Un giorno di tanto tempo fa qualcuno scrisse: “Nel basket ci sono solo due certezze. La prima è che il dottor Naismith ha inventato il gioco. La seconda è che Bob Cousy l’ha reso una forma di arte”.

Parole che sono uno splendido tributo ad uno dei più grandi passatori nella storia della pallacanestro, il primo grande playmaker ad aver calcato un parquet di basket, il primo piccolo capace di imporsi in un’epoca in cui il dominio incontrastato apparteneva ai lunghi.

Robert Joseph Cousy, per tutti semplicemente Bob, era il motore dei meravigliosi Boston Celtics che a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 posero le basi per instaurare la più lunga e vincente dinastia nella storia dello sport professionistico americano.

A vederlo oggi, distinto signore di 86 anni, i capelli bianchi e radi, il viso gentile come si conviene ad un nonno dolce ed affettuoso, quasi si farebbe fatica a credere che ai suoi tempi Cousy sia stato uno dei giocatori più rivoluzionari nella storia della National Basketball Association.

Colui che per primo portò su un campo da basket quello spettacolo, pura adrenalina per i tifosi, che nel corso degli anni a venire avrebbe contraddistinto l’immagine della lega nel mondo.

Bob Cousy, un metro e ottantacinque per settantanove chilogrammi, possedeva in carniere armi che per compagni, avversari, pubblico ed allenatori erano rivoluzionarie e innovative.

Era veloce in un’epoca in cui, nella prima metà degli anni ’50, il basket era lento. Era un play dai folgoranti contropiedi in un’epoca in cui il gioco ristagnava nella metà campo.

La sua perfetta visione di gioco, i suoi passaggi dietro la schiena o sopra la testa, i palleggi fra le gambe, i repentini cambi di direzione, gli assist no look o quelli schiacciati, erano tutte cose sconosciute per la pallacanestro prima che la mitica casacca biancoverde con il numero 14 di Bob varcasse le soglie del professionismo.

Il suo gioco entusiasmava le folle, solleticava la fantasia del pubblico, conquistava, eccitava, faceva proseliti.
L’opinionista sportivo Jimmy Cannon lo ribattezzò “A thrilling dwarf among the frustrated giants”. Un eccitante nano fra giganti frustrati.

Per lui gli appellativi si sprecavano. È stato chiamato The Human Hightlights Flm prima di Dominique Wilkins. E’ stato definito “magico” quando ancora Magic era una gioiosa idea nella mente del Padreterno.

Ma il più delle volte a lui ci si riferiva come The Houdini of the Hardwood, Mr. Basketball o più semplicemente The Cooz.

Nei suoi tredici anni di NBA ha vinto sei titoli di cui cinque consecutivi, ha guidato la lega negli assist per otto stagioni consecutive. Per dieci volte di seguito è stato primo quintetto NBA (impresa riuscita solamente ad un altro giocatore, Bob Pettit). Ha partecipato in ogni singola stagione all’All Star Game e ne è stato l’MVP per due volte.

Nel 1960 è stato insignito del platonico titolo di più grande giocatore di sempre. Nel 2006, a oltre 40 anni di distanza dal suo ritiro, ESPN lo ha incluso al quinto posto fra i playmaker più forti di sempre.

Con il suo gioco ha segnato più di una generazione di play. Ha cambiato il modo di intendere il ruolo. E’ stato il precursore di quello che sarebbe stato il basket nei decenni a seguire.

Bob nacque nell’agosto del 1928 nell’East Side di Manhattan in una piccola casa senza acqua corrente da genitori francesi. Fino all’età cinque anni non conosceva l’inglese, parlava esclusivamente la lingua d’oltralpe.

Con il trasferimento nel Queens arrivò una vita leggermente più agiata, ma soprattutto l’incontro con la sfera arancione. In pochi anni Bob divenne uno dei prospetti più interessanti della Grande Mela.

