La scorsa settimana ho avuto la fortuna di capitare dalle parti di New Orleans, città per certi versi poco “americana” ma non per questo meno bella, anzi forse è proprio il suo particolare mix di culture, architetture e stili a renderla molto più interessante delle varie Atlanta, Dallas o simili.

Viaggiare, anche se come in questo caso per motivi di lavoro, mi piace sempre (magari un po’ meno quando nel viaggio di ritorno ti cancellano due voli su tre…), ma devo dire che la prospettiva di potermi intrufolare allo Smoothie King Center per testimoniare l’arrivo in città dei Cleveland Cavaliers rendeva il tutto ancora più stimolante.

Ovvio, in primo luogo c’era la curiosità un po’ voyeuristica di vedere da vicino quel fenomeno sportivo e mediatico che risponde al nome di LeBron James.

Volenti o nolenti, record negativo nelle Finals o meno, direi che abbiamo il discreto privilegio di poter seguire la carriera di uno dei primissimi giocatori della storia di questo gioco. Personalmente, trovarmi a meno di un metro da lui nel prepartita mi ha lasciato una sensazione forte, e non solo perché parliamo di un uomo di 205 centimetri per 115 chili (che peraltro mascherato da Pennywise di IT deve fare un discreto spavento).

No, è che proprio intorno a lui si avverte una specie di magnetismo, testimoniata anche dal fatto che nella zona del suo riscaldamento pre-gara a circa due ore dall’inizio della partita c’erano già diverse centinaia di persone adoranti, cosa non comunissima neppure nella lega sportiva più seguita del mondo.

A parte le discretissime cuffie d’oro (massiccio?) con cui è sceso in campo per la sua mezz’ora di warm-up, sono stato colpito dalla sincera amicizia che sembra esserci tra lui e Wade. Sono infatti arrivati sul parquet assieme e hanno scherzato spesso, testimoniando come il loro rapporto abbia certamente giocato un ruolo importante nell’arrivo di Dwayne a Cleveland dopo il buyout ricevuto dai Bulls.

I due, nelle idee della dirigenza Cavs, saranno quelli che dovranno sostenere le principali speranze della franchigia di tornare sul tetto del mondo cestistico, perlomeno una volta arrivati alla postseason.

Non che il resto della formazione dei Cavs sia privo di giocatori di rilievo, tutt’altro. Nonostante la partenza del principale delfino di Sua Maestà, quel Kyrie Irving partito alla volta di Boston per trovare un trono tutto suo, Cleveland può contare su un roster profondo e di assoluta qualità.

Il ruolo di secondo violino appartiene ora di diritto a Kevin Love, di cui spesso si ricordano i (pochi) difetti ma altrettanto frequentemente si dimenticano i (tanti) pregi. Il lungo da UCLA è pur sempre un pluri-all star che sa giocare in post, tirare da tre, mettere la palla per terra e catturare vagonate di rimbalzi.

Non sarà mai un baluardo difensivo ma probabilmente la variazione tattica che in questa stagione lo vedrà molto spesso giocare da numero 5, lo potrebbe avvantaggiare.

Nelle posizioni di ala i Cleveland schiereranno spesso la coppia James-Crowder, anche (se non soprattutto) in prospettiva Golden State Warriors, mentre JR Smith sarà presumibilmente da qui alla fine della stagione la guardia titolare, in quanto proprio Wade si è offerto spontaneamente di partire dalla panchina per migliorare il rendimento della second unit.

Decisione da veterano che dimostra un commitment non da poco, specie se si pensa che di fronte alla proposta di fare la stessa cosa ad OKC il buon Carmelo Anthony si è fatto una grassa risata.

La posizione di playmaker al momento attende invece ancora un proprietario definitivo. Sia Isaiah Thomas, arrivato dai Celtics in quella che è stata sicuramente la trade più importante dell’estate NBA, che Derrick Rose, firmato da free agent ad un minimo salariale che fa tristezza al ricordo del giocatore pre-rottura del crociato, sono attualmente ai box per infortunio.

