agosto.

La cerimonia degli ingressi è un evento che si verifica ogni anno, e che mantiene inalterato il proprio fascino: si tratta di dare uno spazio ed un riconoscimento a chi ha scritto la storia del basket, non necessariamente come giocatore e non necessariamente come facente parte della NBA.

Giocatori, allenatori, arbitri, dirigenti, sia uomini che donne, di ogni nazionalità, possono trovare il proprio posto all’interno dell’ “Arca della Gloria”. E noi di playitusa siamo qui per tracciare un profilo delle persone che ne entreranno a far parte tra sei mesi.

Partiamo dunque, e cominciamo con…

DENNIS RODMAN: uno dei personaggi più controversi della storia NBA, nonchè uno dei migliori difensori e rimbalzisti. Ma, soprattutto, un vincente: magari non è mai stato la principale stella nelle squadre in cui ha giocato, eppure ha sempre lasciato il segno grazie alla sua durezza fisica e mentale.

Alto 198 centimetri per 98 chili di peso, Rodman ha ricoperto principalmente il ruolo di ala grande ed è stato un attaccante mediocre, che segnava più che altro grazie a comodi appoggi a canestro e raramente grazie ad un movimento in post basso o ad un tiro dalla media distanza.

Quando si trattava di difendere il proprio canestro, invece, diventava una belva feroce, pronto ad azzannare gli avversari in qualsiasi punto del campo e ad abbrancare rimbalzi grazie ad un senso della posizione più unico che raro. E aveva anche doti fisiche notevoli: pur essendo piuttosto basso per il ruolo, era dotato di un fisico compatto e reattivo, che gli ha consentito di vincere per ben 7 volte il premio di miglior rimbalzista e per 2 volte il premio di miglior difensore dell’anno.

A questi successi individuali vanno aggiunti gli importanti risultati raggiunti con le tre squadre in cui ha militato: Detroit Pistons (1986-1993), San Antonio Spurs (1993-1995) e Chicago Bulls (1995-1998). Egli ha vinto cinque titoli (1989, 1990, 1996, 1997 e 1998), ed ha anche giocato una Finale (1988) più tre finali di Conference perse (1987, 1991 e 1995), per un totale di 169 partite di play-off. Impressionante.

Al di là di ciò che ha fatto sul terreno di gioco, Rodman è stato anche un personaggio incredibilmente affascinante e capace di catalizzare su di sè l’attenzione. Gli aneddoti su di lui si sprecano, dalla rivalità con Karl Malone ai vestiti da donna indossati in occasioni pubbliche, per non parlare dei look stravaganti e dei due tentativi di suicidio.

Oggi, a 50 anni, ottiene questo riconoscimento prestigioso e assolutamente meritato. E’ giusto ricordarlo come un grande personaggio, ma non scordiamoci dell’incredibile giocatore che è stato. Semplicemente, uno dei migliori difensori e rimbalzisti nella storia del basket.

CHRIS MULLIN: nell’età d’oro che comprende gli anni ’80 e i ’90, Chris Mullin ha recitato un ruolo sicuramente importante, affermandosi come uno dei giocatori più forti della NBA di quel periodo storico.

Nato il 30 luglio del 1963 a New York, Mullin ha ricoperto il ruolo di ala piccola ed era uno specialista nel tiro. Sapeva tirare bene dalla media distanza, da 3 (38% in carriera) e anche ai liberi (86%), ma non era un giocatore monodimensionale. Era anche un ottimo ladro di palloni ed un buon assist-man e rimbalzista. Insomma, un giocatore piuttosto completo, che non è mai arrivato ai livelli dei più grandi campioni ma che ha comunque fornito il suo importante contributo.

La sua carriera è legata perlopiù ai Golden State Warriors, che puntarono su di lui come settima scelta nel draft del 1985. Egli giocherà coi Warriors fino al 1997, dopodichè passerà, ormai 34enne, agli Indiana Pacers, per dare la caccia al titolo.