Nel 1946 scelse per college Holy Cross a Wochester, nel Massachussets, vicino Boston. Una scelta importante perché i Crusaders giocavano le partite interne al Boston Garden. Ed il pubblico biancoverde non ci mise molto ad innamorarsi perdutamente di quel piccolo ed elettrizzante play.

Il feeling pressoché istantaneo fra il pubblico del Garden e Cousy giocherà un ruolo importante nell’immediato futuro del giocatore.

Bob infatti aveva forti difficoltà a trovare spazio e minuti in un basket ancorato a vecchie concezioni e tradizioni. Erano quelli gli anni di George Mikan, e sia a livello collegiale che a livello professionistico non c’era un coach disposto a pensare che una squadra che avesse velleità di vittoria potesse dar troppo spazio ad un esterno, per di più piccolo, minuto e veloce come una pallina da flipper.

Cousy passò gran parte del suo anno da freshman in panca.
Holy Cross si apprestava a vincere il titolo NCAA e Bob non riusciva ad imporsi in una squadra rodata e con un coach che non vedeva di buon occhio il suo stile di gioco.

Le cose iniziarono a cambiare il secondo anno, quando durante una fatidica sfida contro Loyola al Boston Garden, i Crusaders si ritrovarono sotto nel punteggio a cinque minuti dalla fine.

2012-bob-cousyIl pubblico del Garden iniziò ad invocare a gran voce la presenza di Cousy in campo.
A furor di popolo il coach Alvin Julian lanciò Bob nella mischia. E la partita cambiò. Il piccolo numero 14 siglò undici punti consecutivi e realizzò il tiro che consegnò la vittoria alla sua squadra.

Dopo di allora, le difficoltà a livello collegiale sarebbero scomparse. Cousy fu eletto per tre volte consecutive All American. Nel suo anno da senor portò la sua squadra ad una striscia di 26 vittorie consecutive.

Chiuse la carriera al college con 99 vittorie a fronte di 29 sconfitte.

Nel 1950 Bob era pronto per l’esordio fra i professionisti.
Boston che aveva chiuso la stagione con appena 22 vittorie e che non aveva ancora mai realizzato fino a quel momento un record positivo, poteva prendere Cousy.

Il pubblico premeva perché l’idolo del Boston Garden vestisse la maglia biancoverde. Ma Red Auerbach era contrario. Anche lui mal tollerava quel playmaker atipico e sfrontato. Soffriva letteralmente i suoi giochi di prestigio, i suoi dribbling, i contropiedi veloci, i passaggi rischiosi e telepatici.

Red scelse con la prima chiamata assoluta un lungo, il 2 metri e 10 Chuck Share. E si fece premura di dichiarare al deluso pubblico di Boston che la squadra aveva bisogno assoluto di un big man e che tre compagni di Cousy a Holy Cross avevano miseramente fallito in NBA.

Mentre Chuack Share non giocherà un solo minuto con la casacca dei Celtics, il nostro Bob fu scelto dai Tri-Cities Blackhawks.

Deluso dalla scarsa stima che Auerbach aveva dimostrato nei suoi confronti, Bob si ritrovò ad essere poco attratto dal mondo del basket professionistico. Rifiutò i 7.500 dollari di ingaggio che i Blackhawks gli offrirono e, incoraggiato dalla popolarità che aveva acquisito durante i suoi fantastici anni al college, aprì una distributore di benzina nel New England.

I Blackhawks cedettero quindi i diritti del giocatore ai Chicago Stags. Ma pochi giorni dopo quel trasferimento gli Stags fallirono. Chicago lasciava in eredità alla lega tre giocatori interessanti.

Max Zaslofsky era il più famoso. Poi c’erano Andy Philip e appunto Bob Cousy. New York, Philadelphia e Boston erano le franchigie che avrebbero dovuto spartirsi i tre players.

