Ci sono caratteristiche – fisiche e non – in alcuni giocatori baciati da un particolare talento che saltano prepotentemente agli occhi e rimangono impresse in maniera indelebile nella mente di quanti si trovano a interagire con loro. Sono come marchi di fabbrica, tratti distintivi che identificano univocamente un atleta.

Chiunque abbia avuto la fortuna di avvicinare Bill Russell su un campo da gioco, ad esempio, parla dell’aura di invincibilità che la sua figura emanava, quasi fosse qualcosa di percepibile al tatto. Un’aura che inevitabilmente finiva per condizionare e influenzare compagni, avversari, spettatori.

Al contrario, ciò che emergeva lampante di Wilt Chamberlain era la sconfinata sicurezza nei propri mezzi, la superbia che traspariva dal suo modo di muoversi, di sorridere, di guardare tutti – per ovvietà di cose – dall’alto in basso. Questo fondamentalmente catalizzava le forti antipatie di stampa e tifosi nei suoi confronti.

Per quanto riguarda Julius Erving erano grazia e leggerezza a ipnotizzare gli sguardi, il suo modo di muoversi in maniera leggiadra, quasi fluttuasse a qualche centimetro dal parquet anziché camminarvi o correre. Pura poesia che ammaliava e incantava.

Banale a dirsi, di Michael Jordan era invece lo sguardo la prima cosa a colpire. Quegli occhi che, a sentire Clyde Drexler, emanavano lampi. Incutevano persino timore. E anche a distanza di anni – esperienza personale – sono assolutamente impossibili da dimenticare.

Ma se il metro di paragone è quello appena enunciato, su tutti e probabilmente ineguagliabile, c’è lui. L’uomo il cui sorriso illuminava un’intera arena. Colui che aveva l’innata capacità di colorare il mondo, infondere allegria, voglia di vivere. Che dispensava gioia e sorrisi a ogni azione, scaldava i cuori, riempiva gli occhi.

Non si è mai capito bene come facesse, se fosse davvero il suo sorriso a trentadue denti o l’entusiasmo infantile che metteva nel gioco del basket, un entusiasmo nato da un amore puro e spassionato per lo sport e per la competizione, la cosa certa è che chiunque lo abbia visto o incrociato su un parquet ha poi portato con sé il ricordo indelebile di qualcosa di meravigliosamente bello che si stava compiendo.

Certo, il suo gioco era spumeggiante, travolgente, conquistava, ma probabilmente da solo non sarebbe bastato. Non ad allungare di diversi anni la carriera di un giocatore prossimo al ritiro come Jabbar. Non a riportare l’entusiasmo in uno spogliatoio intristito da oltre un lustro di mediocrità quale quello dei Lakers di fine anni ‘70. Non a risollevare le sorti di una lega vicina al fallimento, dimenticata da pubblico e sponsor, dilaniata da droghe e violenza.

C’era sicuramente qualcosa di molto più grande in quel ragazzone nero di duecentocinque centimetri che giocava da guardia, la più alta nella storia del gioco, probabilmente anche la più forte, Jordan permettendo.
Era qualcosa che lui aveva dentro. Forse quella strana magia che si sprigionava nell’aria al suo passaggio e, come polvere di stelle, si librava sulle teste di pubblico e tifosi. Poi, un assist no-look, un alley-oop da metà campo o un proiettile sparato fra mille braccia per il compagno sotto canestro, e la polvere si depositava sui presenti.

Magicamente, tutti cominciavano a sorridere felici ed era la stessa genuina felicità che lui provava nel giocare a basket, con molta probabilità il motore da cui nasceva ogni cosa. Perché al di là del successo, della fama, dei soldi e della bella vita, lui, Earvin Johnson Jr., noto al grande pubblico come Magic, era semplicemente e pienamente una persona felice quando aveva una palla da basket fra le mani. E non faceva nulla per nasconderlo.

I meriti che Magic ha avuto nel mondo della pallacanestro in generale, ma per l’NBA in particolare, sono difficilmente quantificabili e non hanno alcun riscontro – eccezion fatta per il suo amico/rivale Larry Bird – nella storia del basket moderno, dai tempi in cui un tale di nome Bill Russell insegnò a tutti il significato della parola difesa.

Quando Magic entrò in quella che oggi è la lega sportiva più famosa al mondo, gli anni ‘70 stavano per giungere al capolinea. Erano stati anni bui, durante i quali la NBA aveva attraversato il momento più critico della sua fulgida storia.
I fasti e gli antichi splendori del decennio precedente erano uno sbiadito ricordo. Chamberlain e Russell, ormai lontani. L’ABA era stata un’agguerrita rivale e la lega già da tempo lottava contro lo spettro del fallimento. Un pubblico sempre più freddo e un mercato in perenne calo sembrava avviarla verso un lento, inesorabile declino. Poi, nel giugno del 1979, arrivarono Magic e Bird e tutto cambiò.

Del numero 33 con la casacca bianco-verde abbiamo già avuto modo di parlare, un paio di settimane addietro. Del 32 in maglia giallo-viola c’è ora così tanto da dire che – vi prego – mettetevi comodi.
Sarà una lunga e appassionante storia. O almeno spero.

Magic nacque il 14 Agosto del 1959 a Lansing nel Michigan.
Per sua stessa testimonianza non ricorda un giorno della propria infanzia trascorso senza una palla da basket fra le mani. Palleggiava ovunque, andando e tornando da scuola, per strada, nel cortile di casa, persino mentre andava in bicicletta. Spesso finiva anche per dormirci con quella benedetta sfera color arancio.

Già ai tempi delle elementari alla Main Street School si diceva di lui che avesse notevoli doti da passatore. Ma il suo primo allenatore, Jim Dart, forse intuendo già allora di trovarsi davanti un prospetto eccezionale, gli insegnò i movimenti da centro, l’uso del piede perno e della mano sinistra, il gancio, il tagliafuori a rimbalzo. Andò in pratica a forgiare i primi rudimenti di quel meraviglioso giocatore totale che sarà, moltissimi anni dopo, il futuro Magic Johnson.

