Line drive and a base hit! Justice has scored the tying run, Bream to the plate, and he is… SAFE! Safe at the plate! The Braves go to the World Series!”

Sono passati quasi vent’anni da “The Slide”, la celeberrima scivolata di Sid Bream, 1B degli Atlanta Braves, nella parte bassa del nono inning di gara-7 delle NLCS del 1992; eppure nessuno allora avrebbe previsto che quella giocata avrebbe posto fine, non solo alla serie, ma anche alle stagioni vincenti della franchigia della città dell’acciaio.

I Pirates, cinque WS vinte nella loro storia tra cui quelle famosissime del 1960 dopo il walk-off HR di Bill Mazeroski in gara-7, partono con grandi ambizioni nel 1992, reduci da due eliminazioni consecutive alle NLCS; la squadra non è fortissima ma, sotto la guida di Jim Leyland, riuscirà a vincere 96 partite guidando la classifica praticamente per tutto l’anno con l’esclusione di una parentesi negativa a fine maggio. In agosto e settembre vince 40 gare, a fronte di sole 16 sconfitte, conquistando la division con 9 gare di margine sui Montreal Expos.

L’inizio della maledizione

La stella della squadra è Barry Bonds, giocatore di cui si parlerà tanto negli anni a venire, nel bene e nel male: il 1992 è l’anno del suo secondo titolo di MVP, giusto premio per una stagione pazzesca che lo vede battere 311/456/624 con 39 SB e 127 walks (contro 69 SO) in 140 match. Andy Van Slyke (CF) è il secondo violino di squadra è chiuderà con 150 OPS+; la rotazione è guidata da Doug Drabek, CY Young Winner nel 1990, anno in cui arrivò ad un out dal no-hitter contro i Philadelphia Phillies in RS.

Di quella squadra fanno parte anche Tim Wakefield, che arriverà terzo nella corsa al RoY, Miguel Batista, che non più tardi di sabato scorso è stato schierato dai Mets come partente in un match di MLB, Kirk Gibson, eroe delle WS 1988, e Denny Neagle, pitcher che proprio con i Braves sarà protagonista di un paio di ottime stagioni qualche anno dopo.

Con la minaccia di perdere a fine stagione, via free agency, Bonds e Drabek, la finestra per vincere si sta chiudendo per i Pirates, che però, quel 14 ottobre 1992 sono ad un passo dalle World Series: a tre out dalla fine del match, Pittsburgh guida 2-0, grazie a otto shutout innings di Drabek, che si sta prendendo una personale rivincita contro John Smoltz, che lo ha battuto in gara-1 e in gara-4. Le speranze di Atlanta sono affidate a Pendleton, Justice e Bream, il cuore del lineup; nonostante questo e i 107 lanci, Leyland decide si tenere sul monte il proprio asso. La scelta si rivelerà disastrosa.

Il resto è storia: il doppio di Pendleton, l’errore di José Lind, vincitore, ironia della sorte, del Gold Glove proprio in quell’anno, la controversa BB di Berryhill e infine la valida di Francisco Cabrera, ultimo positional player a disposizione di Bobby Cox, reduce da appena 10 AB in regular season. Il tiro impreciso di Bonds, il disperato tentativo di tag del catcher Mike LaValliere, la festa dei Braves e la disperazione di Van Skyle all’esterno centro: in questi flash sono racchiusi gli ultimi attimi di post season di una franchigia che dal 1993 non compila un record positivo, un primato per gli sport professionistici americani.

Barry Bonds, la stella di ieri

L’anno successivo si apre senza Bonds e Drabek, con Van Skyle unico superstite del fantastico trio di esterni composto con lo stesso Bonds e Bobby Bonill: offensivamente il team rimane competitivo, grazie anche alla piena maturazione di Jay Bell, SS che vincerà il Gold Glove interrompendo a tredici la striscia di Ozzie Smith. L’apice della carriera di Bell sarà, però, con un’altra maglia, quella dei Diamondbacks con cui segnerà la decisiva run in gara-7 delle WS 2001 dopo il blooper di Luis Gonzalez.

Il vero problema della squadra è la rotazione, in cui il solo Steve Cooke chiude l’anno sopra media (103 ERA+); il record finale è 75-85, un lusso considerando che il team chiude con un run differential negativo ogni mese della stagione.

Le cose non cambiano nel 1994, quando lo sciopero non fa altro che terminare anticipatamente un’agonia che ha inizio il 17 aprile, quando i Dodgers si impongono 19-2 al Three Rivers Stadium chiudendo a sei la striscia positiva di Pittsburgh, che da quel momento scenderà al terzo posto divisionale senza più avvicinarsi concretamente alla vetta della division; il 30 giugno il record è 38-38, ma i Pirates vinceranno solamente 15 delle successive 38 gare, chiudendo mestamente al terzo posto nella NL Central, 13 gare dietro ai Reds. Il veterano Zane Smith chiude con appena 57 SO in 157.0 IP (3.3 SO/9) ma vince 10 decisioni con un’ERA di 3.27.

