“Faster than a lizard’s tongue”.
Più veloci della lingua di una lucertola.
Così furono ribattezzate le mani di Walter Frazier, detto Clyde. Il numero 10 dei Knicks. Il fuoriclasse.

Uno dei migliori playmaker di sempre. Uno dei migliori rubapalloni di sempre. Uno dei migliori difensori di sempre. Soprattutto il più grande giocatore della storia dei New York Knickerbockers.
E scusate se è poco.

Eppure, sembrerà strano, Walt Frazier è stato molto più di questo.

Non il semplice play di una squadra due volte vincitrice dell’anello, le uniche nella storia dei Knicks.

Non un semplice impareggiabile difensore che ha combattuto duelli siderali con Jerry West, Oscar Robertson e soprattutto con il suo grande rivale e amico, Earl Monroe.

Non un magnifico realizzatore capace di segnare 36 punti e smazzare 19 assist in una gara 7 di finale. Non solo un sette volte primo quintetto difensivo o un 4 volte primo quintetto NBA.

Frazier è stato l’emblema di una squadra, di una città. Frazier è stato New York.

E New York è stata per lui la ribalta che l’ha spedito direttamente fra le icone immortali di questo sport. Per quello che ha fatto in campo, ma anche per quello che Walt ha rappresentato fuori dal terreno di gioco.

Eh sì, perché stiamo parlando di colui che sarà sempre ricordato come “The godfather of style”. La definizione stessa dello stile, colui che, quando in un’intervista gli chiesero cosa significasse essere cool, rispose candidamente: “Essere semplicemente me stesso!”.

6bf5bc222f7a6df682eb735bb1b09e41Personaggio pittoresco, carismatico, decisamente suggestivo, Frazier illuminava le serate al Madison, così come le nottate nei locali più alla moda della Grande Mela, dove solitamente si presentava nel suo classico abbigliamento gangster. Lunghi impermeabili decorati, completi gessati, scarpe bianche, enormi cappelli, basette folte.

Amava la bella vita, farsi fotografare con le più belle ragazze, frequentava ristoranti alla moda, sbarcava al Madison in Limousine o in Roll Royce. Per questo a New York e ben presto nel resto degli Stati Uniti divenne per tutti Clyde. Il gangster.

Nessuno però osava rinfacciargli la vita che conduceva. Perché in campo era semplicemente il leader di quei Knicks che contavano fra le proprie fila giocatori del calibro di Willis Reed, Dave DeBusschere, Bill Bradley.

La sua filosofia di gioco era semplice. Difesa aggressiva prima di ogni altra cosa, propensione naturale per il passaggio, ma se necessario realizzatore sopraffino.

Frazier, 194 centimetri di velocità , era un giocatore 30 anni avanti ai suoi tempi.
Il Fred Astaire del parquet come lo amavano spesso definire. Elegante, sinuoso, carismatico, mai sopra le righe, con un’aura di imperturbabilità che lo rendeva diverso da tutti gli altri. Cool, appunto.

Eppure le sue origini erano in completa antitesi con quella che sarebbe stata la sua vita. Nacque ad Atlanta, Georgia, profondo sud, il 29 marzo del 1945. Primo di nove figli di una famiglia non certo ricca.

Frequentò la Howard High School, un istituto per soli afroamericani in un’epoca in cui la segregazione razziale negli Stati del sud era un imperativo categorico.

Dimostrò sin da subito un notevole talento per gli sport nella concezione più ampia del termine. Giocava divinamente a basket ma era anche un eccellente quarterback nel football e un discreto catcher nel baseball.

Nel 1963 ricevette numerose proposte per entrare a far parte della squadra di football di svariati college, ma lui scelse il basket. Scelse il piccolo college di Southern Illinois, dove specialmente a quei tempi la visibilità era molto scarsa.

Nel 1965-66 un infortunio lo tenne lontano dai campi di gioco, ma l’anno dopo trascinò Southern Illinos alle Final Four del NIT, torneo che all’epoca aveva una grande importanza.

Le finali si disputarono al Madison Square Garden di New York. E nel palazzetto che vide la nascita della sua leggenda, Frazier trascinò i suoi alla vittoria. Souther Illinois divenne il primo piccolo college ad aggiudicarsi il NIT.
Walt fu MVP delle finali.

Per Red Holzman, a quei tempi scout dei Knicks, fu amore a prima vista. NY aveva la quinta chiamata al draft. Walt sopravvisse alle prime quattro, così il suo destino fu blu-arancio.

Frazier, all’epoca non poteva saperlo, ma lui rappresentò la tessera finale per la squadra che di lì a tre anni si sarebbe ritrovata sul tetto del mondo. Il suo arrivo permise infatti alla dirigenza di spedire l’anno successivo Wat Bellamy e l’allora playmaker Komives a Detroit in cambio DeBusschere.