La passione per il basket portò il piccolo EJ, così come veniva chiamato all’epoca, a seguire le gesta di Dave Bing alla Cobo Arena di Detroit e a incrociare la strada di molti campioni. A undici anni, ad esempio, conobbe un tale di nome Lew Alcindor, rookie e stella dei Milwaukee Bucks, quello stesso giocatore che sotto altro nome diverrà suo compagno di squadra ai Lakers e con il quale formerà la combo più forte nella storia del basket.

Nel 1973, Magic si iscrisse alla Everett High School. Era il giocatore più alto della squadra della scuola, eppure fu schierato come playmaker perché le sue doti atletiche, quelle di assist-man e la sua visione di gioco, lo rendevano letteralmente devastante nel ruolo.

Fu proprio al suo secondo anno alla Everett che, durante una partita in cui mise 36 punti, 16 rimbalzi e 16 assist, un giornalista locale, tale Fred Stabley, lo battezzò per la prima volta “Magic”, inaugurando inconsapevolmente il soprannome più famoso nella storia della pallacanestro mondiale.

Nella stagione da senor, EJ condusse la squadra a un record di ventisette vittorie, una sola sconfitta e il titolo dello Stato. Tenne una media di 28.8 punti e 16.8 rimbalzi per partita. Nella finale contro i Birmingham Brother Rice realizzò 34 punti e 14 rimbalzi.

Al termine dell’High School, Magic aveva le porte spalancate di diversi college, eppure decise di non allontanarsi da casa. Andò alla Michigan State University, nella vicina East Lansing.

Al suo primo anno mise insieme 17 punti, 7.9 rimbalzi, 7.4 assist. Condusse gli Spartans a un record di venticinque vittorie, cinque sconfitte e il titolo della Big Ten Conference.

Un passo prima di accedere alle Final Four, MSU venne sconfitta dai futuri campioni di Kentucky per 52 a 49 e quello fu l’unico anno di quattro consecutivi (l’ultimo di High School, i due di college e il primo nella NBA) in cui Magic non riuscì a centrare la finale e vincere il titolo del campionato cui stava partecipando.

Già alla seconda stagione il giovane play era considerato uno dei migliori prospetti del college basket. Il 27 novembre 1978 Sport Illustrated gli dedicò una storica copertina in cui lui compariva in frac nell’atto di schiacciare la palla a canestro. Il titolo diceva: “Michigan State’s classy Earvin Johnson”.

Magic guidò gli Spartans fino alle Final Four di Salt Lake City. Nella semifinale contro i Quakers dell’Università della Pennsylvania, il suo box score diceva 29 punti, 10 assist, 10 rimbalzi, con 9 su 10 dal campo e 11 su 12 dalla lunetta. MSU vinse per 101 a 67 e approdò alla finale contro i Sycamores di Indiana State, guidati dalla fenomenale ala Larry Bird, già eletto miglior giocatore della stagione.

Il giorno prima di quella che è passata alle cronache come la più importante finale nella storia del college basket, accadde un episodio altamente esplicativo del carattere di Magic, perché va bene il sorriso, la simpatia, l’amore per il basket, l’allegria e la spensieratezza dei vent’anni ma contrariamente a quanto in molti hanno sempre creduto, Magic era un atleta estremamente competitivo che – al pari del suo grande rivale Larry Bird – non anelava altro che alla vittoria finale.

Era il pomeriggio del 24 marzo 1979. Gli Spartans si stavano allenando agli ordini di coach Jud Heathcote, quando improvvisamente la porta della palestra si spalancò e un nugolo di ragazzi in jeans, stivali e grandi cappelli da cowboy fecero chiassoso ingresso. Erano i giocatori di Indiana State, giunti a spiare l’allenamento degli avversari.

Ci furono alcuni secondi di stupefatto silenzio durante i quali i ragazzi delle due squadre rimasero a fissarsi e studiarsi intensamente. Poi Heathcote divenne tutto rosso e cominciò a urlare: “Abbiamo ancora venti minuti prima del vostro turno! Non dovreste essere qui, levatevi di torno! Via di qui, ho detto!”

I ragazzi di Indiana State andarono via in silenzio, sbattendo di proposito la porta. Il coach ribolliva di rabbia. Ma capì che l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
“Loro non vi rispettano!” urlò in faccia ai suoi. “Avete capito? Non vi rispettano! Nessuno può permettersi di interrompere i nostri allenamenti e loro lo hanno appena fatto! E sapete perché? Perché non hanno la minima paura di voi. Cercano soltanto di distrarvi.”

Heatchote continuò su quel tono, finché l’intera squadra di Michigan State non si sentì oltraggiata e insultata. Finché la rabbia non prese il sopravvento sulla sorpresa. Finché quel comportamento divenne un motivo in più per vincere la partita del giorno successivo.

Il giorno dopo Magic giocò rabbiosamente. Giocò meglio del suo rivale. E gli Spartans quella la partita la vinsero. La vinsero perché credettero più in loro stessi, perché erano più forti. La vinsero perché il loro leader era un tipo sorridente e amichevole, chiacchierone e solare, sempre pronto a fare festa, ma quando si trattava di scendere in campo e ricacciare in gola agli avversari la loro superbia, pretenderne il rispetto, quando si trattava di vincere e di affermarsi come il migliore sul pianeta, non era davvero secondo a nessuno.

EJ siglò 24 punti, catturò 7 rimbalzi, distribuì 5 assist, vinse il primo confronto con quello che diverrà il suo più acerrimo rivale, il suo più grande amico. Tagliò la retina. Fu eletto MVP della partita. E poi festeggiò tutta la notte.

Raggiunto il traguardo più importante, decise di saltare direttamente fra i professionisti. Le possibili destinazioni erano due. La fredda e ventosa Chicago o la calda e sfavillante Los Angeles. Che dovesse finire dalle parti di Hollywood, alla corte dei Lakers, per un connubio che durerà in eterno, era evidentemente scritto, perché il percorso fu tortuoso ma segnato da una sorta di predestinazione.

Nel 1976, infatti, i New Orleans Jazz avevano firmato Gail Goodrich, guardia dei Lakers, divenuto Free Agent. In base al regolamento dell’epoca alla squadra giallo-viola andava comunque un indennizzo che si materializzò nelle prime scelte del 1977 e del 1979. Il colpo di fortuna per Los Angeles arrivò quando i Jazz chiusero ultimi a ovest nella stagione 1978-79. I Lakers andarono così al sorteggio con i Bulls (ultimi della Eastern Conference) per stabilire a chi spettasse la prima scelta.

