Dalla prima edizione del 1951 ad oggi, l’All-Star Game non è sempre stato la parodia cestistica attuale, ridotta ad evento promozionale, nel quale si servono talmente tanti antipasti, da trasformare la portata principale in un inutile orpello, interpretato come tale dalle stesse star dell’evento. Nel corso degli ultimi anni, la gara delle stelle è diventata un incontro senza intensità, pathos, privo di una pur labile parvenza di difesa (non è solo questione di punteggio).

C’è stato un tempo in cui le stelle erano davvero onorate d’esser state scelte (eccezion fatta per Karl Malone e Tim Duncan!), e scendevano in campo per entusiasmare il pubblico, per esibire il meglio del loro repertorio tecnico, e per provare il piacere di giocare in un contesto di squadra unico, superabile solo da quell’incredibile jam-session di talenti denominata Dream Team.

L’NBA è da sempre patria di ego ingombranti (e state leggendo, proprio in questi giorni su Play.it, la storia di Wilt Chamberlain, che è emblematica dell’assunto), e solo gli ingenui credono alla favoletta dei bei tempi andati, però tra un ego ipertrofico e l’altro, fino a qualche anno fa restava ancora spazio per la competizione, la grande assente dei moderni All-Star Game.

Durante l’All-Star del ’98, Kobe Bryant provò a sfilare lo scettro a Michael Jordan davanti al parterre del Madison Square Garden, e prima ancora, negli anni ’60, Wilt Chamberlain e il suo amico/rivale Bill Russell hanno dato vita a tante sfide memorabili in campo, oppure fuori, come l’All-Star del 1964, che sarà sempre ricordato come l’occasione nella quale i giocatori si unirono per costringere il Commissioner J. Walter Kennedy a concedere quella contrattazione collettiva che ci sembra tanto scontata.

Nel 2001 Allen Iverson vinse la partita con una rimonta furiosa negli ultimi minuti, e nel 2003, ad Atlanta, Kobe e KG rovinarono la festa a Jordan, che stava disputando il suo ultimo All-Star. Nel 1992, ad Orlando, la NBA diede un grande contributo alla battaglia contro i pregiudizi che circondavano l’HIV, quando Magic Johnson rivestì la sua maglia numero 32 per incantare un’ultima volta (o così si pensava) il mondo dei canestri.

Oggi l’All-Star non ha lo stesso impatto emotivo che aveva allora: l’appuntamento un tempo imprescindibile per ogni malato di NBA, è diventato un happening senza nerbo, una recita svogliata e difficile da digerire per chi ama la pallacanestro autentica, e non quella modaiola seguita su Twitter; è una kermesse dal sapore vagamente sanremese, guardata più per abitudine che per autentico interesse.

Questa china è stata intrapresa, a ben vedere, sin dal Rookie Challange del 2004, quando, sul finire della partita, alcuni giocatori improvvisarono una gara delle schiacciate, alzando la palla… agli avversari!

Fu uno spettacolo tanto triste da spingere l’allora Commissioner David Stern ad una reprimenda, ma col senno di poi, quella gara rappresentava il biglietto da visita della generazione banana-boat, quella per cui vincere per atteggiarsi è molto più importante che competere per primeggiare.

Gli imberbi Melo e LBJ, ai tempi del Rookie Challange ’04


Intendiamoci, nessuno vuole che i giocatori di guardardino in cagnesco
, o che non si frequentino tra loro, ci mancherebbe altro. Però un conto erano Isiah Thomas (quello di Detroit, e non il folletto che oggi incanta Boston) e Magic, che si scambiavano baci e abbracci prima di sfidarsi, ma poi in campo non si risparmiavano nulla, un altro sono gli amiconi la cui massima ambizione sembra essere di giocare tutti assieme “per vedere l’effetto che fa”.

Le ultime generazioni di stelle appaiono sedate, spaventate a morte dagli spigoli e dal confronto autentico, quello faccia a faccia. Nessuno vuol essere messo imbarazzato, e così, per evitare di turbare gli animi, i difensori si scansano: il fatturato della partita di New Orleans conta due sole stoppate all’attivo (titolari Gasol e Giannis, e non è un caso). Quanto sono lontani i tempi in cui T-Mac (che peraltro, non era certo un mastino) rispediva al mittente il tiro di Bryant!