Il commisioner Maurice Podoloff cercò di mediare affinché si mettessero d’accordo ed evitassero una inutile mini-lotteria, ma tutti volevano il grande Zaslofsky e la mediazione saltò ancor prima di cominciare. Così, lotteria fu.

La vinsero i Knicks che si aggiudicarono i servigi di Max. I Philadelphia Warriors scelsero Andy Phillip con la seconda scelta e a Boston non rimase che prendere Bob Cousy.

Se da un lato Auerbach era furioso, il proprietario dei Celtics, Walter Brown, gongolava. La presenza di Cousy avrebbe garantito un’affluenza di pubblico al Boston Garden senza precedenti.

L’impatto coi Celtics per Bob non fu semplice.
Auerbach sin dal primo giorno di training camp lo trattò duramente. Non gli impedì di giocare come aveva sempre fatto, tanto valeva non farlo scendere proprio in campo a quel punto, ma non faceva mistero di non tollerare il basket di Cousy, andando letteralmente in escandescenza ogni volta che un suo passaggio avventato si trasformava in una palla persa.

Da grande conoscitore del basket quale tuttavia era, il coach col sigaro non ci mise molto però a capire che con Cousy aveva preso una colossale cantonata.

In seguito infatti il mitico Red si assumerà in pieno le responsabilità per quel clamoroso errore di valutazione. Per la serie anche i migliori a volte possono sbagliare.

“Raggiungemmo ben presto un accordo” ricorderà in seguito lo stesso Auerbach. “Io non mi sarei preoccupato del modo con cui passava la palla. Dietro le spalle, sopra la testa, in mezzo alle gambe, ma qualcuno avrebbe dovuto ricevere quel passaggio. Altrimenti ne avrebbe risposto lui in prima persona”.

Eppure con Cousy in cabina di regia i Celtics raggiunsero la prima stagione positiva della loro storia. Al suo primo anno Bob segnò 15.6 punti e smazzò 4.9 assist a partita.

George Mikan e i suoi Minneapolis Lakers continuavano il loro incontrastato dominio e quei Celtics erano ancora troppo deboli per fare strada nei playoffs, ma Cousy fu comunque la prima pietra dello squadrone che avrebbe dominato il mondo di lì a poco.

L’anno dopo arrivò Bill Sharman, dopo una stagione ai Capitols, che diventerà suo fraterno amico, compagno di reparto e di stanza. Il ventiquattrenne Cousy salì a 21.7 punti a partita e 6.7 assist, in entrambe le statistiche migliore fra i suoi.

La leggenda di Bob iniziò però a prendere pienamente corpo dalla stagione successiva.
Correva la Regular Season 1952-53. La terza di Cousy fra i professionisti.

Bob smazzò 7.7 assist a partita vincendo per la prima volta la relativa classifica. Una cifra esorbitante in un’epoca antecedente all’introduzione dei 24 secondi.

Nei playoffs Boston sweeppò i Syracuse Nationals. In gara due il giovane play fece registrare una prestazione dall’impatto mediatico impressionante. Quasi paragonabile a quella dei 100 punti di Chamberlain, nove anni dopo.

Bob realizzò 25 punti nei tempi regolamentari compreso il tiro libero all’ultimo secondo che impattò la partita sul 77 pari. Al primo overtime realizzò 4 dei 9 punti della sua squadra, compreso il canestro del nuovo pareggio all’ultimo secondo. Nel secondo tiratissimo OT siglò tutti e 4 i punti dei Celtics. Nel terzo ne realizzò 8, compreso il tiro del nuovo, ennesimo pareggio scagliato da 25 piedi di distanza.

Nel quarto overtime i Celtics andarono nuovamente sotto per 104-99. Cousy riprese in mano le redini del gioco realizzando 5 punti consecutivi e poi gli ultimi 4 del match, per un totale di 9 sui 12 complessivi dei Celtics.

