La vita di Muhammad Ali le sue imprese (sportive e non) si descrivono da sole, senza bisogno che qualcuno le racconti, magari indorando la pillola; sono perfette nella loro verità, accompagnate dalle parole, spesso indimenticabili, a volte irritanti o divertenti, del più grande sportivo di tutti i tempi.

Lo definiamo tale consci del peso delle parole, convinti della grandezza di Ali, sconfinata sul ring (che dominava a volte in modo disarmante) e capace di andare oltre il semplice “ispirare le masse” o una popolarità fine a sé stessa. Muhammad Ali è il più grande perché quando aveva tutto, e gli sarebbe bastato starsene buono per averne ancora di più, non ha taciuto, rischiando in prima persona e facendosi veicolo delle idee nelle quali credeva.

William Rhoden scrisse sul New York Times: “Le azioni di Ali avevano cambiato la mia percezione della grandezza di un atleta; avere un tiro letale, oppure sapersi fermare sul proverbiale centesimo, non era più abbastanza. Che cosa stavi facendo per la libertà del tuo popolo? Che cosa stavi facendo per tener vivo il patto posto a fondamento dei principi del tuo Paese?”.

Sin dagli esordi Ali è stato un archetipo, un inno di debordante gioventù (a volte anche caciarona), entusiasta e idealista, di una schiettezza in netto contrasto con quello che allora era l’establishment e che oggi non è scomparso, ma ha solo imparato a mimetizzarsi meglio.

Nel 1966 Ali si rifiutò di prestare servizio militare (per i giovani delle classi povere, soprattutto per i neri, significava finire in Vietnam a fare la roulette russa con la propria vita, mentre i ricchi si imboscavano in Canada o nella Guardia Nazionale). Ali già campione dei Pesi Massimi, aveva l’Olimpiade di Roma del ’60 in tasca, e con tutta probabilità se la sarebbe potuta cavare mettendosi un elmetto e stringendo un po’ di mani; nessuno l’avrebbe mai veramente mandato a sparare ai Charlie nordvietnamiti.

Cassius Clay non era l’unico a opporsi al sistema (Mike D’Antoni si rifiutava di vestire l’uniforme anche solo per le foto di rito), ma nessuno ha colpito l’immaginario collettivo quanto questo giovane uomo, pieno di vita e di baldanza, che pure accettò il rischio (per nulla ipotetico) di passare alcuni dei suoi migliori anni dietro le sbarre.

Quanta distanza tra la sua statura morale, e tante altre “leggende” dello sport, che non si sbilanciano mai, per non turbare gli sponsor (Michael Jordan non spese una sillaba per il Democratico Harvey Gantt, in corsa per un seggio al Senato contro il dichiarato razzista Jesse Helms, uscendosene con la triste frase “anche i repubblicani comprano scarpe da ginnastica”).

Muhammad Ali ci ha lasciato un sacco di frasi memorabili, che a ripeterle suonano false, ma in bocca a lui, erano inequivocabilmente vere, e facevano venire voglia di seguirlo; il suo carisma ci proiettava in un mondo in cui tutto era possibile, bastava avere il coraggio delle proprie ambizioni.

È stato talmente grande, Ali, da rendere immortale non solo un nome, ma due: quello “da schiavo”, Cassius Marcellus Clay Jr., e il nome attribuitogli da Elijah Muhammad, il controverso leader della Nation of Islam.

Ha trascinato con sé, in gloria, anche i co-protagonisti delle sue più indimenticabili battaglie: Sonny Liston, cui tolse il titolo di campione dei Massimi, Joe Frazier, che fu anche il primo a batterlo, e poi George Foreman, con l’irripetibile cornice del Rumble in the Jungle, nel ’74 a Kinshasa, in quello che allora era Zaire.

Sul ring, Muhammad Ali non era il classico peso massimo; vinceva, come recita lo slogan (da lui stesso coniato, ça va sans dire) “vola come una farfalla, pungi come un’ape”, declinato secondo un paradigma di coordinazione e rapidità di piedi ineguagliate nella storia della boxe, un mix galvanizzante di rischio e potenza, di sfrontatezza e coraggio.