Quando i giallo-viola vinsero la mini-lotteria, per un breve momento ci fu incertezza sul nome che avrebbero fatto. In squadra avevano infatti già un buon play di nome Norm Nixon, mentre mancava un esterno dalle spiccate attitudini difensive e un buon tiro dalla distanza, esattamente come Sidney Moncrief, prodotto di Arkansas.
Inoltre, in molti, fra esperti e addetti ai lavori, temevano che Magic potesse avere un atteggiamento troppo spavaldo anche fra i professionisti e bruciarsi in fretta.

L’indecisione tuttavia durò giusto il tempo che il proprietario dei Lakers, Jack Kent Cooke, intervenisse in prima persona nella diatriba e ordinasse senza ombra di dubbio: “Non me ne frega niente di quello che pensate sia più utile per la squadra. Prendiamo Magic!”

E Magic fu. La storia dei Los Angeles Lakers voltò pagina quel giorno.
Alla sua prima gara in NBA, in diretta nazionale, il giocatore fu presentato al grande pubblico televisivo dal giornalista sportivo Brent Musburger con la celebre frase: “Ladies and Gentlemen, I want you to know this man has a smile that lights up a television screen from here to Bangor, Maine.”

La straordinaria esuberanza di Magic emerse sin da quella partita. Arrivò una vittoria sulla sirena contro i San Diego Clippers e un incontenibile Magic iniziò a dare High Five a tutti i compagni, saltando da una parte all’altra fino ad atterrare sulle spalle di Jabbar.

Emblematica fu la frase con cui il grande vecchio redarguì la giovane matricola: “Rookie, questa è solo la prima partita. Ne abbiamo ancora 81 e poi ci sono tutti i playoff. Non esaltarti troppo.”

Altrettanto emblematica fu la risposta di quel giovane playmaker dal sorriso radioso, quel sorriso che ben presto sarebbe diventato un’icona dello sport mondiale: “Ehi capitano, ma questo è puro divertimento! Abbiamo vinto, e in diretta TV, giochiamo a basket e ci pagano pure per farlo. Cosa c’è di meglio nella vita? Siamo in ballo e balliamo!”

A fine stagione Jabbar si ritroverà davvero a ballare, completamente rapito dalla verve e dall’entusiasmo di quello strano ragazzone con il numero 32 sulle spalle. E sarà proprio grazie a Magic che Kareem, non proprio la persona più allegra dell’universo, ormai trentatreenne e in procinto di appendere le scarpe al chiodo, ritroverà la voglia e lo spirito per continuare a illuminare con la sua classe i parquet della NBA per diversi anni ancora.

Nel frattempo l’intera America sportiva si stava accorgendo delle straordinarie doti della terribile matricola da Michigan State. Magic stava letteralmente abbagliando e sorprendendo tutti con il suo gioco rivoluzionario. Nessuno aveva mai visto prima un playmaker di 205 centimetri. Nessuno aveva mai visto un giocatore di quella stazza avere una tale agilità, quel controllo di palla e quella tale stupefacente coordinazione.

Il suo gioco, fatto di contropiedi veloci e mortiferi, di passaggi telepatici, spesso eseguiti sorridendo alla telecamera, erano uno spettacolo inedito, pura adrenalina per tifosi e appassionati. Nacque in quel periodo il termine “Showtime”, lo spettacolo che si materializzava sotto gli occhi attoniti degli spettatori quando in campo c’erano le sfavillanti maglie dai colori giallo e viola. Non fu un caso infatti se Magic divenne il primo rookie a partite titolare all’All-Star Game dai tempi di Elvin Hayes, undici anni prima.

Ma non c’erano solo contropiedi fulminanti e assist spettacolari nel suo gioco. C’erano rimbalzi, recuperi, visione di gioco, leadership e tanta, tanta sostanza. Earvin era un giocatore talmente completo che con il suo ingresso fra i professionisti venne introdotto il termine “Tripla Doppia” per indicare la doppia cifra in tre diverse voci statistiche.

Di pari passo alle gesta sul parquet, presto l’esuberante ragazzo in maglia Lakers divenne anche un punto di riferimento per la vita mondana di Los Angeles. Magic cominciò a frequentare gli ambienti più alla moda ed esclusivi della città. Le feste private, le serate trasgressive, sempre vestito in maniera impeccabile, sempre accompagnato dalle donne più belle, allacciando rapporti con i più noti personaggi del jet set hollywoodiano.
“Come va OJ, che c’è di bello in città?” si narra gridò una volta, entrando in un locale notturno, a OJ Simpson, all’epoca stella del football americano e attore di successo.
Magic, tu sei il bello di questa città!” fu la significativa risposta.

Ma tutto questo non portò mai il giocatore a dimenticare quali fossero le sue priorità, il suo lavoro. A cosa dovesse i soldi, la fama, il successo. E soprattutto cosa lo rendesse davvero felice.

Los Angeles vinse 60 partite. Magic, che fungeva da secondo violino a Kareem, non giocò in stagione all’altezza del suo rivale Bird e perse nettamente la corsa al titolo di rookie dell’anno. Eppure i Lakers andarono a conquistare l’anello e in quella vittoria il ruolo del ventunenne playmaker da Lansing, risultò a dir poco fondamentale.

Tutto ebbe inizio nella famosa gara 5 di finale fra Los Angeles e Philadelphia. La serie era ferma sul due a due quando, nel terzo quarto, la caviglia sinistra di Kareem Abdul-Jabbar si piegò. Kareem aveva realizzato fino a quel momento 26 punti e stava tenendo i Lakers in partita con una prestazione da incorniciare. Strinse i denti e rimase ugualmente in campo, portando la sua squadra alla vittoria e la serie sul 3 a 2.