E’ proprio con i Pacers che Mullin si leva le maggiori soddisfazioni a livello di risultati: nelle tre stagioni dispustate ad Indianapolis, infatti, egli gioca 2 finali di Conference (nel 1998 e nel 1999) ed una Finale NBA nel 2000, senza riuscire mai ad infilare l’anello al dito. Da notare che con i Warriors non era mai andato oltre il secondo turno di play-off in 12 anni di onorato servizio.

Le sue più grandi soddisfazioni in carriera rimangono le due medaglie d’oro olimpiche, conquistate nel 1984 e nel 1992 come membro del Dream Team. Inoltre, ha partecipato a 5 All-Star Game consecutivi (dal 1989 al 1993), e dopo aver ricoperto la carica di General Manager nei Warriors è diventato un commentatore televisivo per la ESPN, ruolo che svolge tuttora.

ARVYDAS SABONIS: uno dei migliori giocatori europei nella storia del basket: con queste semplici parole può essere descritto Arvydas Sabonis. Egli è stato un imponente centro, alto 221 centimetri per 135 chili di peso, bravissimo sia in attacco che in difesa e dotato di una rara tecnica per avere un fisico del genere.

La sua storia è a dir poco appassionante, e non basterebbe un articolo intero per narrarla. Ci limitiamo alle tappe principali: Sabonis nasce a Kaunas nel 1964, ed inizia a giocare a basket soltanto a 13 anni, nel 1977. Ben presto però dimostra di avere doti fisiche e tecniche di alto livello, che gli consentono di recuperare il tempo perduto e di diventare professionista con la maglia del “suo” Zalgiris Kaunas, la squadra della città in cui è nato.

Con la maglia del Kaunas gioca per ben 8 anni, dal 1981 al 1989, vincendo 3 campionati sovietici consecutivi (1985-1986-1987) ed una coppa Intercontinentale (1986). Si trasferisce poi a Valladolid per tre stagioni, dal 1989 al 1992, e da qui al prestigioso Real Madrid, dove rimarrà altri tre anni e vincerà due campionati spagnoli (1993-1994), una coppa di Spagna (1993) e, per chiudere in bellezza, una coppa dei Campioni (1995).

Dopo questi trionfi, raggiunti ormai i 30 anni, Sabonis ritiene di essere pronto a sbarcare nella NBA. Siamo nel 1995, ed egli approda ai Portland Trail Blazers, dove rimarrà fino al 2001. In America si toglie grandi soddisfazioni, come quella di limitare il più forte Shaquille O’Neal di sempre nella serie che vede contrapposti Blazers e Lakers nel 2000.

Nel 2001 torna in Europa, ancora una volta con il Kaunas, e si toglie ancora delle soddisfazioni, vincendo altri due campionati lituani (2004 e 2005) e una Lega Baltica (2005). Bene, come avete visto Sabonis ha vinto molti titoli in Europa e ha avuto una dignitosissima carriera in America: passiamo al prossimo personaggio introdotto nella Hall of Fame?

No, perchè c’è una strepitosa carriera a livello di nazionali da segnalare! Egli giocò con l’Unione Sovietica nel periodo che va dal 1982 al 1991, per poi vestire la maglia della Lituania dal 1991 al 2001, a causa degli avvenimenti politici di quel periodo.

Con l’Unione Sovietica vinse un Mondiale (1982), un Europeo (1985) e un’Olimpiade (1988), ma colse anche altri risultati prestigiosi come l’argento nel Mondiale del 1986 e i due bronzi agli Europei del 1983 e 1989.