Entrambi si sono fatti vedere nel prepartita, svolgendo alcuni esercizi di tiro assieme ad un preparatore dei Cavs. In particolare Thomas è sembrato già abbastanza pimpante e allegro, facendomi presumere che forse potrebbe rientrare in anticipo rispetto ai tempi previsti (si parlava di gennaio), mentre Rose mi è parso più incerto negli appoggi e scoraggiato nello sguardo, segno che il problema alla caviglia potrebbe essere lungi dall’essere risolto.

Il resto della truppa comprende diversi altri pezzi importanti, da quel Tristan Thompson che al momento sembra il più penalizzato dalla nuova rotazione di Coach Lue fino ad Iman Shumpert, dato come possibile partente in una caccia ad Eric Bledsoe che però sembra essere terminata prima di cominciare, con in mezzo i vari Korver, Zizic, Green, Frye, Osman.

C’è persino Josè Calderon, la cui firma mi era sinceramente passata inosservata fino a quando non l’ho visto fare stretching nel pregara assieme ai suoi compagni. In generale u  gruppo dall’età media piuttosto elevata, ma con esperienza da vendere.

La stagione comunque è lunga, ci sarà tempo per tutti di recuperare e di vedere la squadra al completo, perchè nonostante la partenza a rilento i Cavs restano nettamente i favoriti della Eastern Conference, anche stante l’infortunio di Hayward che ha azzoppato le speranze di Boston.

Se Cleveland però ha poco da dimostrare, stessa cosa non si può dire della formazione padrone di casa. I New Orleans Pelicans sono alla stagione della verità, dopo che l’arrivo in città di DeMarcus Cousins in una trade che ha sorpreso molti (tra cui lo stesso DMC) ha portato molte speranze ma ad oggi ancora pochi risultati.

Sono in diversi a pensare che nel basket moderno fatto di transizione e tiri da tre punti la strutturazione a due lunghi sia anacronistica e poco efficiente. Personalmente sono invece ottimista rispetto alla riuscita di questo “esperimento”, perchè stiamo parlando di due tra i migliori venti giocatori della NBA e i grandi giocatori trovano quasi sempre il modo di rendere se messi nelle condizioni giuste.

Ho (molti) più dubbi sul resto del roster e sul fatto che il direttore d’orchestra più adatto possa essere Alvin Gentry, che infatti si trova su una delle panchine più calde della Lega e al momento della presentazione delle squadre è pure stato accolto dai fischi del pubblico presente al palazzo.

Tornando alle impressioni sui giocatori visti da vicino, devo dirvi che Cousins è grosso. MOLTO grosso. In pratica un enorme armadio a due gambe, che però si muove con una grazia impensabile per un uomo di quella mole e che tira con mano morbidissima da tutte le posizioni del campo.

Nel prepartita è apparso allegro, forse ancora sulla scia emotiva della prestazione da 41+23 con cui ha sotterrato i suoi ex compagni dei Sacramento Kings (squadra amata ma non troppo nel corso delle sue otto stagioni in California), ma l’impressione è che sia uno di quelli con cui scherzare ma fino ad un certo punto.

Di sicuro io preferirei andare ad infilare il braccio nella bocca di uno di quegli alligatori tanto popolari da queste parti che mettermi a litigare con lui, ma in realtà il discorso vale per quasi tutti i giocatori di questa Lega, che dal vivo sono sempre più grandi di quanto appaiano in televisione tanto quanto le cheerleaders sono molto più minute di quanto si immagini: altezza media 1 metro e 55, alcune sembrano poco più che bambine.

Anthony Davis non sfugge a questa regola, anzi semmai il discorso qui è ulteriormente estremizzato. Davis non è lungo, è infinito. Fidatevi, io sono un metro e novantacinque e di fianco a lui mi sentivo un bambino… Inoltre rispetto al suo ingresso nella lega ha sicuramente messo su almeno una decina di chili di massa muscolare, rendendolo alla vista una specie di superuomo nietzschiano.

Già, perchè oltre ad essere un freak of nature a livello fisico il ragazzo palleggia in mezzo alle gambe e parte come una guardia. Una guardia FORTE, rendendo il tutto praticamente immarcabile da qualsivoglia essere umano (sarei curioso di vedere un suo duello uno-contro-uno con Giannis, ma ho parlato di esseri umani, non di alieni venuti dal futuro).