Ma l’anziano giocatore dovette pagare un prezzo salatissimo per quell’eroica prestazione. Il mattino dopo gli risultava impossibile persino camminare. Lo staff medico dei Lakers gli consigliò assoluto riposo, per presentarsi nelle migliori condizioni possibili per l’eventuale e decisiva gara sette. In pratica gli stessi Lakers diedero per certa la sconfitta a Philadelphia nella partita successiva e puntarono tutto sull’ultima gara, dove potevano contare sul fattore campo e sull’eventuale recupero di Jabbar.

I giocatori in maglia giallo-viola appresero la notizia dell’assenza del loro punto di riferimento e leader carismatico all’aeroporto di Los Angeles, poco prima di imbarcarsi per il volo che gli avrebbe portati nella città dell’amore fraterno. Non la presero affatto bene.

Coach Westhead si rese conto che le ripercussioni psicologiche potevano rivelarsi pesanti: un eventuale massacro in gara 6 e sarebbe stato davvero dura rialzarsi in tempo per l’ultima sfida della serie, tanto più con un Jabbar sicuramente non al meglio della forma. Decise probabilmente in quel momento di giocare la sua carta a sorpresa. Prese da parte il giovanissimo Earvin e lo mise al corrente dell’idea di farlo giocare centro.
“Nessun problema coach!” fu la pronta risposta del ragazzo.

Sull’aereo Magic andò a occupare il posto riservato a Kareem, un posto che mai nessuno aveva osato violare prima. Studiò i musi lunghi dei compagni, sorrise come solo lui sapeva fare, quindi consegnò ai libri di storia la frase: “Never fear, EJ is here”.

E così, tra l’incredulità del pubblico presente allo Spectrum di Philadelphia, Magic saltò per la palla a due contro Dawkins. Ma, nonostante le premesse, il numero 32 giallo-viola non giocò centro in quella partita. Fece di meglio. Ricoprì tutti e cinque i ruoli.

La sua fu una gara assolutamente perfetta. Per molti rimane la migliore singola prestazione di sempre di un giocatore in una finale NBA.
42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist, 1 stoppata, 3 recuperi. Non ci fu bisogno di giocare alcuna gara sette perché i Lakers tornarono quel giorno a essere campioni NBA, otto anni dopo l’ultimo successo, targato Wilt Chamberlain e Jerry West.

Magic fu eletto MVP delle finali ed è tuttora l’unico giocatore nella storia ad aver vinto il titolo di miglior giocatore delle finali NCAA ed NBA, consecutivamente.

Al termine della gara, il giovanissimo play esplose di felicità, prese in mano il microfono di un giornalista e in diretta televisiva urlò: “So che ti fa male, big fella, ma voglio che questa notte ti alzi e inizi a ballare.”

Si narra che a quelle parole, un uomo occhialuto e posato, alto due metri e diciotto centimetri, lontano migliaia di chilometri da Philadelphia, spense la TV, salì sul terrazzo della sua villa e lentamente iniziò a ballare.
Probabilmente la Magia ebbe inizio quella notte.

L’anno successivo non fu però altrettanto positivo. A inizio Regular Season, Tom Burleson, centro di 7-2 degli Atlanta Hawks cadde sul ginocchio sinistro di Magic, costringendolo a saltare 45 gare per infortunio.

Il playmaker tornò in tempo per i playoff. Gli avversari del primo turno erano i Rockets di Moses Malone, in una serie al meglio delle tre partite. Probabilmente Magic pagò la lunga inattività perché la sua prestazione, soprattutto nella decisiva gara 3, fu disastrosa.

Mise appena 10 punti, tirando 2 su 13 dal campo e 6 su 11 dalla lunetta. Fece oltretutto registrare un clamoroso air ball nei secondi finali che costò la vittoria ai Lakers.

Tragic Johnson, titolarono i giornali il giorno successivo. E quanti avevano profetizzato un progressivo sgonfiarsi di quella che sembrava la fulminante carriera di una giovane stella, tornarono prepotentemente a far udire la loro voce.

L’inizio della stagione successiva parve inoltre dar ragione ai detrattori. Quando infatti coach Westhead tentò di modificare il gioco dei Lakers e Magic vide il suo ruolo farsi ancor più subalterno a quello delle altre stelle della squadra, scoppiò la polemica.

Negli spogliatoi, dopo una vittoria di misura su Utah e un diverbio con l’allenatore, il play tuonò di fronte alla stampa: “Non posso più giocare qui. Basta, voglio essere scambiato!”

Il giorno dopo i giornali riportarono la notizia e non passarono ventiquattro ore che Westhead venne licenziato per essere sostituito dal suo vice, il trentasettenne Pat Riley. Non erano atteggiamenti che all’epoca nella NBA venivano accolti con leggerezza.

Alla prima partita casalinga dei Lakers dopo il cambio in panchina, i tifosi fischiarono per la prima volta Magic. Continuò così a lungo, in ogni palazzetto il giovane playmaker finì per essere ricoperto dai fischi e dai boati di disapprovazione del pubblico. Per la prima volta non partì titolare all’All-Star Game, preceduto nelle gerarchie da Gus Williams. Fu lo stesso All-Star Game che – per una curiosa coincidenza del destino – vide il trofeo di MVP finire nelle mani del suo rivale Larry Bird.

Eppure Magic disputò una stagione eccezionale da 18.6 punti, 9.5 assist e 9,6 rimbalzi a partita, quasi in tripla doppia di media. Divenne il terzo giocatore della storia NBA, dopo Oscar Robertson e Wilt Chamberlain, a realizzare 700 punti, 700 rimbalzi e 700 assist nella stessa stagione.

Ci vollero prestazioni straordinarie in Regular Season e una nuova finale giocata ad altissimi livelli per mettere a tacere le critiche. Los Angeles superò nuovamente Philadelphia nella serie decisiva che assegnava l’anello e Magic vinse il suo secondo trofeo di MVP delle finali. In quel momento aveva appena ventitré anni, era alla sua terza stagione fra i pro e, per assurdo, era ancora piuttosto distante dall’esprimere il proprio miglior basket.

Per Los Angeles arrivò la finale anche l’anno successivo, la terza in quattro anni. Ma quella fu la splendida stagione dei Sixers di Julius Erving e del neo-acquisto Moses Malone. Complici gli infortuni di Norm Nixon e Bob McAdoo, Philadelphia si impose nell’ultimo atto con un facile sweep.