Con la Lituania, invece, non vinse alcuna competizione, ma aggiunse al proprio incredibile albo d’oro altre tre medaglie: due di bronzo olimpiche (1992 e 1996) e una d’argento agli Europei del 1995. Direi che può bastare…

ARTIS GILMORE: forse il suo nome non dirà moltissimo agli appassionati della NBA, ma sicuramente dirà molto a chi conosce l’ABA, ovvero la Lega di basket che cercò di diventare la più popolare in America negli anni ’70. Bene, Gilmore è stato una stella dell’ABA e un buonissimo giocatore anche in NBA.

Artis Gilmore nacque il 21 settembre 1949 a Chipley, nello Stato della Florida. Si segnalò già ai tempi del college, quando giocò per due anni con il Gardner-Webb Junior e altri due anni con la Jacksonville University, affermandosi come uno dei migliori centri degli Stati Uniti. In particolare, a Jacksonville raggiunse la finale nazionale nel 1970, ma lui e i suoi compagni vennero battuti dai leggendari UCLA Bruins, guidati da Kareem Abdul-Jabbar e dall’allenatore John Wooden.

Questa sconfitta non precludeva alcuna possibilità al ragazzo, che nel corso degli anni universitari aveva dimostrato le sue doti a tutto tondo. Gilmore era un ottimo attaccante, un grande rimbalzista e stoppatore, ed era dotato di un fisico longilineo (218 centimetri per 110 chili). La NBA mise subito gli occhi addosso a questo fenomenale prospetto, che venne scelto con la 117° chiamata del draft 1971 dai Chicago Bulls.

Ma il ragazzo, all’epoca 22enne, aveva altri piani. Siamo negli anni ’70, quando esisteva anche un’altra Lega professionistica molto competitiva, l’ABA (American Basketball Association). E i dirigenti della Lega non avevano alcuna intenzione di lasciarsi scappare questo sensazionale centro, soprannominato “A-Train”.

Gilmore firmò quindi un contratto con i Kentucky Colonels, e divenne in breve tempo uno dei giocatori meglio pagati di tutta l’ABA. La sua carriera con i Colonels, per i quali giocò dal 1971 al 1976, fu semplicemente incredibile, sia a livello individuale che di squadra.

Per quanto riguarda i risultati di squadra, egli vinse il titolo nel 1975, venendo nominato MVP dei play-off di quell’anno. Inoltre, condusse i suoi compagni ai play-off in tutti e 5 gli anni, perdendo una finale assoluta nel 1973 e una finale di conference nel 1974.

A livello individuale, si affermò come una delle maggiori stelle della Lega. Nel 1972 venne eletto contemporaneamente MVP della stagione regolare e rookie dell’anno, e partecipò per tutto il quinquennio agli All-Star Game. Infine, venne inserito nel primo quintetto assoluto e nel primo quintetto difensivo per tutte le stagioni disputate con Kentucky. E risultò essere il miglior rimbalzista in 4 occasioni e il miglior stoppatore in 3. Insomma, era un giocatore dominante.

Ciò che colpiva era la sua incredibile resistenza fisica. Tra ABA ed NBA, infatti, “A-Train” giocò la bellezza di 670 (!!!) gare consecutive, senza mai saltarne una per infortunio o per riposarsi oppure per squalifica o chissà quale altro motivo.

Una volta che l’ABA chiuse i battenti nel 1976, Gilmore andò a giocare nella NBA. Stavolta non venne chiamato con la 117° chiamata, come era avvenuto nel 1971, ma con la prima chiamata assoluta, sempre dai Chicago Bulls. Alle sue spalle vennero scelti grandi giocatori come Maurice Lucas e Moses Malone.

Ma la sua carriera NBA non fu così ricca di soddisfazioni come quella disputata nell’ABA. Egli confermò le sue grandi doti di realizzatore e rimbalzista, viaggiando sempre vicino ai 20 punti e ai 10 rimbalzi di media, oltre ad un paio di stoppate, ma non risultò dominante come era stato nei suoi primi cinque anni da professionista.

