Gli incidenti di questi giorni di Helio Castroneves, Josef Newgarden, Ed Carpenter e James Hinchcliffe hanno scatenato tante polemiche, specialmente sui social media come ormai di consuetudine. Se ne sono lette e sentite di tutti i colori, quindi sembra doveroso dare qualche chiarimento. Innanzitutto, gli incidenti in sé e per sé non hanno nulla a che vedere coi nuovi kit aerodinamici. Gli incidenti sono stati provocati da delle “normalissime” cause, come avviene ovunque, in qualsiasi categoria ed in qualsiasi momento. Le corse automobilistiche sono così, e quando si corre in macchina, e quando si corre in macchina gli incidenti prima o poi capitano. Le cause degli incidenti sono state le più normali: in un caso è stato una perdita di aderenza, in un altro una foratura, in un altro un cedimento meccanico. Tutte cose che si spera non accadano ma che correndo in macchina prima o poi succedono. Il problema sono stati i decolli delle vetture, ma limitatamente ai primi tre casi (e anche su quello di Carpenter qualche dubbio resta). Il ribaltamento di Hinchcliffe anche in questo caso ha delle spiegazioni naturalissime: dopo l’impatto secco che ha distrutto il fianco destro, la vettura si è sostanzialmente piegata per una questione di pesi e contrappesi, essendo da una parte era completamente distrutta e dall’altra sostanzialmente intatta. Una cosa che è sempre avvenuta. Bisogna capire per quale motivo, perlomeno nei casi di Castroneves e Newgarden, le vetture si sono alzate in volo. Secondo quanto emerso, il problema sarebbe stato dovuto sostanzialmente agli asseti da qualifica dei nuovi kit aerodinamici della Chevrolet, che hanno portato a maggiori velocità ma anche a maggiore instabilità della vettura, che in pratica quando si girava prendeva aria sotto e si sollevava. La IndyCar a caldo ha agito molto bene, facendo l’unica cosa possibile: per le qualifiche meno turbo e assetti da gara. Adesso bisogna capire se il problema è stato definitivamente risolto. Si era parlato anche di tornare a correre con l’aerodinamica dello scorso anno, soluzione caldeggiata anche da Michael Andretti, ma che sinceramente sembra un po’ difficile da attuare.

Va poi dato che in questi incidenti due attori hanno lavorato egregiamente: la Dallara e l’Holmatro Safety Team. Le auto italiane hanno svolto il loro compito alla grande. Negli incidenti di Castroneves, Newgarden e Carpenter le vetture hanno resistito molto bene, considerando la spettacolarità e la violenza degli impatti. Nell’incidente di Hinchcliffe, con un impatto con quell’angolazione, a 290 kmh, con una forza d’impatto di 125G, era praticamente inevitabile che qualcosa succedesse. Nessuna vettura in nessuna categoria avrebbe potuto lavorare diversamente in queste condizioni. Il fatto che tutti i piloti coinvolti in questi incidenti sono vivi e solo uno è risultato ferito per cause praticamente inevitabili dovrebbe essere applaudito. Ma il plauso più grande va dato agli uomini dell’Holmatro Safety Team, l’organizzazione della sicurezza in pista della IndyCar. Come sempre, hanno agito in maniera tempestiva ed impeccabile. Senza il loro rapido intervento, la perdita di sangue avrebbe potuto potenzialmente dimostrarsi fatale in pochi minuti. Forse altrove, ed in altri casi, questo non sarebbe successo. Ma la IndyCar ha sempre posto un’azione particolare alla rapidità e all’efficacia degli interventi in pista, creando appunto una organizzazione di eccellenza come l’Holmatro Safety Team, che rappresenta il top del top nel campo della sicurezza, che accompagna l’IndyCar in ogni gara con un numero variabile da 18 a 30 uomini (tra cui un medico traumatologo, un medico ortopedico, due paramedici, 12 vigili del fuoco e 2 infermieri) e quattro mezzi di soccorso. Il personale in pista ha una media di 20 anni di esperienza nei rispettivi settori.

Infine, una considerazione per così dire “filosofica”. Le corse in auto non sono mai state e mai saranno completamente sicuro. Il concetto di auto da corsa e la sicurezza assoluta al 100% in realtà non potranno mai andare insieme. Quello che si può fare, e che ogni categoria deve fare, e puntare verso il 100%, cercando di avvicinarsi il più possibile, coscienti che anche il 99,999% non significa 100%. Questo però significa due cose, che a volte anche appassionati sinceri sembrano ignorare. Da un lato “Racing is dangerous” non significa che si deve correre in condizioni di rischio. Per fare un esempio, limitatamente alla situazione delle qualifiche, se i commissari IndyCar hanno ritenuto che ci fosse anche solo lo 0,0001% di probabilità che un pilota potesse farsi male, hanno preso la decisione giusta decidendo di intervenire. E va sempre sottolineato che il fatto che un pilota possa farsi male o addirittura morire non significa che i piloti devono farsi male o addirittura morire. La seconda cosa che dovremmo tutti tenere a mente è che questi piloti, questi atleti, questi uomini sono lì a rischiare la loro salute e la loro vita per il divertimento di noi appassionati. Ok, lo fanno coscientemente, sapendo i rischi a cui vanno incontro, ma comunque mettono la loro vita e la loro salute a repentaglio per farci divertire. Questo un vero appassionato di automobilismo dovrebbe sempre ricordarlo, e si dovrebbe sempre portare rispetto per questi uomini che, lo ripeto per la terza volta, ci fanno divertire a rischio della loro salute e della loro vita.

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