Quella stessa estate Nixon fu spedito ai San Diego Clippers e Magic ebbe tutto per sé il ruolo di playmaker della squadra. Firmò un’estensione del contratto da 25 milioni di dollari, guidò per il secondo anno consecutivo la lega negli assist distribuendone oltre 13 a partita e finì per la seconda volta consecutiva nel primo quintetto NBA. Cosa ben più importante portò nuovamente la sua squadra in finale, la terza consecutiva, la quarta in cinque anni.

Dall’altro lato del Grande Fiume anche Bird condusse i suoi Celtics all’atto conclusivo della stagione. Correva la tarda primavera del 1984 e improvvisamente lo scontro che tutta l’America aspettava ormai da anni, divenne realtà. Finalmente fu Lakers contro Celtics. Magic contro Bird.

Quella prima sfida rappresentò però il punto più basso della carriera di Magic. I suoi errori in cabina di regia nei momenti cruciali di gara 2, gara 4 e soprattutto di gara 7 costarono la vittoria ai Lakers.

Eppure la finale per i giallo-viola era iniziata nel migliore dei modi con un Jabbar che aveva portato i suoi a violare il Boston Garden in gara uno.

A dirla tutta, i Lakers erano andati maledettamente vicini a vincere anche gara due, ma a 15 secondi dalla fine, dopo lo storico recupero di Gerald Henderson, Magic ebbe quello che Dan Peterson definì “un totale blocco mentale” e lasciò che la sirena suonasse senza provare né un assist, né una conclusione. Il match andò così al supplementare dove si imposero i Celtics.

In gara 3, Magic si riscattò ampiamente ed esplose con un vero e proprio show personale. Segnò 14 punti, distribuì 21 assist, record per una partita di finale, catturò 11 rimbalzi. I Lakers si imposero per 137 a 104 e lo showtime raggiunse una perfezione quasi chirurgica.

Ma per gara 4 coach Jones aggiustò le marcature. Spostò l’ottimo difensore Dennis Johnson proprio sul play di Los Angeles, quindi fece leva sull’enorme cuore dei propri ragazzi. Ne nacque una gara leggendaria.
Nuovamente a pochi secondi dalla sirena, Magic fu protagonista in negativo. Perse una sanguinosa palla regalandola di fatto a Robert Parish, sbagliò due liberi e si fece battere in uno contro uno da Larry Bird che andò a depositare il canestro della vittoria.

Magic concluse la sua personalissima debacle nella decisiva gara 7. Ancora a pochi secondi dalla fine ebbe il possesso del possibile pareggio, ma Dennis Johnson gli rubò la sfera. La palla fu recuperata da Michael Cooper che servì nuovamente il play giallo-viola. Questi avanzò verso l’area avversaria, vide Worthy sotto canestro, ma ancor prima di riuscire a servirlo, Maxwell andò a sottrargli nuovamente la palla.
La partita e le speranze di titolo dei Lakers finirono in quel preciso istante. Boston si aggiudicò la prima sfida. Bird vinse nettamente il primo duello.

Quella notte il playmaker dei Lakers non riuscì a chiudere occhio. Ricevette la visita di Isiah Thomas e Mark Aguirre, all’epoca i suoi due più intimi amici. Rimasero a parlare fino all’alba. Di musica, di macchine, di donne, dei vecchi tempi. Non ci fu alcun accenno alla partita appena terminata. Gli ultimi secondi di quella gara erano una ferita ancora troppo fresca per il Magico da Los Angeles.

Se il giovane Earvin aveva bisogno di dimenticare, qualcun altro voleva però ricordare, spargere sale sulla piaga. Kevin McHale, ad esempio, lo dileggiò in una celebrativa conferenza stampa parafrasando il titolo di un giornale californiano di qualche anno prima e definendolo “Tragic Johnson”.

La possibilità di rivincita per Magic e per Los Angeles arrivò comunque molto presto. Esattamente un anno dopo.
Correva la stagione 1984-85. Larry Bird vinse il suo secondo MVP consecutivo e condusse i Celtics al miglior record NBA. Dal canto suo Magic perse il trono di miglior assist-man della lega, battuto da Isiah Thomas. Los Angeles vinse 62 partite, appena una in meno rispetto a Boston.

Tutti sapevano che le due squadre si sarebbero ritrovate in finale. Nessuno aspettava altro che assistere ancora una volta all’epico scontro. Non rimasero delusi.

I Lakers si portarono avanti 3 a 2 nella serie, trascinati da un grande Jabbar. Durante i primi due quarti di gara 6, i Celtics ruotarono solo 7 uomini. All’intervallo il risultato era fermo sul 55 pari. Riley vide gli avversari palesemente a corto di fiato. Ordinò a Magic di metter loro pressione, di attaccarli senza sosta, di non preoccuparsi di perder qualche palla di troppo, l’importante era metterli alle corde.

Magic eseguì. Segnò 14 punti, distribuì 14 assist, tirò giù 10 rimbalzi, l’ennesima tripla doppia della sua carriera. Jabbar segnò 18 dei suoi 29 punti nel secondo tempo. E ai Celtics capitò qualcosa che mai era successo prima: perdere una serie finale in casa.
111 a 100 il risultato al suono della sirena. Gli ultimi secondi di gara 6 furono giocati in un silenzio quasi irreale. Un silenzio che era la più dolce delle melodie per i Lakers.

Magic esplose a fine gara in una felicità senza pari con un urlo liberatorio davanti ai microfoni dei giornalisti a bordo campo: “Li abbiamo finalmente sconfitti! Abbiamo battuto Boston, li abbiamo battuti in finale, qui al Garden! Era tantissimo tempo che aspettavo questo momento!”

Quella finale, quell’MVP vinto meritatamente da Jabbar, rappresentarono ufficialmente il passaggio di consegne fra il grande centro, ormai giunto alla veneranda età di 39 anni, e il giovane playmaker.

Nelle ultime dieci stagioni dei Lakers, Kareem era stato il fulcro dell’attacco della squadra, ogni singolo pallone era passato dalle sue mani, ogni singola giocata era stata concepita dalla sua esperienza cestistica. Da quel momento in poi non più. Gli acciacchi, l’età non più verde, ne avrebbero ridotto l’utilizzo. Da quel momento in poi tutto sarebbe passato dalle magiche mani del play col numero 32 stampato sulle spalle e il radioso sorriso stampato sul viso.