Egli trascorse 6 stagioni ai Bulls (dal 1976 al 1982) e 5 ai San Antonio Spurs (dal 1982 al 1987), durante i quali raggiunse soltanto una finale di conference nel 1983, persa per 4-2 contro i Lakers dello Showtime. Disputò poi, a 39 anni, la sua ultima stagione con la maglia dei Boston Celtics, i quali uscirono anch’essi in finale di conference contro i Detroit Pistons, sempre con il risultato di 4-2.

Ad ogni modo, quando si parla di grandi centri bisogna nominare anche Artis Gilmore tra di essi. Non ha mai raggiunto il successo di Bill Russell, di Wilt Chamberlain, del suo rivale Kareem Abdul-Jabbar e di altri ancora, ma ha sicuramente impresso il proprio nome nella storia.

TERESA EDWARDS: secondo la rivista “Sports Illustrated”, Teresa Edwards è semplicemente la seconda giocatrice di basket più forte di sempre, dopo la sola Cheryl Miller. Si tratta di una guardia, alta 174 centimetri per 65 chili di peso.

Il nome della Edwards non poteva mancare nella Hall of Fame, visti i tanti successi conseguiti in giro per il mondo. Con la nazionale americana essa ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi per ben 4 volte (nel 1984, 1988, 1996 e 2000) e, per una volta, la medaglia di bronzo (nel 1992).

Nata il 19 luglio del 1964, essa iniziò la propria carriera universitaria nel 1982 alla University of Georgia, e completò gli studi rimanendovi fino al 1986. Nel corso di questo periodo, guidò la propria squadra a due Final Four del torneo NCAA, anche se non riuscì mai a vincere il titolo nazionale.

Come se non bastassero le 4 medaglie d’oro olimpiche, essa è stata protagonista anche dei titoli mondiali vinti dagli Stati Uniti nel 1986 e nel 1990. A livello di club, invece, ha avuto una carriera atipica, dal momento che dopo aver terminato gli studi nel 1986 si è recata in Italia, Francia, Spagna e Giappone per giocare nei rispettivi campionati, invece di rimanere in America.

Nel 1995 è rientrata in patria per giocare nella ABL (American Basketball League), mentre nel 1999 si è chiusa la sua carriera all’età di 34 anni. Da qualche anno ricopre il ruolo di allenatrice.

REECE TATUM: si tratta di un giocatore un po’ atipico, nel senso che il suo nome è legato più che altro alla squadra-spettacolo degli Harlem Globetrotters. Tatum è morto molti anni fa, nel 1967, all’età di 45 anni.

Grazie alla sua imponente statura (210 centimetri) egli si dilettava in giocate altamente spettacolari ma soprattutto spiritose, tanto è vero che all’interno dei Globetrotters ricopriva il ruolo di “clown prince” , ovvero “principe dei clown”, cioè colui che aveva lo scopo di divertire il pubblico e non tanto di eseguire gesti atletici notevoli come facevano gli altri suoi compagni.

Tra le altre cose, sembra che sia stato proprio Tatum a rivelare al mondo con una certa continuità il famoso movimento “gancio cielo”, reso celebre alcuni anni più tardi dal leggendario Kareem Abdul-Jabbar, e tuttora considerato uno dei movimenti più immarcabili che possa essere eseguito da un giocatore di pallacanestro.

TEX WINTER: “meglio tardi che mai, finalmente si sono decisi ad introdurre Tex nella Hall of Fame. Ma sono in grande ritardo, doveva entrarci già molti anni fa”. Il commento è di Kobe Bryant, che con Tex Winter ha lavorato per 8 stagioni (dal 1999 al 2007). E in effetti non mi sento di dargli torto, data la carriera sessantennale (SESSANTENNALE) come allenatore di questo 89enne.