L’impatto di Clyde nella NBA non fu memorabile. Era la riserva di Komives, aveva pochi minuti, prendeva pochi tiri. Chi non lo conosceva bene, avrebbe potuto definirlo timido.

Poi a metà stagione Holzman prese in mano le redini della squadra, sostituendo il coach Dick McGuire. E tutto cambiò. Il minutaggio di Walt aumentò, così come la sua sicurezza e la confidenza con il basket pro.

I Knicks, che con McGuire avevano un record di 15 vinte e 22 perse, chiusero la Regular Season con 43 vittorie e 39 sconfitte. Primo record positivo della squadra dal 1959.

Frazier terminò la stagione con 9 punti per gara e il primo quintetto rookie, in compagnia ad un altro Knicks, quel Phil Jackson di cui in seguito un po’ tutti sentiranno parlare.

Nonostante il primo anno non entusiasmante da un punto di vista numerico, l’intera NBA si era accorta delle enormi potenzialità del giocatore. Della sua velocità , della sua difesa, della sua maturità.

“La cosa più strabiliante di Walt sono le sue mani. Veloci come nessun giocatore abbia mai avuto. I suoi anticipi, le sue palle rubate sono da manuale del basket” dirà a fine stagione Holzman.

Cui faranno eco le parole di Bradley: “L’unico giocatore che potrei definire un artista, con un approccio artistico alla partita!”.

E sull’approccio di Frazier alla partita si potrebbero scrivere manuali.

La sua era una difesa cerebrale. Studiava l’avversario sin dalla palla a due. Gli lasciava campo. Ne valutava i movimenti, la velocità , i gesti, il passo. Poi quando era il momento giusto, gli portava via la palla. Non una qualsiasi. Quella risolutiva. Tutto grazie alle sue mani. Veloci come la lingua di una lucertola.

Si narra che una notte appoggiato al bancone di un bar di New York, Walt spostò inavvertitamente col gomito un bicchiere. Un bicchiere destinato a frantumarsi al suolo. Se non fosse stato per le sue mani. Lo afferrò al volo, senza far cadere una goccia d’acqua.

“Mi spaventai nel realizzare quanto le mie mani fossero rapide…” dirà lui stesso ricordando l’episodio.

Al suo secondo anno Walt partì titolare. Segnò 17.5 punti per gara. A fine stagione venne per la prima volta incluso nel primo quintetto difensivo della lega. Un onore che gli toccherà per altre sei volte. Consecutive.

I Knicks vinsero 54 gare, terzi nella Eastern alle spalle di Bulletts e Sixers. Nei playoffs sweeparono con irrisoria facilità Baltimore. In finale di Conference si ritrovarono di fronte gli invincibili Celtics di Russell, al loro canto del cigno.

Battere Russell era un’impresa improba per chiunque. Ma NY uscì a testa alta dal confronto, perdendo in 6 gare.
La stagione della consacrazione fu la 1969-70, terza per l’ormai affermato Frazier. La prima senza Bill Russell. Con lo scettro del Re vacante.

I Knicks partirono forte. Vinsero le prime 5 partite, poi si portarono sul 23-1, nuovo record di franchigia.
Chiusero l’anno col miglior record della lega, 60 vittorie a fronte di 22 sconfitte, frutto comunque di un rilassamento generale nel finale di una Regular Season ampiamente dominata (quattro sconfitte nelle ultime ininfluenti quattro partite).

Holzman aveva messo in piedi una squadra che, nonostante le grandi individualità , faceva del collettivo la propria forza. Difendevano in cinque, attaccavano in cinque.

Fu in questo periodo che Phil Jackson, centro di riserva della squadra, poneva le basi della sua filosofia cestistica, fatta di difesa dura e incentrata sul famoso (o famigerato) “Attacco Democratico” con cui anni dopo proverà a sfondare nella CBA.

Il migliore realizzatore della squadra era Reed, appena quindicesimo nel ranking della categoria. La difesa concedeva 105.9 punti agli avversari. Almeno sei in meno rispetto a tutte le altre squadre della lega.

Fu appunto durante quella stagione che nacque il rinomato grido che oggi ascoltiamo in tutte le arene d’America. Il celeberrimo Dee-Fense, Dee-Fense. Lo introdussero i tifosi dei Knicks, quando nel quarto periodo New York alzava il muro. E segnare era un’impresa per chiunque.

Walt realizzò 20.9 punti a partita e smazzò 8.2 assist. Oltre che primo quintetto difensivo fu anche primo quintetto NBA. Fece il suo esordio all’All Star Game.

Al primo turno dei playoffs duellò con l’eterno rivale Earl Monroe. I Knicks vinsero in 7 tiratissime gare.