Il 1995 si potrebbe descrivere con una breve statistica: mai un giorno, nemmeno dopo l’Opening Day posticipato del 26 aprile, la squadra vanta un record positivo o anche solo in parità. Il lineup non segna e il monte, oltre a Denny Neagle (209.2 IP, 124 ERA+) è ben poca cosa, nonostante la presenza di due buoni mestieranti come Jon Lieber e Esteban Loaiza, che nel 2004 si ritroveranno, loro malgrado, nella rotazione dei New York Yankees eliminati nelle famosissime ALCS contro Boston.

La stagione di Pittsburgh ha la possibilità di essere riscattata dal pitcher Paul Wagner, che il 29 agosto lancia 8.2 no-hit innings contro Colorado prima che Andrés Gallaraga rovini tutto con una grounder centrale.

L’anno successivo, l’ultimo di Leyland nel dugout di Pittsburgh, si chiude in maniera analoga: un lineup leggero (solo Jeff King supera i 20 HR) e una rotazione che fa quel che può per tenere in linea di galleggiamento la squadra. Neagle e il veterano Danny Darwin, ceduto durante l’anno a Houston, guidano il reparto; la stagione, chiusa con 73 vittorie, vede gli esordi di Jason Kendall e Jason Schmidt, quest’ultimo giunto dai Braves a fine agosto proprio in cambio di Neagle. Sei anni più tardi guiderà, insieme a Barry Bonds, San Francisco alle WS perse contro gli Angels.

Il 1997, sotto la guida di Gene Lamont, sembra l’anno buono: la rotazione (Loaiza, Lieber, Schmidt, Cordova, Cooke) è solida e anche il bullpen fa la sua parte; il lineup, in cui esordisce José Guillén (settimo nella votazione del RoY), è guidato da Kendall, Young e Martin. Manca di potenza, ma guida la lega con ben 52 tripli, nove dei quali a firma Tony Womack, uno specialista; a fine agosto il record parla di 68 vittorie e 69 sconfitte, sufficiente per il secondo posto divisionale a 2.5 gare da Houston. Il mese di settembre, però, si chiude 11-14 nonostante il differenziale positivo tra runs segnate e subite: otto sconfitte maturano con 2 runs o meno di scarto. Il sogno di una stagione positiva si infrange contro gli Astros il 26 settembre: 79-83 il bilancio finale.

Il peggio, però, deve ancora venire per i Pirates, che dal 1998 al 2011 compresi riusciranno solamente due volte a vincere almeno 75 partite: l’aspetto più preoccupante è che questi numeri riflettono perfettamente i valori delle squadre che sono scese in campo in questi anni. Tutte con il denominatore comune di una rotazione debole, inefficace e spesso poco profonda; una considerazione che fa sorridere pensando che, in termini di bWAR, per tre volte sono stati dei pitchers le stelle della squadra.

Difficile credere che nel 2008 Paul Maholm sia stato il miglior giocatore dei Pirates, eppure è vero: non meno sorprendente leggere i nomi di Kip Wells (2003), Jack Wilson (2007) e, soprattutto, Ollie Perez, che nel 2004, limitando, per i suoi standard, le walks concesse, chiuse la stagione con 5.5 bWAR e 239 K in 196 innings.

Solo note negative quindi? No, anche se di campioni non ne sono passati tanti, recentemente, al PNC Park, il nuovo ballpark inaugurato nel 2001: uno di questi è stato sicuramente Aramis Ramirez, 3B dominicano svenduto ai Cubs prima della sua definitiva esplosione, che ne ha fatto uno dei migliori terza-base nella NL negli anni 2000. Impossibile non citare Brian Giles, OBP machine, che in quattro stagioni e mezzo in maglia Pirates ha collezionato ben 25.2 bWAR senza mai chiudere con una OBP inferiore a .400; il suo “regno” è durato fino al 2003, quando fu ceduto a San Diego in cambio, tra gli altri, di Jason Bay, che ne è diventato l’erede.

Andrew McCutchen, la stella di oggi

La matricola dell’anno 2004 è stata, fino alla recente esplosione di Andrew McCutchen, il giocatore simbolo di Pittsburgh, chiudendo con 139 HR e 13.8 bWAR la sua avventura con i Bucs.