Winter nasce il 22 febbraio 1922, e inizia ad allenare in età giovanissima. A 29 anni riceve il suo primo incarico all’università di Marquette, dove resterà due anni prima di approdare a Kansas State, che guiderà per ben 15 stagioni consecutive, dal 1953 al 1968. Sempre a Kansas State si toglierà le maggiori soddisfazioni, con due Final Four raggiunte nel 1958 e nel 1965, due qualificazioni Final Eight nel 1959 e nel 1961 e, infine, due qualificazioni alle Sweet Sixteen nel 1956 e nel 1968.

Da lì si spostò all’università di Washington, dove rimase per 3 anni prima di approdare agli Houston Rockets, l’unica squadra NBA da lui mai allenata. Con i Rockets raggiunse risultati piuttosto modesti, dato che in due anni colse un record di 51 vittorie e 78 sconfitte, ma di certo non aveva una grande squadra a disposizione, dato che erano quasi tutti giovani.

Dopo la parentesi nella NBA, Winter riprenderà ad allenare all’università: prima a Northwestern (dal 1973 al 1978), poi a California State – Long Beach (dal 1978 al 1983) e, infine, svolse per due anni il ruolo di assistente allenatore a Louisiana State, fortemente voluto dal grande coach Dale Brown al suo fianco.

Nel 1985 egli pensò di ritirarsi, dato che aveva 63 anni ed allenava ininterrottamente da 38. Eppure, il destino scelse in modo diverso. Un suo grande amico infatti, Jerry Krause, proprio nel 1985 divenne il nuovo General Manager dei Chicago Bulls, e chiamò Winter per farlo entrare nella squadra come assistente allenatore.

Quest’ultimo accettò l’offerta, rinviando i progetti di ritiro, e ricoprì l’incarico ai Bulls per ben 15 anni, dal 1985 al 1999. Nei primi tre anni di permanenza a Chicago non veniva preso molto in considerazione dai due capo allenatori che si erano succeduti (Stan Albeck e Doug Collins), ma con l’avvento di Phil Jackson come capo allenatore tutto cambiò.

Jackson era rimasto molto affascinato dal sistema di gioco di Winter, chiamato “Triple-Post Offense”, che lo stesso Winter aveva ereditato dal suo allenatore ai tempi dell’università, Sam Berry. Jackson diede grandi poteri al suo assistente, consentendogli di dirigere gli allenamenti e chiedendogli continuamente consigli nel corso delle partite. Inoltre, Winter aveva la libertà di intervenire quando voleva, cosa che non gli era mai stata permessa in passato.

I Bulls vinsero 6 titoli con Phil Jackson in panchina, e il contributo di Tex fu incredibilmente importante in quegli anni. Così come fu importante dal 1999 al 2007 in quel di Los Angeles. Dopo essersene andato dai Bulls nel 1998, infatti, Jackson accettò l’offerta dei Lakers, e chiese al suo amico di seguirlo in quella nuova avventura.

Nonostante i 77 anni d’età, Winter accettò la richiesta e mostrò ancora una volta il suo immenso amore per il basket. Semplicemente, non riusciva a stare lontano dal campo di gioco. Con lui a fare da assistente, i Lakers vinsero i 3 titoli dell’era targata Kobe Bryant & Shaquille O’Neal. Nel 2007, a seguito di un arresto cardiaco, Winter fu costretto a lasciare il proprio lavoro, all’età di 85 anni.

In pratica, parliamo di un uomo che dal 1947 al 2007, ovvero per 60 anni precisi, non si è mai riposato neanche per una stagione. Ha fatto l’allenatore, l’assistente, il consulente, l’osservatore…tutto. E lo ha fatto per decenni, raggiungendo grandi risultati. Non serve nient’altro che raccontare la sua storia per onorarlo come si deve.

E per quanta gente innamorata del basket possa esistere in giro per il mondo, difficilmente ne troveremo mai uno così innamorato del gioco com’è lui.