In finale di conference l’avversario si chiamava Lew Alcindor, meraviglioso rookie dei Milwaukee Bucks, divenuto in seguito famoso in tutto il mondo col nome di Kareem Abdul Jabbar. New York si impose in cinque gare e volò alla finale NBA.

Quello era il vero banco di prova per la squadra e soprattutto per Frazier, cui spettava la sfida più dura.
Ad attendere i Knicks c’erano i Lakers.

Ad attendere Walt c’era nientemeno che Jerry West, il limite massimo e all’epoca insuperabile nel ruolo di guardia, il metro di paragone con cui confrontarsi per entrare fra le leggende di questo sport.

La serie sembrava segnata in partenza. Frazier pagava un gap di esperienza nei confronti di West. Reed pagava un gap di chili, centimetri ed esperienza nei confronti di Chamberlain.

Eppure quella serie fu il capolavoro dei Knicks. Il capolavoro di Holzman. Di Reed. E ovviamente di Frazier.

Prima di gara uno, Holzman chiese a Walt esclusivamente una solida marcatura su West. Nient’altro. Non poteva pretendere nulla di più dal suo giovane play.

Avrà molto più di quello.

In gara 1, il venticinquenne numero 10 prese solo cinque tiri, impegnato com’era a contenere l’incontenibile Jerry che lo caricò di falli. Poi a cinque minuti dalla fine con i Lakers sotto di uno ed in piena rimonta, la sua mano saettò. Veloce.

La palla scomparve dalle mani di West e apparve fra quelle di Frazier che volò a canestro. Era il più 3 Knicks che rintuzzava la rimonta di L.A.

Frazier chiuse la partita con soli 6 punti e 6 assist in 30 minuti di gioco, limitato dai falli. Ma era stato il protagonista della giocata più importante della partita.

In gara 2, andò di tripla doppia. 11 punti, 11 assist, 12 rimbalzi. Ma ancora una volta West l’aveva caricato di falli. Frazier passò gli ultimi nove minuti in panca. I Lakers vinsero e ribaltarono il fattore campo.

Dopo le prime due gare Walt per la prima volta nella vita dichiarò la sua difficoltà nel contenere un diretto avversario: “Non posso cercare di portargli via la palla. Mi sbilancio e lui è velocissimo a raccogliere e tirare. Devo cercare nuove soluzioni!”. E le nuove soluzioni arrivarono.

In gara 3 i Knicks vinsero all’overtime. West che aveva segnato il tiro del pareggio allo scadere da canestro a canestro fu per la prima volta nella sua carriera limitato da un avversario per un lungo frangente di gioco. Sbagliò infatti 10 tiri consecutivi fra quarto periodo e supplementare.

I Lakers si rifecero in gara 4, sempre all’OT.

Gara 5 fu la storica partita dell’infortunio di Reed. Della zona di Holzman. Dei 21 punti, 12 assist e 7 rimbalzi di Frazier. New York vinse la partita più difficile.

Perse gara 6.

Poi la storica, indimenticabile settima partita. Il rientro di Reed, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nell’articolo dedicato al centro dei Knicks, l’impatto psicologico su compagni, pubblico, avversari.

Ma New York non avrebbe mai vinto quell’anello, senza la più grande prestazione di un singolo giocatore in una gara 7 di finale.

Frazier realizzò 36 punti, con 12 su 17 dal campo e 12 su 12 ai liberi, cui aggiunse 19 assist, 7 rimbalzi, 5 recuperi. E la giocata che spezzò definitivamente il morale dei Lakers e di West.

Un uno contro uno su Jerry. Una finta, l’avversario sbilanciato, il volo a canestro e poi anziché la schiacciata, la palla appoggiata al tabellone, a segnare e subire il fallo per il gioco da tre punti.

“In quel preciso istante West aveva perso il controllo. Sapevo che non gli era mai successo di essere battuto così. Sapevo che era un evento. Avevo battuto il loro leader. I Lakers erano nostri”.
E per i Knicks fu l’anello. Il primo, sorprendente titolo.

“I always tried to hit the open man when I played, but hey, that night I was the open man” dichiarerà lo stesso Frazier anni dopo quella partita.

Walt non vinse il trofeo di MVP delle finali, come onestamente sarebbe stato giusto, oscurato dall’eroica prestazione di Willis Reed.

Si narra che il play, al termine della serie, ebbe quasi una crisi di rigetto nei confronti della lega e della squadra per non aver ottenuto in quella finale il credito che avrebbe meritato.

Ma già dalla stagione successiva fu tutto dimenticato. Frazier realizzò 21.7 punti per partita.
I Knicks raggiunsero le finali di Conference ma persero in 7 gare contro i Baltimore Bullets di Monroe, dopo essere stati avanti nella serie dapprima per 2 a 0 e poi per 3 a 2.