Ripeto, la coppia mi stimola moltissimo anche se il contorno è letteralmente quello che è. Escluso Holiday, che la sua parte la fa e l’ha sempre fatta, gli altri due del quintetto base sono E’Twaun Moore e Dante Cunningham. E qui scatta doveroso il minuto di silenzio…

Non che in panchina ci siano ‘sti tesori nascosti. Ian Clark, Cheick Diallo, Tony Allen e Alexis Ajinca non sono nomi per cui strapparsi i capelli dall’emozione, nè tantomeno lo sono le salme di Omer Asik o Jameer Nelson.

Per il primo la diagnosticata sindrome di Crohn ha perlomeno dato un nome all’involuzione cestistica subita dal turco negli ultimi anni, mentre per il secondo i problemi oltre che nella carta d’identità credo risiedano nel regime alimentare, in quanto visto nel riscaldamento sembrava in forma come il pizzaiolo sotto casa mia.

Ci sarebbero poi anche Rajon Rondo e Josh Smith (appena firmato), ma entrambi hanno già decisamente imboccato il viale del tramonto e, soprattutto il primo (attualmente infortunato ma presente al palazzetto per il riscaldamento), potrebbero potenzialmente portare più problemi che soluzioni.

Nonostante ciò, credo che il combinato di talento dei due mostri di cui sopra dovrebbe essere sufficiente a raggiungere i playoff. Di certo è stato sufficiente per questa partita, in cui i Pelicans hanno sfondato quota 120 punti in una partita in cui sono sostanzialmente stati in controllo per tutta la gara, disponendo abbastanza agevolmente di un LeBron abbastanza spento (“solo” 18/3/8 per lui) e di una Cleveland davvero poco reattiva.

Davis ha chiuso con trenta punti e undici rimbalzi, Cousins ha chiudo una roboante tripla-doppia 29/12/10 proprio nei minuti finali e il duo Holiday-Moore ha aggiunto ben 54 punti di fatturato complessivo, lasciando al resto del roster solo le briciole nella parte rosa del referto.

Dall’altra parte, ad esclusione di un Love (costretto a ritornare alla posizione di numero 4 dalla presenza dei due dioscuri in maglia bianca) in doppia-doppia da 26 e 11 con 5 triple il resto dei Cavs ha dimostrato ben poco mordente, soprattutto in difesa, ma LeBron nel dopo partita si è detto ben poco preoccupato e fiducioso che presto rivedremo i veri vicecampioni NBA.

Mi sento di concordare con The King, resto convinto che nonostante la partenza ad handicap la formazione dell’Ohio navigherà a velocità di crociera fino alla fine della regular season come fatto nella passata stagione, anche a costo di sacrificare la prima posizione della Conference, per poi salire di colpi una volta cominciati i playoff.

Il livello generale della Eastern permette di fare questo genere di calcoli, cosa che però non è concessa a dei Pelicans risiedenti in una Western Conference che quest’anno appare ancora più complessa delle ultime stagioni. Escluse Sacramento, Dallas, Phoenix e Lakers, le altre undici squadre hanno tutte velleità di postseason e si daranno battaglia fino alla ottantaduesima partita.

New Orleans ha la possibilità di far bene? Certo, ma l’intesa tra le twin towers dovrà funzionare alla perfezione e i compagni dovranno rendere al massimo delle loro (limitate) possibilità. Altrimenti a fine anno è molto probabile che DMC faccia le valigie, lasciando nuovamente solo il povero Davis in un deserto tecnico da cui nemmeno uno con il suo smisurato talento può tirarsi fuori da solo.

Un motto in voga nel mio fantabasket dice che per arrivare ai playoff bastino “AD + 11 str**zi” ma temo che questo non valga per il mondo reale.

Qui sotto potete trovare altre foto a testimonianza della mia nuova esperienza da insider sui campi della NBA (qui e qui per le altre due puntate). Posso dirvi che ogni volta in cui mi trovo faccia a faccia con questo fantastico mondo il mio stupore resta immutato e l’emozione mi assale tipo scolaretto al primo giorno di scuola. Ma sarà sicuramente un problema mio… :-)

2 thoughts on “A night at the game: Cleveland Cavaliers @ New Orleans Pelicans

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.