HERB MAGEE: se a Philadelphia chiedete di lui, difficilmente ci sarà qualcuno che non saprà rispondervi. Eh sì, perchè Magee è l’allenatore dell’università locale da ben 45 anni (dal 1967 ad oggi), ed ha giocato per l’ateneo dal 1962 al 1967, anno in cui è diventato l’allenatore della squadra.

Insomma, una vera e propria istituzione. E’ quasi impossibile trovare una persona che abbia legato così tanto la propria vita allo stesso ambiente, eppure questo leggendario allenatore lo ha fatto, e anche in grande stile.

Egli è infatti il coach più vincente nella storia del basket collegiale americano, grazie a ben 922 vittorie conseguite insieme ai suoi ragazzi: il sorpasso è avvenuto ai danni di un’altra leggenda della panchina, Bobby Knight, il 20 febbraio del 2010. E, giustamente, a 69 anni i vertici della pallacanestro hanno voluto inserirlo nella Hall of Fame, visto e considerato che ha anche vinto un torneo nazionale nel 1970 ed ha guidato Philadelphia per ben 25 volte alla qualificazione per la competizione nazionale.

Una delle specialità di Magee è l’allenamento del tiro, tant’è che molti giocatori anche affermati in NBA si sono rivolti a lui per migliorare le proprie capacità in questo fondamentale. Qualche nome? Charles Barkley, Malik Rose, Sebastian Telfair, Jameer Nelson, e da ultimo Evan Turner…insomma, il rispetto di questi giocatori vorrà pur significare qualcosa, no?

TARA VANDERVEER: nel 2002 questa allenatrice venne introdotta nella Hall of Fame del basket femminile…ora entrerà a far parte della Hall of Fame più prestigiosa, e con pieno merito.

Tara VanDerveer nasce il 26 giugno del 1953 a Boston, e gioca per l’Università di Indiana dal 1972 al 1975. Dopo aver finito il college, inizia subito la sua carriera di allenatrice universitaria, e il primo incarico arriva nel 1978 all’università di Idaho. Da qui passa ad Ohio State nel 1980, e vi rimane fino al 1985, anno in cui si stabilisce definitivamente alla Stanford University, della quale è ormai da 26 anni l’allenatrice.

La VanDerveer ha guidato Stanford alla vittoria di due titoli NCAA (nel 1990 e nel 1992) e a 6 Final Four (1990, 1991, 1992, 1995, 1997 e 2009), mantenendo quasi intatta la competitività della squadra. Naturalmente Stanford se la tiene stretta, dati gli ottimi risultati conseguiti nella sua trentennale carriera e le tante soddisfazioni regalate all’ateneo.

Malgrado questi bellissimi anni, forse l’esperienza più significativa rimane quella del biennio 1995-1996, unici due anni in cui abbandonò il suo lavoro di allenatrice universitaria per allenare la nazionale femminile degli Stati Uniti. Nel corso di quei due anni, le ragazze americane giocarono 80 partite e le vinsero tutte, conquistando la medaglia d’oro ad Atlanta nelle Olimpiadi del 1996.

TOM SANDERS: nel caso vi steste chiedendo chi possa mai essere quest’uomo in fondo alla lista delle persone che entreranno nella Hall of Fame, sappiate che merita ampiamente di entrare a farvi parte. A parte Bill Russell e KC Jones, che furono suoi compagni di squadra per tanti anni ai Boston Celtics, nessuno (ripeto: nessuno) ha vinto più titoli NBA di Tom “Satch” Sanders.

Nato a New York l’8 novembre del 1938, Sanders giocò al college per la New York University. Nel 1960 egli guidò i suoi compagni alle Final Four del torneo NCAA, e si affermò come uno dei prospetti più interessanti d’America. I Boston Celtics si accorsero di lui e lo selezionarono con l’8° chiamata al draft del 1960.