Baltimore arrivò a giocare le finali contro i Bucks degli immensa leggenda Robertson e del giovane Jabbar, ma subì uno sweep. Quella stessa estate Earl Monroe salutò la squadra.

Sorpresa delle sorprese, con destinazione New York.
Fra lo sbigottimento generale, Earl the Pearl, al secolo Black Jesus, approdò nella Grande Mela.

C’era molta curiosità , ma soprattutto scetticismo fra tifosi e addetti ai lavori per la convivenza dei due acerrimi rivali, Frazier e Monroe, nella stessa squadra. Nell’ ambiente si scommetteva su quanto tempo i due sarebbero durati insieme.

Invece stava venendosi a formare uno dei migliori backcourt di sempre, sicuramente il più bello da vedere. Una coppia di esterni semplicemente irresistibile. The Roll Royce Backcourt, come presto fu soprannominato.

Monroe partì dalla panca per tutta la sua prima stagione al Madison (1971-72), mentre Frazier disputò un’annata da primo quintetto NBA.

I Knicks vinsero 48 partite, superarono nei playoffs Baltimore e Boston, dunque approdarono in finale. Ancora contro i Lakers che venivano da un’annata stratosferica conclusasi con 69 vittorie e 13 sconfitte, in quel momento record di sempre nella NBA. Record che verrà battuto solo ventiquattro anni dopo dai Bulls di Jordan.

Los Angeles si impose per 4 gare ad 1, portando per la prima volta l’anello in California dopo tante cocenti delusioni. Ma New York si prese la rivincita l’anno dopo.

Holzman lanciò sin da subito nella Regular Season successiva Monroe in prima squadra. E al Madison fu ancora una volta spettacolo. “He’s fire. I’m ice” le parole con cui Frazier presentava se stesso ed il suo compagno di reparto.

Con un Willis Reed che aveva visto notevolmente ridurre il suo apporto in termini numerici, Frazier fu il leader della squadra in punti (21.1 a partita), assist (5.9) e terzo alla voce rimbalzi (ben 7.3). Finì nel secondo quintetto della lega e per il quinto anno consecutivo nel primo quintetto difensivo.

I Knicks piegarono i Celtics di Havlicek e Cowens in finale di Conference. Frazier realizzò 37 punti in gara 4, trascinando i Knicks sul 3 a 1 nella serie. Poi l’enorme cuore di Boston portò la squadra in maglia verde a impattare la serie in gara 6, nonostante i 29 punti di Frazier.

In gara 7, i Knicks andarono però ad espugnare l’inespugnabile Boston Garden grazie a 25 punti dello stesso Walt.
In finale New York ritrovò per la terza volta Los Angeles.

I Lakers vinsero gara 1, quella che Frazier definì la peggior partita di Playoffs della sua vita. Poi furono 4 vittorie consecutive per i blu-arancio. E fu il secondo anello.

Ancora una volta per limitare il grande Jerry West, Walt dovette sacrificarsi alla causa. Il suo apporto offensivo ne risentì. Willis Reed fu eletto nuovamente MVP delle finali, ma ancora una volta la chiave del successo, il fuoriclasse dei Knicks, il numero 10, era stato lui.

Frazier giocò altri 4 anni nella Grande Mela, con ottimi numeri, ma senza più fare grande strada nei playoffs.
Disputò altri 3 All Star Game. Nel 1975 vinse il trofeo di MVP della partita realizzando 30 punti.

Finì costantemente nel primo quintetto difensivo, risultando l’unico giocatore ad averne sempre fatto parte dall’istituzione dei quintetti nel 1968 fino al 1975.

Nell’ottobre del 1977 venne ceduto ai Cavs, in cambio di Jim Clemmons. L’allenatore dei Knicks era diventato il suo ex compagno di squadra Willis Reed.

Si mormora che la trade fu orchestrata dallo stesso Reed perché sentiva che non avrebbe potuto avere leadership sui giovani con una leggenda vivente come Clyde in spogliatoio.

Frazier abbandonò NY come miglior realizzatore e miglior assistman nella storia della franchigia. In quel momento probabilmente era la miglior guardia difensiva nella storia della lega, forse, per quanto i paragoni siano improbabili, il miglior difensore di sempre dopo Bill Russell.

A Cleveland giocò due stagioni, falcidiato dagli infortuni. All’inizio della terza, dopo appena tre gare decise di ritirarsi. Aveva 34 anni. Lo stesso anno la sua maglia numero 10 pendeva dal soffitto del Garden.

Nel 1987 fece il suo ingresso nella Hall of Fame di basket.
Clyde, il personaggio più cool che abbia mai attraversato un parquet NBA, era diventato ufficialmente leggenda.

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