Alla fine, dopo quattro supplementari e 3 ore e undici minuti di gioco, Boston vinse la partita per 111 a 105.
Per Cousy 50 punti in 66 minuti, una cifra stratosferica se inserita in un contesto che non prevedeva limiti di tempo per il tiro. Tanto più se realizzata da un playmaker, da un esterno, da un giocatore piccolo e minuto.

Boston venne eliminata in finale di Conference dai Knicks, ma al termine della stagione successiva venne introdotta una regola destinata a cambiare il futuro della pallacanestro: i 24 secondi per il tiro.

I punteggi salirono da una media di 79 a partita ad oltre 93 ed il gioco veloce e scoppiettante di Cousy ne guadagnò in maniera esponenziale.

Il ventisettenne Bob si apprestava a vivere gli anni migliori della sua carriera ora che il suo basket poteva pienamente esprimersi in un contesto più moderno e veloce.

Nel 1955 venne istituito il trofeo di MVP di stagione ed il primo ad aggiudicarselo fu l’ala dei St. Louis Hawks, Bob Pettit.

Per Cousy il riconoscimento di miglior giocatore di stagione era però solo rimandato di una stagione. Il 30 aprile del 1956 approdò infatti a Boston direttamente dall’università di San Francisco un giovane centro di cui si diceva gran bene. La sua peculiarità era la difesa. Il suo nome era Bill Russell.
E tutto cambiò.

Bill-Russell-and-Bob-CousyPer Cousy l’arrivo di Russell fu manna dal cielo. La sua presenza esaltava le doti di contropiedista e splendido passatore quale Bob era.

L’intesa fra i due fu pressoché perfetta fin da subito. I Celtics potevano schierare un asse play-centro a dir poco devastante. Fra i migliori che la storia della lega ricordi.

Boston incentrò gran parte del suo gioco su fulminei e letali contropiedi quasi sempre innestati in difesa da una delle classiche stoppate di Russell che recuperava il pallone, serviva il suo play che partiva con un razzo verso il canestro avversario per concludere in solitaria oppure per servire qualche compagno per un facile canestro.

Bob chiuse la stagione con 20.6 punti a partita, 7.5 assist, 4.8 rimbalzi. Vinse il trofeo di MVP di Regular Season.
I Celtics andarono a vincere il primo titolo della loro storia alla settima gara di una tiratissima finale contro i St. Louis Hawks di Pettit.

St. Louis si prese la rivincita in finale l’anno dopo (Russell però si infortunò durante quella serie), poi per Boston arrivarono 8 anelli consecutivi. Cinque di questi con l’immenso Cousy in cabina di regia.

Nel 1959 il titolo dei Celtics celebrò il primo sweep in una serie finale nella storia della NBA. Contro i Minneapolis Lakers del rookie Elgin Baylor.

Nel 1962, i Celtici batterono dopo 7 tiratissime gare in finale di Conference i Philadelphia Warriors del terzo anno Chamberlain che all’epoca viaggiava alle cifre di 50.4 punti a partita.

In finale affrontarono nuovamente i Lakers, che da tre anni si erano trasferiti in California. Era la prima Boston-Los Angeles nella storia della NBA.

Fu una seria memorabile. La serie dei 61 punti Baylor in gara 5. Dei 40 rimbalzi di Russell in gara 7.
Fu la serie di Cousy che all’ultimo secondo di gara 7 deviò miracolosamente il tiro della vittoria di Frank Selvy con il risultato inchiodato sul 100 pari.

All’overtime si impose Boston per 110 a 107. L’immagine simbolo di quella partita è Bob che negli ultimi istanti di gara palleggia inarrestabile inseguito da mezza squadra dei Lakers, mentre il pubblico del Boston Garden invade il parquet per festeggiare il quarto anello consecutivo, il quinto assoluto.

All’inizio della stagione successiva Bob che viaggiava verso le 35 primavere annunciò che quello sarebbe stato il suo ultimo anno in NBA, gettando nello sconforto più assoluto l’intero popolo biancoverde.