Sanders giocò per 13 stagioni in quel di Boston, dal 1960 al 1973. La sua intera carriera NBA si svolse con la maglia bianco-verde addosso, e fece parte della squadra più leggendaria della storia del basket. Egli affiancava dei mostri sacri di questo sport, a partire da Bill Russell e Bob Cousy per poi passare a John Havlicek, KC Jones, Don Nelson…e vinse ben 8 titoli al fianco dei suoi compagni (1961, 1962, 1963, 1964, 1965, 1966, 1968 e 1969).

Il suo ruolo era quello di ala piccola, ed aveva un fisico molto slanciato (198 centimetri per 93 chili). Sapeva segnare, ma era soprattutto un ottimo difensore ed un buonissimo rimbalzista, tanto è vero che chiuderà la sua carriera con 9.6 punti e 6.3 rimbalzi di media. Pur non essendo una delle stelle della squadra, giocava spesso 25-30 minuti a gara e veniva considerato un elemento utilissimo di quell’incredibile ingranaggio che furono i Boston Celtics degli anni ’60.

Bene, tanto vi dovevamo noi di Playitusa per quanto riguarda la classe della Hall of Fame del 2011…nonostante ci siano sicuramente dei nomi che ai più hanno detto poco o nulla, avrete potuto notare come dietro quei nomi si nascondessero delle storie straordinarie che valeva la pena di raccontare.

Il 12 agosto questi assi del basket verranno introdotti ufficialmente nell’Arca della Gloria…e a noi non ci resta che applaudirli e ringraziarli per quanto hanno fatto in tutti questi anni.

2 thoughts on “NBA Hall of Fame 2011: tutti i protagonisti

  1. Finalmente Artis Gilmore inserito. Il giocatore di maggior spessore ad esser stato per diverso tempo snobbato. Ingiustamente.

    Comunque Gilmore era un eccellente rimbalzista e buon attaccante e non il contrario.

    Aveva una forza fisica disumana..roba inferiore forse al solo Wilt.

    A livello NCAA è uno dei soli 6 giocatori della Dvivision I ad aver mantenuto una media di almeno 20pt e 20rb a partita! (Spencer Haywood, Bill Russell, Julius Erving, Paul Silas e Kermit Washington gli altri), portando Jacksonville in finale NCAA contro i Bruins.

    Al suo primo anni tra i Pro, in ABA vince sia il Roy che l’MVP, scavalcand per il Roy un certo Erving..cosa riuscita solo ad altri 3 giocatori: Spencer Haywood (ABA), Wilt Chamberlain e Wes Unsled (NBA). Fece dei Colonels una contender in ogni suo anno di permanenza, sempre premiato con il primo quintetto e vincendo ben 4 titoli come miglior rimbalzista.

    Sommando le cifre ABA/NBA:

    – 2° in carriera per field goal percentage (.5819, giusto dietro Shaquille O’Neal’s .5823),
    – 4° in carriera per Blocks: 3178, dietro a Hakeem Olajuwon, Dikembe Mutombo e Kareem Abdul-Jabbar
    – 5° in carriera per rimbalzi totali:16,330, dietro a Wilt Chamberlain, Bill Russell, Moses Malone e Kareem Abdul-Jabbar

    Ps: Gilmore detiene attualmente il primato NBA’s all-time field goal percentage leader (.599) ma tirò con percentuali peggiori nei suoi anni ABA.

    * Ovviamente tra i Blocks non ritroviamo gente come Chamberlain o Russell, perchè vennero conteggiati solo successivamente.

  2. Assolutamente, Gilmore è stato un giocatore davvero importante e che ha meritato appieno l’ingresso nella Hall of Fame. Penso che lui, come gli altri 9 personaggi citati in questo articoli, meritassero quantomeno qualche riga sulle loro carriere. A primo impatto potrebbe sembrare una classe poco altisonante, e invece troviamo dei giocatori e degli allenatori leggendari, che magari non tutti conoscono. Basti pensare a Tex Winter o allo stesso Gilmore, ma anche alle donne o a Tom Sanders…giù il cappello di fronte a loro.

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