Nel bel mezzo delle Finali NBA 2001 tra Lakers e 76ers, Larry Brown fece un aggiustamento che non avevo mai visto prima, e che non avrei rivisto per qualche lustro: schierò quattro guardie, e un centro. Anche se la serie rimase saldamente nelle mani di Los Angeles, i quattro piccoli e la difesa run-and-jump dei vari Snow, Ollie, MacKie e Iverson, impegnarono i Lakers molto più di quanto fossero riuscite a fare corazzate come i Kings o gli Spurs.

I quattro piccoli finirono subito nel dimenticatoio, etichettati come l’espediente di una squadra palesemente inferiore, che provava a supplire con la rapidità alla mancanza di talento. Insomma, quale allenatore avrebbe pensato, razionalmente, di mettere stabilmente Kevin Ollie (che ora è l’allenatore di UConn) a marcare le ali forti?

Da quel 2001 a oggi sembra trascorsa un’era geologica, complice l’accelerazione tecnica iniziata poche settimane dopo quella Finale, quando la Commissione per il Gioco pose fine all’Illegal Defense, portando di peso le spaziature e il tiro al centro del discorso tecnico.

L’NBA di David Stern era preoccupata del numero crescente di attacchi ISO, dalle percentuali in picchiata, e anche dai punteggi bassi; così, Jerry West, Colangelo e compagnia decisero di concedere la Zone-Defense (che tante squadre, tipo San Antonio, usavano già sotto mentite spoglie) e introducendo i tre secondi difensivi.

L’NBA che vediamo oggi nacque in quel momento: già dopo qualche gara di Preseason, l’allora responsabile degli arbitri, Ed Rush, poteva dire che: “Ho visto per ora che il centro dell’area è libero, ho visto tanti tagli, movimento, trappole, rotazioni difensive. La regola dei tre secondi abbinata a quella degli otto secondi per superare la metà campo ha cambiato faccia al gioco”.

Piano piano le franchigie hanno capito che il modo migliore per usare le nuove regole difensive non era una zona statica; nel 2007 Tom Thibodeau (allora assistente di Doc Rivers ai Boston Celtics, e prima ancora di Jeff Van Gundy ai Knicks) escogitò lo shrink-the-floor, una strategia oggi adottata in varia misura da tutte le squadre, che ha costretto gli attacchi a cercare delle contromisure.

Lo shrink-the-floor si coniuga molto bene con molti dei principi degli analytics, e muove dall’idea di limitare il pick-and-roll a un gioco a due tra bloccante e palleggiatore, e di spingere l’attacco a prendere tiri contestati dalla media distanza. “Restrintosi il campo”, il tiro da tre divenne il grimaldello con il quale costringere le difese ad aprirsi e spaziare il campo.

Molti allenatori d’attacco attinsero così a piene mani dal know-how di Mike D’Antoni e dei suoi Phoenix Suns. Attenzione però: pensare che il basket odierno rappresenti la vittoria tout-court di D’Antoni sulla tradizione sarebbe fuorviante, e indirizzerebbe sul terreno dello sterile dibattito “tiro da tre sì-tiro da tre no” che tanto appassiona Byron Scott e Magic Johnson.

Oltretutto, questi Warriors viaggiano a un Pace più alto (101.84 contro il 99.05 dei Suns del 2008) ma hanno un DefRtg infinitamente migliore (95.8 contro 104.9), e questo testimonia quanto siano frutto di un “melting pot” di idee, anziché pedissequi seguaci di una o dell’altra filosofia.

La NBA viaggia spesso per mode, e così la revanche portata a termine dai Warriors ha convinto molti GM e allenatori ad allinearsi e copiare superficialmente (il volume di tiro dalla lunga distanza, o il numero di “tocchi”) senza carpire la sostanza (la qualità, la precisione e la rapidità con la quale Golden State esegue in ambedue le metà campo).

Assistiamo a squadre che tirano tanto da tre, ma senza ritmo, o che fanno mille passaggi che però non spostano di un centimetro la difesa, cioè l’antitesi del “far trovare energia alla palla” insegnato da Mike D’Antoni. Se il tiro da tre diventa uno stilema fine a se stesso, è tanto dannoso quanto un isolamento da cinque metri!

Ogni sistema offensivo funziona ed è vincente nella misura in cui spacing, ritmo e letture dei giocatori sono quelle giuste, e questo è un ragionamento valido per la Princeton come per il Triangolo, piuttosto che per l’Attacco UCLA o la Motion Offense. Oggi come ieri, se i tuoi giocatori sono svogliati, o hanno una cattiva selezione di tiro, non sarà il sistema, di per sé, a fare la differenza.