L’anno successivo fu tuttavia quello dell’apoteosi bianco-verde e di un Bird sul tetto del mondo al suo terzo MVP di stagione consecutivo. Los Angeles mancò la prima finale dopo quattro anni, battuta a sorpresa nell’ultimo atto della Western Conference dagli Houston Rockets delle Twin Towers, Ralph Sampson e Hakeem Olajuwon.

Ma già dall’anno successivo, la squadra giallo-viola tornò a giocare per l’anello. In stagione, con Jabbar fuori per infortunio, il ventisettenne Magic fece qualcosa che la maggior parte degli esperti reputava non sapesse fare: segnare.
Il 21 dicembre 1986 mise 38 punti e smazzò 16 assist contro i Rockets. Nella gara successiva, contro i Kings, mise 46 punti, 10 rimbalzi, 9 assist.

Viaggiò a 23.9 punti a partita, la media più alta della sua carriera, cui aggiunse 12.2 assist e 6.3 rimbalzi. Mentre la stella di Bird proprio da quell’anno cominciò lentamente ad appannarsi, quella di Magic stava per raggiungere il punto di massimo splendore.

Los Angeles vinse 65 partite in stagione. Magic conquistò il titolo di MVP di Regular Season, diventando la prima guardia a riuscirci dai tempi di Oscar Robertson.
Qualche giorno prima che fosse annunciato il vincitore, aveva più o meno scherzosamente dichiarato al Los Angeles Times: “In questo momento, lui [Bird] è a quota tre [MVP] e io sono fermo a zero. Questo sinceramente un po’ mi scoccia.”

Nei playoff quella dei Lakers fu una cavalcata senza ostacoli con 11 vittorie in 12 partite, passando su resti di Nuggets, Warriors e SuperSonics. Arrivò una nuova finale. Ancora contro Bird, ancora contro i Celtics. E stavolta non ci fu nessuno che resse il confronto con Magic. Quella finale fu il suo autentico capolavoro.

Gara 1 al Forum di Los Angeles fu subito showtime. Il ventottenne play realizzò 29 punti, 13 assist, 8 rimbalzi e non perse alcun palla. Worthy realizzò 33 punti e catturò 9 rimbalzi. I Lakers si portarono sul più 35 nel secondo quarto e arrivarono all’intervallo con un margine di 21 punti sugli avversari. La rimonta dei Celtics fu inesorabile, ma inutile: 126 a 113, il risultato finale.

In gara 2, K.C. Jones provò ad aggiustare gli equilibri difensivi della squadra. Spostò Danny Ainge su Magic e la mossa parzialmente pagò. Ma Cooper mise 6 triple su 7 nel secondo quarto. Jabbar segnò 23 punti con 10 su 14 al tiro. Magic piazzò 22 punti e 20 assist. Solo nel secondo quarto era riuscito a distribuire 8 assist, record per una finale NBA. La partita si chiuse sul 141 a 122.

I Celtics vinsero in gara 3, facendo leva sul loro immenso cuore e sul loro smisurato orgoglio. Solo per un attimo sembrò che la serie potesse essere ancora in bilico. Solo per un attimo sembrò che il vecchio cuore celtico potesse ancora dire la sua. Poi due giorni dopo arrivò gara 4. Al Boston Garden. E Magic Johnson scrisse la storia. La sua.

Boston era sopra di ben 16 punti all’intervallo e sembrava potesse portare la serie in parità per poi giocarsi i tutto per tutto nelle restanti gare. Los Angeles diede però il via a una furiosa rimonta. Le gambe e il fiato iniziarono a scarseggiare fra i biancoverdi.

A tre minuti e mezzo dalla sirena i Lakers avevano dimezzato lo svantaggio. A dodici secondi dalla fine un canestro di Larry Bird fissò il risultato sul 106 a 104 per Boston.
I Lakers rimisero in gioco la sfera. La palla arrivò a Jabbar. Il centro giallo-viola subì fallo. Mise il primo libero. Sbagliò il secondo. McHale volò a rimbalzo. Thompson lo spinse alle spalle. La palla volò fuori dal terreno di gioco. Per gli arbitri era stato McHale l’ultimo a toccare.

Nonostante le proteste dei biancoverdi e gli ululati del pubblico, Los Angeles – sotto di uno – si apprestò alla rimessa.
Magic ricevette palla e penetrò in area leggermente spostato sulla sinistra. Kevin McHale andò a mettergli pressione. Magic lo evitò, accentrandosi. Parish e Bird andarono verso di lui per ostruirgli la visuale del canestro. L’intera storica front-line dei Cletics a contrastare il 32 giallo-viola. Magic si alzò in aria e lasciò andare un gancio oltre le mani protese degli uomini simbolo di Boston. Solo rete. 107 a 106. Mancavano due secondi al termine della sfida.

I Celtics avevano ancora un possesso per vincere. I Lakers incredibilmente lasciarono libero Bird per la tripla. Ma la storia era già stata scritta. La palla scagliata con mano sicura entrò e uscì dal cesto. Poi ci fu solo il suono della sirena a decretare la fine delle ostilità.

I Lakers avevano vinto gara 4 grazie ad un gancio. Ma non era stato il Gancio Cielo di Jabbar. Era stato quello che lo stesso Magic ribattezzò con orgoglio Junior Sky Hook.
“Ti aspetti di perdere con i Lakers per colpa di un gancio. Quello che non ti aspetto è che a farlo sia Magic!” le parole di Larry Bird nel dopo partita.

Quello fu il match chiave della serie. I Lakers alla fine s’imposero in sei gare e Magic tornò a vincere per la terza volta il premio di MVP delle finali, all’epoca record di sempre. Tuttora solo Michael Jordan ha fatto meglio di lui.

Il giorno seguente la conquista dell’anello, davanti a una folla festante, Pat Riley promise solennemente il back to back nella stagione successiva. Erano diciannove anni che nessuna squadra centrava la storica impresa della doppietta.