Per una curiosa coincidenza del destino, l’ultimo anno di Cousy coincise con il primo in maglia Celtics di John Havlicek, colui che diventerà uno dei giocatori simbolo della NBA per i successivi due decenni.

Boston vinse 58 partite, Russell fu eletto per la terza volta consecutiva MVP di stagione, Cousy chiuse con 13.2 punti e 6.8 assist a partita.

Il 17 Marzo del 1963 i Celtics ospitarono al Boston Garden, per l’ultima partita di Regular Season, i Syracuse Nationals. Si imposero per 125 a 116, ma a nessuno importava più di tanto il risultato. Quella gara infatti passò alla storia sotto il nome di “The Boston Tear Party”.

Si narra che al termine della stessa, quando Bob prese fra le mani il microfono per salutare il suo amato pubblico, gran parte degli spettatori avesse già gli occhi particolarmente lucidi.

Alle prime parole di commiato di Cousy tutto il pubblico si alzò in piedi e cominciò ad applaudire. Un minuto, due minuti, tre minuti e gli applausi non cessavano.

Bob rimase commosso al centro della scena, in silenzio ad ascoltare gli applausi che scrosciavano e che si protrassero ininterrottamente per venti lunghissimi minuti. Una scena da brividi con un favoloso epilogo.

Un urlo che si levò dagli spalti, quasi a sovrastare gli applausi. La voce di un tifoso speciale dei Celtics, Joe Dillon, che a squarciagola gridò: “We love ya, Cooz”.

A quel punto molti dei presenti erano letteralmente in lacrime. Quel momento, quell’urlo, quella voce, appartengono di diritto tuttora alla storia dei Boston Celtics.

Anche il presidente Kennedy, che di lì a pochi mesi avrebbe trovato una tragica morte in quel di Dallas, intese rendere omaggio al play biancoverde con la frase: “The game bears an indelible stamp of your rare skills and competitive daring”.

Cousy riuscì a chiudere la carriera con il sesto titolo, trionfando in sette partite in finale di Conference contro i Cincinnati Roylas, guidati da un immenso ma troppo solo Oscar Robertson, e poi battendo nuovamente i Lakers in finale.

I Celtics vinsero le prime tre gare, poi ne persero due. Andarono a Los Angeles per gara 6, sembrarono poter allungare facilmente, poi Bob si infortunò alla caviglia e abbandonò il terreno di gioco.

I Lakers, guidati da Baylor e West, iniziarono una furiosa rimonta. A meno di 3 minuti dal termine Auerbach chiese uno sforzo al suo play.

Cousy, zoppicante, rientrò in campo. Boston era ancora sul più uno, ma l’inerzia del match era tutto dalla parte di L.A.

Bob prese in mano la partita e la condusse sui binari da lui voluti fino alla fine. I Celtics si imposero per 112 a 109, anche grazie ai 18 punti, 7 assist, 3 rimbalzi e 2 recuperi in 30 minuti di gioco del suo play.

La gara si chiuse con la celebre immagine di Cousy che lanciava per aria il pallone mentre il suono della sirena sanciva l’ennesimo trionfo dei Celtics.

Era il 24 aprile del 1963. Era la conclusione più degna per la fantastica carriera di uno dei giocatori più amati e apprezzati di sempre. Di uno dei giocatori che maggiormente ha cambiato il modo di intendere la pallacanestro.
Il suo addio al basket giocato lasciava un grosso vuoto nella mente e nel cuore di tutti gli appassionati. Un vuoto difficilmente colmabile.

Per rivedere su un qualunque parquet d’America un playmaker che avesse la stessa visione di gioco, la stessa abilità nel passaggio, la stessa capaictà di essere decisivo, la stessa magia nel condurre il contropiede di Robert Joseph Cousy, l’intero popolo del basket avrebbe dovuto infatti aspettare quasi vent’anni.

Avrebbe dovuto aspettare Earvin Magic Johnson.

 

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