Persino Wilt Chamberlain pensò di sfidarlo sul ring, ma poi, saggiamente fece retrofront, quando Ali gli profetizzò che “l’albero sarebbe venuto giù”. Quattro matrimoni, nove figli, Muhammad Ali non ha avuto la vita privata impeccabile che piace ai puritani americani, ma la sua è stata comunque un’esistenza impossibile da romanzare, perché possiede in sé una bellezza unica, tale da attentare alla perfezione.

Un’esistenza divisa tra sport, impegno politico e sociale, tra successi incredibili (per assurdo, sia con Liston che con Foreman, il “più grande di tutti” partiva da sfavorito), cadute e ancor più clamorosi ritorni; l’hanno raccontata in tanti, con alterno successo, tra i quali ci sentiamo certamente di consigliarvi il documentario premio Oscar “Quando Eravamo Re”, uscito dopo vent’anni di gestazione.

Oppure ancora, “The Greatest” un biopic non indimenticabile, che pure racconta Ali dal punto di vista del protagonista, o “Ali”, di Michael Mann (l’autore di Manhunter e The Insider) con un Will Smith protagonista che non riesce ad essere istrionico quanto l’originale, ma risulta comunque il godibile omaggio di un eccellente regista ad un uomo che ha lasciato un segno indelebile nella storia dello sport e dei diritti civili.

Restando in Italia, è indispensabile menzionare “Il Mio Alì”, raccolta d’interviste di un grande giornalista troppo spesso negletto: Gianni Minà, che ha conosciuto e frequentato Cassius Clay per quarant’anni. Vale la pena citare anche “Muhammad Ali’s Greatest Fight”, di Stephen Frears, che non è propriamente un film su Ali, ma offre la possibilità di comprenderne l’impatto sociale, attraverso le vicissitudini del suo processo dinanzi alla Corte Suprema a stelle e strisce.

Ali è stato uno sportivo unico anche per la facilità con la quale si raccontava, senza fare il prezioso o centellinando il proprio verbo per mezzo di un ufficio stampa. Capitava che fosse l’intervistatore ad andarsene per primo, perché Muhammad Ali gli aveva già dato fin troppo materiale da masticare, mai il contrario.

Ali è stato innegabilmente un maestro nel raccontarsi, ma con lui narrazione e realtà spesso finivano magicamente per coincidere, come quando annunciava in che round avrebbe steso l’avversario, per poi passare ai fatti. Si atteggiava, certo, ma non stava mai cercando di venderti qualcosa, solo di esprimersi, di raccontare cos’aveva dentro.

Le sue battaglie più importanti sono state per i diritti dei neri (quando negli Stati del sud i linciaggi non erano poi tanto rari), per la libertà religiosa, contro la guerra del Vietnam, e il dibattito da lui acceso sul senso stesso d’essere americani. Sono state clamorose vittorie per knockout, ancor più di quanto, a ventidue anni, urlava “I shook up the world!” dopo aver livellato Liston, ridotto al KO tecnico.

Ali è morto venerdì, a 74 anni, ma già da tempo la sua voce era silente, zittita dalla malattia che probabilmente, è diretta conseguenza della boxe; lui ha detto di aver ricevuto talmente tanto da Dio nella prima parte della propria vita, che nonostante tutto quello che il Parkinson gli ha sottratto nella seconda, il bilancio resta comunque in pari.

Come detto all’inizio, non ci sono parole atte a descrivere la parabola di questo grande uomo e atleta, ma speriamo di avervi fatto venire voglia di conoscerlo meglio, tra un libro e un bel film. Muhammad Ali è stato il migliore; spetta a noi non dimenticarlo.

2 thoughts on “Muhammad Ali, il più grande di tutti

  1. Ho letto questo articolo solo ora solo perche quando l’ho ricevuto non avevo il tempo per leggerlo con calma.
    Ora che l’ho fatto non posso che farti i complimenti. Veramente un articolo bellissimo su un grandissimo campione fuori e dentro il ring! grazie!

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