I Lakers partirono nella Regular Season 1987-88 con otto vittorie consecutive. A metà anno Earvin saltò 10 gare per infortunio. Jabbar era in evidente declino fisico e il suo minutaggio venne ridotto al minimo indispensabile. Ma niente di tutto questo andò a turbare la corsa giallo-viola.

La squadra vinse 62 partite. Magic mise a segno 19.6 punti e smazzò 11.9 assist a partita. Arrivò secondo nella corsa all’MVP di stagione, preceduto soltanto da una giovane ed elettrizzante guardia di Chicago, che quell’anno si era messo in mostra oltre che per le ben note ed ineguagliabili capacità realizzative anche come miglior difensore della lega. Il suo nome era Michael Jordan.

Ad est, il primato andò ai soliti Celtics, ma forse la squadra che faceva maggiormente paura era quella dei Pistons. Detroit era giovane, forte e completa. Aveva la sua arma principale in una difesa aggressiva ed intimidatoria, basata su una notevole cattiveria agonistica dei suoi giocatori.

E fu proprio contro i Bad Boys di Detroit che i Lakers andarono a giocarsi la loro settima finale in nove anni. Fu una vera e propria guerra fra due modi opposti di concepire la pallacanestro, che si decise solo alla settima tiratissima partita.
Alla fine la spuntarono i giallo-viola. Worthy fu premiato MVP di una serie che Magic comunque chiuse con 21.1 punti, 13 assist, 5.7 rimbalzi a partita.
Era il quinto anello in otto anni per lui e per Los Angeles. L’ultimo di una favolosa dinastia che comunque non era ancora giunta al proprio capolinea.

Nei due anni successivi Magic vinse infatti altrettanti titoli di MVP di Regular Season, eguagliando nel computo totale il suo rivale Larry Bird. Los Angeles vinse rispettivamente 57 e 63 partite in stagione, consacrandosi come d’abitudine squadra regina della Western Conference.

Raggiunse le finali nuovamente nel 1989, ma stavolta a prevalere furono i Pistons di Thomas. Gara 4 di quella serie fu l’ultima partita in carriera dell’icona della pallacanestro mondiale, Kareem Abdul-Jabbar.

L’ultima finale, la nona in undici anni, arrivò invece nel 1991. Contro i Bulls e contro Michael Jordan per un naturale e meraviglioso passaggio di consegne fra i due migliori esterni nella storia del gioco.
Ovviamente il fulcro dell’intera serie ruotava sullo scontro ravvicinato fra Magic e MJ, i due più grandi sportivi del momento. Due simboli, due uomini Larger than life.

Nella conferenza stampa prima dell’inizio dell’attesissima sfida, il play di L.A. però volle subito smorzare le aspettative:
“Gravano molte cose sulle nostre spalle, molto di più di una semplice serie finale. Abbiamo addosso più pressione noi che qualsiasi altro giocatore nella lega. Ma sia chiara una cosa. Non sono qui per confrontarmi con Jordan, perché il futuro è suo.”

I Lakers persero quelle finali in cinque gare, ma Magic chiuse alle medie di 18.6 punti, 12.4 assist, 8.0 rimbalzi e 1.2 recuperi.
In quel momento aveva trentadue anni, un nuovo indomabile rivale davanti che aveva preso il posto di Larry Bird, era nel pieno della propria maturità cestistica e tanto aveva ancora da dare al mondo della pallacanestro.
Purtroppo per lui e per tutti noi, il fascino e le tentazioni di una città come Los Angeles presentarono però il loro doloroso conto.

Era il 24 ottobre del 1991, qualche giorno prima dell’inizio la nuova stagione, quando Michael Mellman, medico dei Lakers, ebbe con strano anticipo i risultati delle consuete analisi del sangue condotte sui giocatori giallo-viola. In particolare ebbe i risultati che riguardavano il giocatore simbolo della squadra.

Mellman rimase paralizzato dall’orrore quando scoprì che Earvin aveva contratto il virus dell’HIV.
Era quella un’epoca in cui la diagnosi di sieropositività rappresentava una sentenza di morte senza possibilità di appello. Era un’epoca in cui la cosiddetta peste del ventesimo secolo pareva colpire, quasi come una punizione divina, solo determinate categorie di persone: gli omosessuali, i tossicodipendenti e più in generale tutti coloro che vivevano nel peccato, nel vizio e nella depravazione. Era un’epoca in cui chi contraeva il virus, teneva segreto il proprio stato di malato per non essere escluso da qualsiasi forma di vita sociale, per non essere trattato come un reietto.

Mellman fece subito richiamare a Los Angeles il giocatore, quel giorno impegnato in una gara di pre-season a Salt Lake City.
Furono condotti a tempo di record ulteriori test, che purtroppo confermarono gli esiti infausti del primo.
Magic non venne convocato dai Lakers per l’inizio della Regular Season, ma la società evitò di fornire alla stampa una spiegazione dettagliata dei motivi dell’esclusione. Gli stessi compagni di squadra rimasero ignari della reale situazione. Addirittura, il 5 novembre, pressato dai giornalisti, l’allenatore Mike Dunleavy confermò di attendere a breve il reintegro in squadra del giocatore.

Due giorni dopo, però, il 7 novembre del 1991, lo stesso Magic Johnson convocò una storica conferenza stampa il cui ricordo è tuttora indelebile nella mente e nel cuore di tutti gli appassionati. Con poche semplici parole e persino un’ombra del suo meraviglioso sorriso sul volto tirato, diede al mondo la notizia della sua sieropositività. Spiegò con sollievo che la moglie e il figlio che loro attendevano, non risultavano aver contratto il virus. Infine si rivolse ai suoi ex compagni di squadra.
“Non sono morto” sentenziò quasi profeticamente. “E per quanto mi riguarda voglio vivere a lungo, venire qui a vedere le vostre partite e rompervi le scatole.”

Il dottor Mellman prese in seguito la parola. Volle precisare che Magic non era malato di AIDS e specificò la differenza fra il suo stato di sieropositivo e quello di malato. Sostenne che la situazione non produceva alcun effetto immediato sulla vita del giocatore, al quale era stato comunque sconsigliato di continuare l’attività agonistica per evitare un possibile peggioramento delle condizioni del sistema immunitario.