Spiegare un così lungo periodo di mediocrità non è facile, ma dare un’occhiata ai principali scambi di mercato e alle scelte nei draft può aiutare; nel giudicare il mercato, è bene tenere presente che la proprietà ha quasi sempre imposto un payroll bassissimo, impedendo ai GM di turno di puntare al mercato dei F.A. e anzi obbligandoli a cedere le stelle in odore di aumento salariare. In questa ottima vanno giudicati gli scambi di Kendall, Ramirez e Giles.

Quella che sulla carta può essere una buona strategia, però, non ha funzionato anche perché le scelte fatte in sede di draft si sono rivelate quasi sempre disastrose e per rendersene conto basta osservare la lista dei giocatori scelti al primo giro negli ultimi quindici anni, a cominciare da Kris Benson, prima scelta assoluta nel 1996, forse il draft più povero di talento negli ultimi vent’anni. Docici mesi la dirigenza scelse Chad Hermansen, preferendolo a Roy Halladay, Carlos Beltran, Mike Lowell e Tom Brady, il futuro QB dei New England Patriots che, pochi lo sanno, fu scelto al 18simo giro dagli Expos.

Nel 1997 JJ Davis fu preferito a Lance Berkman, Jayson Werth, Michael Young e Tim Hudson; quando nel 1998 Clint Johnston fu scelto come 15 assoluto, a disposizione c’erano ancora Brad Lidge, CC Sabathia, Mark Prior, Adam Dunn e Matt Holliday. Barry Zito e Ben Sheets furono scelti appena dopo Bobby Bradley un anno dopo; Sean Burnett, 18 assoluto nel 2000, può non sembrare una brutta scelta ma osservando i nomi a disposizione (Wainwright, Kelly Johnson, Cliff Lee, Yadier Molina, Brandon Webb, James Shields, Mike Napoli, Rich Harden) qualche rammarico rimane, nonostante la scelta, al 20simo round, di José Bautista.

Il 2001 è l’anno di Zach Duke, meteora della stagione 2005, ma anche di John Van Benschoten; nel secondo giro i Mets scelsero David Wright. La scelta di Bryan Bullington, come primo assoluto, dodici mesi dopo non necessita di ulteriori commenti; nel 2003 la scelta cadde su Paul Maholm, non male ma decisamente non a livello di Matt Kemp, Michael Bourn, Ian Kinsler, Jonathan Papelbon e Andre Ethier, tutti giocatori scelti dopo il primo giro.

Nel 2004 Neil Walker viene scelto appena prima di Jered Weaver, mentre nulla da eccepire nel 2005, che porta in dote Andrew McCutchen; le cose tornano a girare male l’anno successivo quando Brad Lincoln (quarto assoluto) viene preferito a, tra gli altri, Clayton Kershaw e Tim Lincecum.

Difficile giudicare le ultime annate, visto la relativa poca permanenza in MLB dei giocatori scelti: ciò nonostante le scelte del 2007 (Moskos preferito a Wieters, Bumgarner e Heyward) e del 2008 (Alvarez su Posey e Lawrie) non sembrano ineccepibili.

Il 2007, però, potrebbe essere stato l’anno della svolta in Pennsylvania, con la nomina di Neil Huntington come General Manager: l’ex scout degli Indians ha immediatamente iniziato l’opera di ringiovanimento del roster, scaricando contratti pesanti di giocatori poco utili e accumulando giovani di potenziale, anche grazie a firme aggressive sul mercato dei free agents internazionali. I primi risultati si sono visti lo scorso anno, quando i Pirates arrivarono al 28 luglio con un record di 54-49, utile per il secondo posto divisionale. Purtroppo una striscia di 10 sconfitte consecutive e il crollo di rendimento dei pitchers ha chiuso in malo modo la stagione, ma almeno si è visto qualche spiraglio di luce.

Un cauto ottimismo che si è prolungato fino alla stagione in corso, che vede Pittsburgh in piena lotta per la post season, 13 gare sopra quota .500; la rotazione sta rendendo su buoni livelli, grazie anche all’arrivo di AJ Burnett e Erik Bedard, ma soprattutto al rendimento eccezionale di James McDonald, che a 27 anni sta disputando la stagione della vita (129 ERA+).

L’attacco può contare sui fuoricampo di Pedro Alvarez, sulla solidità di Neil Walker ma, prima di tutto, sulla stagione monstre di McCutchen, esploso in maniera folgorante sulla scia di una stagione da 371/426/644: parlare di premio di MVP per lui è tutt’altro che esagerato. Così come sperare che la maledizione lunga 19 anni possa finalmente interrompersi, magari centrando anche l’accesso ai play-off.

Le ultime 69 gare stagionali stabiliranno se sia finalmente giunto il momento.

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