In telecronaca, due grandi ex giocatori come Reggie Miller e Chris Webber hanno giustamente sottolineato l’inadeguatezza dello “spettacolo” offerto allo Smoothie King Center, opinione evidentemente condivisa dal Commissioner Adam Silver (e da Chris Paul, presidente dell’associazione giocatori), che però poi se n’è uscito proponendo di introdurre il tiro da 4 punti, uno stratagemma destinato ad incentivare uno scriteriato tiro al piccione.

L’idea della NBA è forse quella di aggiungere spettacolo e “gimmick” da wrestling (un’altra proposta di Silver è di far scegliere i quintetti ai capitani, un’altra ancora è il tiro da 10 punti), anziché riportare il gioco alla sua purezza, intesa come competizione svolta secondo un set di regole prestabilite, ma d’altronde, è molto difficile imporre ai giocatori un approccio da “right way” che non capiscono.

Forse la componente di “showbiz” è entrata sotto pelle all’NBA a tal punto da essere diventata ineliminabile, con il risultato di allontanare i puristi –che lo siano o meno, è un altro paio di maniche: sono in ogni caso spettatori che si sfilano in favore di NCAA o Eurolega– dalla più bella lega del mondo, percepita come un circo privo di autentica sostanza.

D’altronde non è nemmeno giusto buttare la croce addosso alle stelle attuali: da chi avrebbero dovuto imparare ad amare il basket in quanto sport, e non in quanto fonte di guadagno e di appagamento personale? Dai circuiti AAU, attorno ai quali ruota l’intero movimento giovanile? Dai loro allenatori di college, che li hanno conosciuti per massimo otto mesi, lavorandoci ben poco, grazie ai regolamenti NCAA, tesi a reggere la pantomima dello sportivo-atleta non professionista?

In fondo, gli ascolti dell’All-Star Game restano ottimi (quasi otto milioni di spettatori nei soli USA, mai così bene dal 2013), segno che questo tipo di show piace – forse non agli appassionati “old school”, ma di certo aggrada al nuovo seguito che l’NBA si è costruita, interessato all’aspetto “cool” del gioco, al concerto di John Legend e di The Roots, ai gadget, e pazienza se non si gioca ventre a terra per 48 minuti.

Alcuni commentatori hanno ventilato l’ipotesi di seguire l’esempio dell’MLB, che fino al 2016 assegnava il fattore campo della World Series alla Conference vincitrice l’All-Star, ma ci sembra una trovata particolarmente iniqua. L’home-factor se lo dovrebbe guadagnare la squadra che gioca meglio per 82 partite, e non solo le stelle convocate all’All-Star; tant’è che anche il baseball ha fatto retromarcia.

Altri ancora sono tornati alla proposta di un bonus milionario per la squadra vincente, ma è deprimente pensare che le stelle più pagate di tutta la NBA abbiano bisogno di altri soldi per scendere in campo e giocare decentemente, con un’intensità almeno pari a quella di un allenamento! In fondo l’All-Star dovrebbe essere una festa, in primis per le stelle che ricevono l’onore della convocazione.

Se invece avvertono la chiamata come un peso che gli impedisce di trascorrere una settimana di vacanza alle Bahamas, allora potrebbe valere la pena di sospendere l’All-Star fino a data da destinarsi, ma perché mai la NBA, che dall’anno prossimo vedrà comparire gli sponsor sulle maglie, dovrebbe percorrere questa strada?

A ben vedere, potrebbe valere la pena perdere qualche dollaro nell’immediato, per salvaguardare il marchio a lungo termine, ed evitare di svalutarlo con un prodotto francamente mediocre. In futuro, è probabile che lo stesso gruppo di lavoro misto (giocatori e proprietari, tra i quali MJ, Wyc Grousbeck e Jeanie Buss) che ha partorito l’attuale CBA si raduni per discuterne e trovare una soluzione.

Nel frattempo, possiamo tirare un sospiro di sollievo, pensando che la competizione è viva più che mai proprio dove conta maggiormente, e cioè in Regular Season e ai Playoffs. Certo, ai più sofisticati potrà non aggradare particolarmente la tendenza a costruire super-team, ma se non altro, quando il gioco si farà duro, nessuno, ma proprio nessuno, si tirerà indietro!

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