A 32 anni, con 12 stagioni da professionista alle spalle, cinque titoli, nove finali, Magic Johnson ufficializzò pertanto il proprio ritiro dall’attività agonistica.
Fu un momento storico non solo per lo sport, ma per l’intera società americana. La notizia fece in breve tempo il giro del mondo dopo che la CNN aprì un’edizione speciale del proprio telegiornale con le parole: “Magic Johnson è stato colpito dall’Aids. È la fine della sua carriera.”

Venne per la prima volta squarciato il velo d’ipocrisia e ignoranza che circondava la malattia. Con Magic la società si rese per la prima volta conto che l’Aids poteva colpire anche persone che conducevano una vita normale, che non erano omosessuali, che non erano affette da particolari patologie per cui avevano bisogno di trasfusioni, che non facevano uso di eroina.

In seguito alla vicenda, il numero delle persone che cominciarono a sottoporsi regolarmente ai controlli anti-HIV nella sola New York aumentò del 60% nel giro di un mese. Una nuova e produttiva consapevolezza s’impossessò della società americana.

Qualche mese dopo, nonostante l’addio al basket giocato, Magic fu votato dai tifosi in un commovente plebiscito nel quintetto per l’ovest all’All-Star Game di Orlando.
Seguirono le scontate polemiche. Alcuni giocatori, fra cui gli ex compagni di squadra Byron Scott e A.C. Green, ma anche l’ala dei Jazz, Karl Malone, espressero la loro contrarietà a farlo scendere in campo per paura di un contagio.

Alla fine prevalse il buon senso. Earvin partecipò alla gara delle stelle, accolto dal boato del pubblico della Florida. La Magia tornò, almeno per una notte, a incantare il pubblico. Il suo sorriso tornò a splendere e abbagliare il mondo.
Magic segnò 25 punti, distribuì 9 assist, catturò 5 rimbalzi, sfidò in uno contro uno Isiah Thomas e Michael Jordan, condusse l’ovest alla vittoria. Fu eletto MVP della partita.

Non fu quella l’ultima volta che calcò un campo di gioco. A fine stagione fu convocato nella selezione degli Stati Uniti che, in quel di Barcellona, avrebbe partecipato ai giochi Olimpici del 1992.
“Se vorrà, potrà venire e sarà il benvenuto” confermò il principe Alexander de Merode, presidente della Commissione medica del CIO.

Magic e il Dream Team incantarono il mondo per quello che neanche questa volta può essere considerato il suo addio definitivo al basket giocato, per via di un fugace ritorno di 32 partite in maglia Lakers a metà della stagione 1995-96.
Un’esperienza che, nonostante i trentasette anni e il lungo periodo d’inattività, nonostante i tanti chili di troppo e il consumo abituale di farmaci, giocando oltretutto da Power Forward, chiuse con 14.6 punti, 5.7 rimbalzi, 6.9 assist per gara e autentici bagliori di gran classe.

L’eliminazione al primo turno di playoff contro i Rockets sancì il definitivo saluto al grande pubblico della NBA.
Otto anni dopo, nel 2002, Earvin Magic Johnson varcò le soglie della Hall of Fame di Springfield, Massachusetts.

Ad oggi risulta il giocatore con la più alta media assist nella storia della NBA: 11.2 a partita. Media che si alza ulteriormente in post-season fino a raggiungere i 12.3 ad allacciata di scarpe.
Detiene il record di triple doppie realizzate in gare di finale ed è in assoluto il secondo giocatore della storia per triple doppie realizzate con 138, alle spalle dell’irraggiungibile Oscar Robertson.
Risulta tuttora uno dei sette giocatori della storia ad aver vinto almeno un campionato NCAA, un titolo NBA e una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici.

È infine universalmente considerato il miglior playmaker della storia del basket, una delle due migliori guardie, uno dei primi cinque giocatori, ma soprattutto il primo essere umano a riuscire a convivere più o meno pacificamente da oltre venticinque anni con il virus dell’HIV, contribuendo così ad alimentare la speranza in molte persone.

E questa rimane tuttora la sua più grande battaglia. La sua più grande vittoria.

 

 

NdA. Una breve informazione di servizio. Prima di procedere con le prime quattro posizioni, la classifica va in vacanza per un paio di settimane a godersi le meritate festività natalizie. Ci si rivede a gennaio.

4 thoughts on “5 – Magic Johnson

  1. Grazie Goat per i tuoi post. Sono esempi di grande cultura sportiva abbinata a una non comune capacità di sintesi.
    Sai regalare emozioni a tutti noi che ti leggiamo e aspettiamo sempre con impazienza il prossimo post..
    Buone feste. AV

  2. Si dice che Magic Johnson abbia rivoluzionato il basket, e penso che quest’affermazione sia vera.
    Ma quando parliamo del suo modo di giocare ciò non credo sia corretto. Ha fatto qualcosa di piú. Perché nessuno è mai riuscito a giocare come lui. Non solo perché è l’unico che sia stato in grado di ricoprire tutti i ruoli (per carità, con qualche limite come centro, ma a 37 anni se la cavò egregiamente come ala grande). Ma anche perché nessuno delle sue dimensioni ha mai giocato playmaker. Ci sono e ci saranno giocatori anche piú alti di lui con un ottimo trattamento di palla e una buona visione di gioco. Ma questi (James e Bird su tutti) al piú riescono a giocare come point forward. Che non è sicuramente poco. Fare il playmaker, dettare i tempi, condurre costantemente il gioco, è qualcosa di diverso, qualcosa in piú.
    Certo, potremmo citare Penny Hardaway, attualmente fa qualcosa di simile Shaun Livingstone. Ma siamo su altri livelli.
    Se lui ha detto che «Non ci sarà mai un altro Larry Bird», non è che di Magic all’orizzonte se ne vedano…

  3. In effetti la fissa del “nuovo Magic” è durata più di quella del “nuovo Jordan”. E a conti fatti ci sono stati nuovi Jordan, come tipo di giocatore, ma di nuovi Magic neanche l’ombra.
    Ora, se ho capito il metro dell’autore, direi che andiamo con Wilt,Kareem e Russell.

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