Un’altra trappola nella quale si rischia di cadere, è di pensare di stabilire se il basket di oggi sia meglio o peggio di dieci, venti, o trent’anni fa (posto che i San Diego Clippers e i Boston Celtics di Larry Bird non giocavano nello stesso modo, proprio come il gioco dei Warrios odierni non è lo stesso dei Brooklyn Nets).

Se proprio non si resiste al confronto, ci sembra più corretto parlare di preferenze soggettive, anziché di cosa sia meglio in assoluto, perché non si gioca a basket in astratto, ma in base a delle precise contingenze con le quali si deve fare i conti. In altre parole, potete preferire la granita o la cioccolata calda, ma siamo tutti d’accordo che a Ferragosto è meglio la granita, e quando fuori nevica, una cioccolata calda!

Se un coach del 1989 (con regole, atleti e tiratori di trent’anni fa) si fosse messo in testa di giocare come i Warriors odierni, avrebbe combinato un disastro; specularmente, un allenatore del 2015 che pretendesse (con regole, atleti e tiratori attuali), di giocare come i Detroit Pistons del 1989, potrebbe scordarsi i traguardi raggiunti allora da Chuck Daly.

Dice James Jones (che ha giocato sia nei Suns di D’Antoni, sia negli Heat di Spoelstra, che usavano Battier da stretch-four): “Il gioco cambia. Questo sistema poteva farti vincere, dieci anni fa? No, non poteva, e, di fatto, non è mai successo. Il gioco e i giocatori sono rimasti uguali ad allora? No, oggi ci sono caratteristiche tecniche completamente diverse, un modo di stare in campo completamente differente. Oggi questo sistema funziona, perché la NBA si è spostata su questi binari”.

Torniamo così a coach D’Antoni e coach Thibodeau, i due allenatori che, tra attacco e difesa, sono stati antesignani di un’era che non si esaurisce nelle loro idee, ma che da esse ha tratto abbondante spunto, per poi elaborarle in direzioni che Mike e Tom non avevano pronosticato.

Alla Sloan conference del febbraio scorso, Jeff Van Gundy ebbe a dire: “Secondo me, Mike D’Antoni ha rivoluzionato il basket”. Difficile dargli torto, se pensiamo a Golden State, agli Spurs del 2014, e all’attacco “pace-and-space” degli Heat (costruito grazie all’aiuto di Phil Weber, ex assistente di -indovinate un po’- Mike D’Antoni).

Secondo Charles Barkley (che, in linea di massima, ha un’opinione su qualsiasi argomento), quella di Thibodeau è “la miglior difesa che io abbia mai visto”. La sua Chicago, in effetti, faceva bene tutto: proteggeva il verniciato, forzava la palla sul lato, faceva stunting (fintare l’aiuto), commetteva pochi falli e sovraccaricava costantemente il lato forte, senza però compromettersi, costringendo l’attacco a forzare almeno due rotazioni per avere speranze di trovare un tiro decente.

Quando i Warriors aquisirono Andrew Bogut, nel 2012, passarono da una difesa sul pick-and-roll di tipo “show”, prediletta da Mike Malone (allora assistente di Mark Jackson), a quella “ice” di Thibodeau, preferita dall’altro assistente Darren Erman. Con quell’aggiustamento, la difesa dei Dubs passò da 27° a 13° nella NBA.

Ne Thibs ne Mike, però, potevano predire quel che sarebbe scaturito dalle loro idee nel giro di qualche anno. Per dirne una, Tom Thibodeau si è sempre affidato a un rim-protector (e D’Antoni ha affermato più volte che avrebbe voluto averne uno), mentre le difese d’ultima generazione possono farne a meno, grazie alla felice intuizione di Jason Kidd e Sean Sweeney, che due anni fa, ai tempi dei Nets, s’inventarono un’ottima difesa che cambiava su tutti, pur senza grandi difensori individuali.

Approdati ai Milwaukee Bucks, Sweeney e Kidd hanno costruito il secondo miglior defensive rating della Lega proprio su questi presupposti, approfittando di una pletora di giocatori d’ala e di tanti atleti dalle braccia lunghe.

Il miglior DefRtg del 2015 appartiene ai Golden State Warriors, che, non a caso, hanno tantissimi giocatori attorno ai due metri, e alternano una difesa Kidd-style (quando cambiano costantemente), e una Thibs-style (che si vede più spesso con Andrew Bogut sul parquet), opportunamente miscelate dalla sagacia difensiva di Ron Adams, che dalle parti della Oracle Arena è soprannominato “il Guru”.

Adams, 68 anni di rara cultura, è un ex-assistente di Thibodeau, e della difesa dice: “La cosa veramente divertente, è vedere un gruppo di giocatori che diventa connesso difensivamente, e che lavora in concerto. È quasi poesia”. Basta sentirlo parlare, e vien già voglia di piegare un po’ di più le ginocchia.

Quando, nel corso della passata stagione, i Dubs persero il centro australiano per infortunio, la loro efficienza difensiva rimase invariata, grazie alla grande duttilità di un impianto di gioco che non era costruito su Bogut, ma su una serie di regole complessive.

Da capo-allenatori, Mike D’Antoni e Tom Thibodeau non hanno raccolto quanto avrebbero meritato per le loro idee, e forse questo è dipeso dai limiti dei roster a disposizione (perfetti per esaltarne le doti ma anche per esacerbarne le lacune) e dal loro carattere, poco incline al compromesso.

Se Mike ha un difetto, è probabilmente una certa rigidità nelle proprie convinzioni, che ti aiuta, nel momento in cui devi remare controcorrente, ma poi ti limita quando devi fare degli adeguamenti (vedi ai Lakers, quando l’asserto d’antoniano condannò Pau Gasol alla panchina).

Allo stesso modo, Tom Thibodeau, da Head-Coach dei Chicago Bulls, ha costruito una difesa for the ages, un meccanismo virtualmente perfetto, ma mai un attacco efficiente, anche dopo l’aggiunta proprio di Pau Gasol, continuando a vincere e battere sullo stesso tasto, mentre i rapporti non propriamente sereni con il GM Gar Foreman (che aveva licenziato Ron Adams per motivi mai chiariti) facevano il resto.

Vincere non è tanto (o solo) questione d’avere l’idea giusta, ma d’applicarla al contesto; Phil Jackson si è guadagnato 11 anelli grazie alla capacità di adattare il Triangolo ai giocatori –fossero Michael Jordan e Scottie Pippen, piuttosto che Shaquille e Kobe, o ancora Bryant e Gasol– accettandone le caratteristiche e passando da squadre eminentemente difensive (i primi Bulls) ad altre a trazione anteriore (gli ultimi Lakers), e lo stesso discorso vale per Gregg Popovich e i suoi Spurs.

Jerry West e Bob Myers hanno costruito i Golden State Warriors in funzione della flessibilità, e non dello small-ball, che Steve Kerr ha abbracciato solo quando (complice l’infortunio d’inizio stagione occorso a David Lee e l’esplosione di Draymond Green) divenne chiaro che giocare il sistema in chiave small era più redditizio.

Coach Steve Kerr è l’epitome di una mentalità aperta ad una pluralità d’influenze, lui che ha giocato sia per Jackson che per Popovich, ed è stato GM dei Suns di D’Antoni e Gentry; senza preoccuparsi tanto di teorie e schieramenti, Kerr ha pescato a piene mani dall’esperienza dei suoi maestri, costruendo una squadra, che, a detta di D’Antoni “Ha tutto quel che si può desiderare. Un rim-protector, un’ala forte che sa giocare e segna da tre. Un grande playmaker, grandi tiratori in tutti i ruoli. Includono praticamente ogni tipo di soluzione”.

In più, li allena un californiano dalla volontà di ferro, che crede nel potere del dialogo, sia quando si tratta di imparare dai colleghi, che quando si tratta di far accettare una decisione indigesta ai giocatori (vedi Iguodala e Speights).

Nel corso di questa piccola disamina abbiamo fatto un sacco di nomi, da Adams a Weber, da Winter a Sweeney, e questo perché il lavoro di squadra non riguarda solo il campo; le organizzazioni vincenti, come le evoluzioni del gioco, sono sempre frutto di un “collective effort”.

Un anno fa, parte del front-office dei Warriors stava per scambiare Klay Thompson con Kevin Love. Steve Kerr e Jerry West si misero di traverso, convincendo poi tutti gli altri a mantenere intatto il nucleo degli Splash Brothers. Quando, vinto l’anello, i giornalisti chiesero a Steve se fosse merito suo, l’ex play di Arizona rispose che è merito del modo in cui Golden State prende le proprie decisioni.

Una delle massime del compianto John Wooden era che “è incredibile quali risultati si possano ottenere, quando a nessuno importa chi si prende il merito”, e se questo articolo ha un senso, è proprio questo: la bellezza del basket è nella complessità, nel cercare d’integrare idee diverse, trasformandole in realtà funzionali, senza mai convincersi d’aver trovato la Verità, o la pallacanestro perfetta e definitiva.

5 thoughts on “D’Antoni, Thibodeau ed i Golden State Warriors

  1. Bell’articolo Fra, la duttilitá dei giocatori di Golden State (su entrambi i lati del campo) sta influenzando tutte le franchigie. L’unica inversione di tendenza la vedo negli Spurs. Sará una bella finale di conference.

  2. Molto interessante. Come sempre vince chi è intelligente e quindi duttile, idee immutabili, per quanto buone, difficilmente sono vincenti.

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